21 agosto 2021

La banalità della guerra

 

La scossa afgana è stata dura da digerire: come un corpo attraversato dalla scarica elettrica, l’Occidente è steso a terra e bofonchia, nell’attesa che il malore se ne vada. Qualcuno scrive di “inevitabilità”, altri di “riscossa”, altri ancora di “speranza”: l’unica realtà è quella dell’aeroporto di Kabul, dove ci sono più morti e feriti causati dall’incresciosa disorganizzazione della fuga occidentale. Nemmeno capaci a scappare ordinatamente.

 

Terminata la guerra, ci saranno state certamente delle vendette, delle rese dei conti…è inevitabile…pensiamo alla Berlino nel ’45 con i russi in casa…ma non si sono viste le lunghe file di persone inginocchiate a terra per tagliare loro la gola, e qualche senso questa “magnanimità” talebana deve pur averlo.

I Talebani hanno compreso che sono stati in grado di riconquistare il Paese, ma sanno benissimo che nulla potrebbero fare per fermare le squadriglie di B-52 che li sotterrerebbero di bombe: perciò, hanno tolto all’avversario la ragione per bombardarli. Semplice: è bastato disarticolare la “coalizione” mondiale nata nel 2001 dopo gli attentati alle torri di New York, per le quali pare che non fossero nemmeno responsabili.

 

Gli Stati Uniti sono a terra e per un po’ non sapranno risollevarsi, alla Gran Bretagna – dopo la Brexit – non è rimasta che la strategia del pappagallo: ripetere, con molta discrezione nei termini, ciò che arriva da Washington. Russia e Cina, insieme all’Iran hanno sposato, paradossalmente, la strategia “salvinista”, ossia ognuno padrone a casa propria. L’Europa “guarda”, “osserva”, “ragiona”. E tace.

In realtà, è stata una grande vittoria cinese sugli occidentali senza che i cinesi facessero niente: sono bastate dichiarazioni compiacenti e tranquillizzanti, mentre la Russia gongola per la ferrovia che dall’Uzbekistan raggiungerà Mazar I Sharif e l’Iran quella che dal territorio iraniano giungerà ad Herat: il collegamento verso Kabul sarà secondario. L’importante, è rendere trasportabili per ferrovia le stratosferiche riserve afghane di minerali preziosi, dei quali gli USA erano già a conoscenza ma, non sapendo convivere con gli afgani, hanno dovuto rinunciare.

 

Si tratta anche d’Oro e diamanti – ma per quelli non era necessaria la ferrovia – mentre servirà per le (stimate) 60 milioni di tonnellate di Rame, per i 2,2 miliardi di tonnellate di Ferro ma soprattutto le 1,4 milioni di tonnellate di Terre Rare, oramai quasi monopolio cinese in tutto il Pianeta: il vero potere nel controllo della produzione futura – armamenti, telefonia, informatica, settore spaziale, ecc – riposa proprio nel possesso del mercato delle Terre Rare, delle quali la Cina ha fatto grande incetta ed ha stabilito contratti a lungo termine in America Latina. Il Litio dell’Argentina, della Bolivia (ed oggi quello afgano) hanno fatto pronunciare a russi e cinesi una frase fatidica nell’occasione della guerra afgana: “Un’alleanza invincibile”.

In qualche modo, la guerra afgana ha ricordato la Suez del 1956, che segnò la fine dell’imperialismo britannico in Oriente.

 

Passata la buriana, verrà il tempo di tirare le somme di questa apocalittica sconfitta nel settore orientale: si è cominciato con il fallito tentativo d’egemonizzare la Siria, terminato con una sconfitta plateale degli USA, della GB, della Francia e d’Israele nell’unico territorio che consentiva d’arrivare ai confini russi. Oggi è l’Afghanistan a segnare l’estromissione degli occidentali dall’Asia Centrale e per Dicembre 2021 è già stato deciso l’abbandono dell’Iraq da parte delle forze americane che ancora vi risiedono, con ovvi contraccolpi sul mercato petrolifero e, vista la vicinanza dell’Iran, un nuovo elemento geostrategico da tenere in conto.

Rimane ancora l’asfittica Ucraina nel cercare di tenere a bada il potente vicino, ma non ci pare che la dirigenza ucraina – abbandonata da tempo dall’occidente ed in preda ad una crisi economica che ha dimezzato il valore della moneta nel volgere di pochi anni – sia in grado di contenere i russi che, peraltro, conquistata la Crimea ed il bacino del Donbass, li lasceranno al loro (amaro) destino.

Fra pochi anni, gli unici “avamposti” dell’occidente in Asia saranno solo più la Giordania, l’Arabia Saudita ed Israele: auguri.

 

A questo punto, la parola dovrebbe tornare alle armi, ma anche qui ci sono dei punti di non facile soluzione e dovremo fare un passo indietro per scorgerli nella loro interezza.

Da dove nacque il potere occidentale?

 

Nell’Ottocento – solo per non andare più indietro – il potere della Gran Bretagna si poggiava su tre grandi direttrici: l’artiglieria, la flotta e la cavalleria.

Grazie alla flotta il potere britannico si poteva espandere in tutti i mari e le terre, grazie alla cavalleria poteva controllare qualsiasi tentativo di rivolta e grazie all’artiglieria dominava popolazioni e territori.

Questo fu, a grandi linee, ciò che permise il grande potere coloniale inglese.

Anche perché dominate senza possibilità di riscossa, le popolazioni coloniali permisero la nascita dei governi coloniali, in parte britannici ed in parte indigeni: fu così che nacquero le future classi dirigenti nelle nazioni ex coloniali.

Basti pensare alle migliaia di burocrati, tecnici e militari che l’India trovò all’atto dell’indipendenza, mentre un Paese come la Tanzania (ereditato dai tedeschi dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e mai “ristrutturato”) si ritrovò per gestire l’indipendenza 3 medici e circa 150 maestri elementari.

Cosa fece andare in crisi il sistema inglese?

 

Lo abbiamo visto tutti ne L’ultimo Samurai: la mitragliatrice. Senza la mitragliatrice, i samurai avrebbero vinto.

Crollata la cavalleria, toccò alla fanteria assumersi i compiti e, nella Prima Guerra Mondiale, sappiamo a quale disastro si andò incontro: l’artiglieria dovette assumersi il compito di distruggere le fanterie avversarie, ma l’artiglieria costava, ogni proiettile costava caro. E si combatté per quattro anni, fin quando i rifornimenti di granate di uno dei contendenti s’esaurirono.

Rimaneva la flotta, ma la flotta aveva adesso bisogno d’esser protetta dai velivoli avversari e, nonostante la nullità della flotta tedesca, nella Seconda Guerra Mondiale la flotta inglese fu decimata.

 

Dopo la fine della guerra la situazione trovò un nuovo equilibrio: le portaerei americane controllavano i mari…l’URSS non ne aveva quasi…ma l’URSS non ne aveva bisogno: dopo Hitler e Napoleone, venite a conquistarci.

E furono proprio gli sconfitti, i tedeschi, a procurare l’arma che avrebbe segnato un nuovo dissesto: prima il razzo, poi il missile.

Per molto tempo ci si rifugiò nelle certezze del nucleare: oggi, con USA, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, Israele, Pakistan, India, Nord-Corea…più chi si prepara ad accodarsi…c’è oramai da stare bene attenti a premere il bottone.

 

Gli americani avrebbero potuto portare in Afghanistan un migliaio di carri armati e blindati (come avevano fatto i russi) del costo di milioni di dollari ciascuno, solo per vederli distruggere da missili spalleggiabili, del costo di migliaia di dollari ciascuno. E non lo fecero.

Avrebbero dovuto creare un solido governo coloniale, ma senza il controllo del territorio (per un massimo del 50% raggiunto) non potevano farlo: oltretutto, non avevano esperienza di governi coloniali.

Così, se ne sono andati: tanto abbiamo le portaerei che controllano i mari…le rotte…

Fino a un certo punto: il bello è che gli americani lo sanno benissimo.

 

Fintanto che si tratta di controllare la pirateria qualche fregata basta ed avanza…ma in uno scenario di vera guerra – senza poter usare le armi nucleari – il problema diventa serio.

Basti pensare alla guerra in Iraq del 1991: una manciata di missili Scud  del 1950 lanciati dall’Iraq su Israele – e per farceli arrivare avevano ridotto la testata bellica da 1 tonnellata a cento chili d’esplosivo – causarono 156 morti fra la popolazione israeliana, morti che gli israeliani nascosero dichiarandone uno solo, morto d’infarto.

I famosi “Patriot” o cose del genere non beccarono niente, perché la velocità dei missili che scendevano dalla stratosfera era troppo alta per intercettarli: per prenderli sarebbero stati necessari dei laser di potenza a lunga gittata. Peccato che, per ora, esistano solo sulla Enterprise di Star Trek.

 

I missili a lunga gittata a velocità ipersonica, invece, fanno già parte degli arsenali di Russia, Cina ed anche degli USA: solo che gli altri non pretendono di governare tutti i mari del mondo, mentre gli americani sì.

Una salva di tre-quattro missili lanciati a breve distanza di tempo, non sono intercettabili da nessuna nave e, quando incontrano una portaerei, generano un disastro epocale: perforando il ponte di coperta, incontrano aerei e serbatoi di kerosene che esplodono in un attimo. Poi, incontrano anche l’apparato motore nucleare. Non vado oltre.

I sottomarini possono lanciare missili?

Certo, però o sono missili a testata nucleare oppure causano poco danno, anche perché i sottomarini non hanno batterie di missili così fornite da colpire così tanti bersagli: sono stati pensati per la guerra nucleare e le armi convenzionali sono soltanto un adattamento.

Anche l’USAF, purché attrezzata con il meglio del meglio, può fare “cappotto” nelle guerre “non convenzionali”, ossia contro l’Iraq o l’Afganistan: contro l’Iran, ad esempio, non sono andati oltre qualche drone.

 

In una vera guerra non nucleare non si può prevedere cosa potrebbe succedere: certamente Russia e Cina hanno usato parole molto pesanti – “alleanza invincibile” – ma la realtà sarebbe proprio difficile da individuare.

Perciò, la strategia procede con questi colpi – in parte diplomatici, in parte militari – ma sempre senza raggiungere il limite della guerra: all’interno di questa strategia, per ora, l’occidente s’è visto perdente senza condizioni. In Siria, in Ucraina, oggi in Afghanistan.

 

La scelta, in anni lontani, fu una scelta del capitalismo internazionale: utilizzare nazioni con basso costo del lavoro per conquistare mercati e sconfiggere competitori. Alla fine, proprio quelli che dovevano essere dei “mezzi di produzione” e basta si sono rivelati vincenti: riflettiamo sulla non volontà di Marchionne d’intraprendere la via dell’auto elettrica, ad esempio, e cosa ha portato come frutti, quando invece gli Agnelli, negli ultimi anni del millennio, già sperimentavano le auto elettriche.

Oggi, la Cina, ha nelle sue mani il mercato dell’auto elettrica a costo contenuto ed ha conquistato la benevolenza afgana per avere a disposizione proprio i minerali che servono per costruirla. Sta costruendo a tamburo battente una grande Marina, ma non la muove mai dal mar Cinese e non va a cercarsi dei guai dappertutto.

 

Invece, si muove agilmente in tutto il Pianeta per acquisire contratti sui minerali che le servono, ma non “strozza” mai sul prezzo chi vende: domani, se avranno più possibilità economiche, verranno da me a comprare.

Oramai la Cina spazia nella sua tecnologia da un settore all’altro: dalla meccanica appresa in anni lontani dall’alleata URSS al tessile, appreso soprattutto in Europa: vi meravigliavate di qualche decina di migliaia di cinesi a Prato? Erano solo l’avanguardia, per imparare: oggi, sono 13 milioni gli addetti all’industria tessile cinese, 13 milioni che lavorano su macchine tecnologicamente avanzatissime e di buona qualità di prodotto. Poi venne l’elettronica e l’informatica, fino all’acquisizione della IBM (oggi Lenovo) ma soprattutto i grandi progressi nell’elettronica della difesa e dello spazio. Anche nelle energie rinnovabili la Cina guarda avanti, anche se non basta ancora per sopperire alle necessità dell’industria: in ogni modo, ha ben 350 GW di potenza eolica installata – maggiore di quelle di Europa, Africa, Medio Oriente e America Latina messe assieme – e procede a balzi del 78% sull’anno precedente.

Non conosciamo la ragione di un simile balzo economico sul resto del Pianeta: possiamo solo riconoscere che la loro politica estera non è brutale come lo fu quella europea e non è nemmeno grezza come quella americana. Ci sanno fare: riconosciamolo.

Inutile raccontarsela: noi europei non contiamo quasi più niente nei grandi mercati internazionali. Abbiamo rinunciato a troppe cose: come quando facemmo fuori Gheddafi che era il nostro garante per il grande progetto tedesco Desertec, ossia la captazione d’energia solare nel deserto libico che ci avrebbe consegnato, da solo, il 25% dell’energia necessaria in Europa. E perché? Per seguire Sarkozy o la Clinton? La Germania, solo per ricordarlo, non mosse un dito contro Gheddafi: l’Italia s’accodò, scodinzolando, quando pochi mesi prima era stato ricevuto a Roma in pompa magna.

Adesso è tardi per recriminare, per rimpiangere le occasioni perdute: non abbiamo più chance per far sentire la nostra volontà. Ammesso d’averne una.

02 agosto 2021

Le radici dell’antisemitismo

 

Stemma dei Rothschild


La vicenda dell’antisemitismo, che per noi giunge solo ad Hitler o poco oltre, ha invece origine in tempi molto lontani: i primi a praticarlo furono gli antichi Romani.

Oddio, per i Romani non si distingueva molto fra Ebrei e Cristiani e, dunque, le due vicende ebbero parecchie interconnessioni: la prima, evidente, è che Gesù nacque ebreo.

I Giudei avevano combattuto duramente contro i Romani e non furono sconfitti definitivamente che nel 70 d.C. dopo l’assedio di Tito, figlio di Vespasiano: lì, iniziò la diaspora ebraica. E’ plausibile pensare che, dopo una lunga e sanguinosa guerra, non corresse proprio buon sangue fra Romani e Giudei…ma si trattava di scenari comuni a tante altre conquiste.

 

I Cristiani, almeno storicamente, quasi non esistevano: Giuseppe Flavio – ex generale giudeo poi diventato molto amico di Vespasiano, al punto di prendere il nome della sua stessa gens – riporta (tramite Plinio il Giovane) qualche notizia su un certo Gesù Cristo che afferma essere un maestro molto ben voluto e, soprattutto, un essere “pacificatore” (e quindi molto lontano dalla ideologia dei guerriglieri Zeloti). Su questi resoconti, però, cala il dubbio degli amanuensi medievali: quanto dell’originale, veramente scritto proprio dal giudeo/romano, è stato ri-scritto fedelmente?

E Ponzio Pilato?

 

Altro bell’affare: carnefice per alcuni, santo per i cristiani ortodossi etiopi. Vacci a capire.

Insomma, anche prendendo per buona la descrizione degli Evangelisti (postuma d’ameno mezzo secolo dopo la morte di Gesù), si giunge ad un risultato di poca rilevanza storica: fece frustare o fustigare Gesù? C’è una bella differenza.

Ciò che appare fra le righe è che a Ponzio Pilato importasse poco di quella vicenda: però, nessuna esecuzione capitale poteva essere comminata se non dal potere romano. Insomma, dire che c’è buio pesto su quella storia è ancora poco: si dà per certo che un tizio di nome Gesù fu crocifisso, ma nessuno conosceva all’epoca un certo Barabba. E allora?

 

La vera pietra angolare del Cristianesimo fu Paolo di Tarso: ebreo ellenizzato che mai conobbe Gesù, però cittadino romano di lingua greca. Il quale, dopo la morte di Gesù, fu la persona che tracciò le indicazioni per la nuova fede la quale, così, dall’origine medio-orientale, si “munì” di una filosofia greca “d’appoggio” e di una liturgia latina, ovvia per avere diffusione nel vasto impero. Un bel pudding, presentato secoli dopo come un tutt’uno.

In fin dei conti, dopo queste premesse, possiamo fidarci – prendendola con le molle – solo della storiografia dell’Età Moderna, ad esser già larghi.

 

La religione Romana era un Paganesimo complesso ed era, in definitiva, una religione civile: era il Senato Romano a decidere quali culti e quali Dei andassero onorati, in seguito anche le bolle imperiali. Man mano che nuovi territori venivano conquistati, nuovi Dei comparivano per l’approvazione senatoriale: non c’era una Casellati a dirigere il simposio, e fu certamente una gran fortuna.

Siccome c’erano molti Dei, fra i popoli sottomessi, che riguardavano la salute e la malattia furono accolti come Dei “corollari” al Dio Esculapio, il quale già era il Dio greco Asclepio…insomma…nella domus medicorum ci potevano stare tutti…così i vari Dei virili e bellicosi, che erano tutti discepoli di Marte…così ognuno poteva continuare a venerare i propri Dei se “inscritti” dal Senato Romano fra quelli che erano “compresi” anche dai Romani. Il sistema, bene o male, funzionava.

In fin dei conti, il Paganesimo Romano ha molti punti di connessione con il Pantheon induista e qualche connessione col successivo buddismo, laddove però gli “dei” non godono di una esistenza inerente, bensì come manifestazioni “esplicative” di sentimenti e pulsioni presenti anche nell’animo umano: una formazione più “psichica” rispetto a quella tradizionale induista.

 

Il problema, per i senatori romani – fra una visita alle terme ed una al lupanare – era quello di garantire, agli Dei “accettati” il medesimo trattamento degli Dei tradizionali: insomma, a Roma si doveva accettare tutto in blocco e, se non accettavi, erano ceci.

Il Senato aveva anche regole curiose, quale che per alcuni riti c’era il “vietato ai minori”, mentre altri – perché apertamente in conflitto con l’etica Romana – erano addirittura proibiti.

Per questo motivo l’imperatore Adriano – ma s’era già nel II secolo d.C. – decise di mettere un poco d’ordine nelle faccende religiose e pubblicò un “Rescritto” nel quale indicava anche i Cristiani: ossia, se non c’erano altre ragioni (ad esempio il rifiuto palese d’altri riti) nessuno poteva condannare una persona, o spargere maldicenze, soltanto per la sua fede. Gli ebrei erano lontani: popolavano soprattutto Alessandria d’Egitto ed Antiochia, la seconda e la terza città dell’Impero.

Il problema erano che i primi a non accettare altre fedi erano proprio i Cristiani.

 

La figura del Dio unico (ma “trino”, e questo in seguito condusse a guai a non finire) cozzava violentemente contro una concezione poliedrica della religione, giacché sostituiva alle mille pulsioni “condivise” fra mortali ed immortali una figura unica che tutto sapeva e conosceva, ma aveva attributi così lontani da quelli umani dal finire per essere una figura esterna al vivere umano. Ossia, da quel momento “l’umanità” era più un dovere che un piacere e tutti divennero “schiavi” di un padrone sconosciuto con attributi extra-umani e, dunque, superiori.

La cosa non fu presa tanto bene da molti pagani, ma come andarono a finire le cose lo sappiamo e con Costantino il Cristianesimo divenne religione di Stato: difatti, già verso la metà del millennio, iniziarono le prime persecuzioni verso gli ebrei.

La questione era semplice: i Giudei hanno ammazzato Gesù Cristo.

 

A parte che Gesù, senza il consenso dell’autorità Romana mai avrebbero potuto crocifiggerlo ma, soprattutto, sarebbe come se oggi decidessimo che gli americani sono tutti da eliminare perché hanno ucciso Sacco e Vanzetti. Oppure gli inglesi, che impiccarono gratuitamente a Napoli l’ammiraglio Caracciolo dopo aver invitato la moglie per un tè a bordo dell’ammiraglia di Nelson, giusto per vedere con i suoi occhi il marito appeso.

Insomma: le colpe dei singoli non possono generare ritorsioni che finiscono addosso ad etnie, razze o religioni dopo secoli.

 

Il problema della ritorsione si diluisce con le generazioni: in Europa più nessuno può avercela a morte con i tedeschi, ma chiedetelo ai nostri genitori o nonni. Nei Balcani, quando la diluizione dei dolori cominciava a scomparire, capitò un’altra guerra dove i croati tornarono ustascia…i serbi cetnici, ecc…il tempo diluisce e cancella, ma con fatica.

Come mai nel caso dell’antisemitismo non è accaduto?

 

Perché i cristiani decisero – e questa proibizione fu valida per tutto il Medio Evo, quando “ricchezza” era quasi sinonimo di “terra” – che la proprietà immobiliare agli ebrei era proibita. Per più di mille anni! Vi rendete conto di quale affronto fu verso persone che magari non erano nemmeno parenti dei cosiddetti “assassini” di Gesù? Di certo non lo erano gli askenaziti, poiché popolazioni d’origine georgiana che si convertirono all’ebraismo nel VIII secolo d.C. e poi migrarono a Nord, verso l’Ucraina e la Polonia. Anche i sefarditi…sì, almeno sulla carta erano i discendenti degli ebrei di Gerusalemme…passati poi ad Alessandria d’Egitto, poi in Marocco, quindi in Spagna ed infine nelle Fiandre dove gli spagnoli li avevano cacciati.

Senza terra per sostentarsi è ovvio che si dedicarono dapprima all’artigianato ed al commercio e, infine, all’usura: perché? Poiché i nobili del XVII-XVIII secolo non avevano altro modo per procurarsi i soldi che, senza pensarci troppo, perdevano ai tavoli da gioco. E, il prestito ad interesse, era considerato peccato sia per i musulmani e sia (in modo molto meno rispettato) per i cristiani.

 

Il famoso “scudo rosso” dei Rothschild altro non era che l’insegna convenzionale dove si poteva trovare un prestito ad Amburgo: in realtà, pare che la famiglia si chiamasse Muller o qualcosa di simile.

Poi, la Storia ci racconta di ebrei “maledetti” che prestarono soldi agli inglesi durante la Prima Guerra Mondiale, ottenendo in cambio le “basi” per creare in futuro lo Stato d’Israele (dichiarazione di Balfour)…ma dove avevano preso tutti quei soldi, al punto da finanziare una guerra?

Dalle ferrovie.

Il grande sviluppo delle ferrovie europee, nella seconda metà dell’Ottocento, fu possibile solo grazie a enormi prestiti ottenuti sia da prestatori ebrei, sia da banche ebraiche.

Così, furono proprio gli ebrei a mettere da parte i soldi dei giocatori d’azzardo del Settecento per poi darli alle nazioni europee per costruire le ferrovie nell’Ottocento e, infine, agli inglesi per fare una guerra. Ma, domandiamoci: la guerra la decisero gli ebrei o gli squattrinati inglesi?

 

Non diamo la colpa agli ebrei per le scellerate guerre europee del Novecento, quando francesi ed inglesi si svenarono per non concedere alla Germania un posto di primaria importanza nelle vicissitudini del continente: tanto, oggi, ci sono arrivati lo stesso.

Durante la Prima Guerra Mondiale, però, gli ebrei combatterono e morirono su entrambi i fronti senza distinzioni e nel 1938, quando Mussolini promulgò le leggi razziali, proprio nella medesima “tranche” di provvedimenti, infilò anche la promozione a Generale di Corpo d’Armata del gen. Levi (!). Ma Mussolini l’aveva già detto precedentemente che i combattenti della Grande Guerra sarebbero stati sempre rispettati.

 

E’ curiosa, comunque, l’abitudine italiana ad infilare nel medesimo corpus di provvedimenti approvati (Fascismo o dopo, non c’è differenza) leggi che c’entrano come i cavoli a merenda. Anzi, se c’è un provvedimento di primaria importanza, le altre “leggine” passano inosservate. Andiamo avanti.

 

In Germania, però, c’era la necessità di creare un “vulnus” che doveva essere sanato, giacché le popolazioni non vivevano proprio tanto bene: arbeit ed ancora arbeit, ma soldi pochi. La ragione era semplice e da ricercare nelle clausole pazzesche inserite a Versailles per punire la Germania, soprattutto da parte della Francia.

 

In termini economici, la fissazione degli indennizzi di guerra a favore di Francia e Belgio aprì un lungo contenzioso con il regime di Weimar. Furono valutati prima in 269 miliardi di marchi-oro, poi ridotti a 132
miliardi, una cifra ingentissima che oggi sarebbe prossima ai 2.000 miliardi di dollari. La Germania perse inoltre tutti i suoi brevetti industriali (tra cui quello dell’aspirina detenuto dalla Bayer), e la navigazione lungo Reno, Oder ed Elba fu internazionalizzata. Infine, la Germania dovette rinunciare al proprio impero coloniale, cioè a Camerun, Togo, Tanzania, Rwanda, Burundi, Namibia (in Africa), NuovaGuinea, Nauru e Samoa (nel Pacifico).”

(Fondazione Micheletti)

 

Questo, oltre alla perdita del 10% della popolazione ed il 15% del territorio, spartiti fra gli stati confinanti e creando ampie zone di lingua tedesca all’interno della Polonia, cosa che poi fu fra i fattori scatenanti della Seconda Guerra Mondiale.

 

Nella Germania così fortemente offesa non poteva che nascere il revanscismo hitleriano ma, andare al nocciolo della questione, non era possibile: le forze armate tedesche erano fortemente controllate da trattati internazionali che le tenevano ai minimi vitali. E, quindi, era necessario creare delle nuove “direzioni” ove dirigere il malcontento popolare. Gli ebrei, giacché commercianti, medici od altri laureati, erano perfetti.

 

I nazisti non sono certo stati gli unici: nel film “La grande scommessa” sulla crisi economica del 2008, al termine, quando il trader Mark Baum (personaggio inventato, ma che richiama la figura di Steve Eisman ed interpretato da Steve Carell) deve finalmente incassare un miliardo di dollari dalle sue operazioni finanziarie e sa che quei soldi saranno realmente pagati dalla classe media americana, dice senza mezzi termini “I media incolperanno gli immigrati, i messicani…”.

Cose che osserviamo ogni giorno anche nella politica nostrana, con lo slogan “prima gli italiani” il quale, in termini pratici, non significa niente: la Lega, anzi, vorrebbe eliminare il Reddito di Cittadinanza, che è proprio principalmente diretto agli italiani più poveri.

Allo stesso tempo, chiudendo le frontiere, finiamo per impoverire proprio l’agricoltura italiana la quale, senza una forza-lavoro di 300-400.000 persone annue nei campi, non può fare altro che ridursi alle meno remunerative coltivazioni di cereali (come sta succedendo), e non può più dedicarsi alle colture ortofrutticole di maggior pregio. Facendo credere, inoltre, che quei 300-400.000 potrebbero essere sostituiti da italiani il che è drammaticamente falso: almeno 100-150.000 italiani lasciano il Paese ogni anno per recarsi a lavorare all’estero, molti laureati, ma anche cuochi o gente che lavora nella moda, ecc.

 

In definitiva, la “notte dei cristalli” (autunno 1938) fu un’operazione abilmente orchestrata dal regime nazista per spostare l’attenzione della povertà, a fronte di tanto lavoro, solo per pagare i debiti di guerra: la successiva conferenza di Wannsee del 1942, in una situazione completamente diversa – frequentata,  furbescamente, soltanto dalle seconde e terze linee del potere hitleriano – sancì definitivamente la “soppressione” del popolo ebraico.

 

Dopo la guerra, gli inglesi offrirono una parte del Tanganika per costituire lo stato ebraico ma gli ebrei rifiutarono colpendo sia gli inglesi e sia le popolazioni arabe residenti con attentati e bombe a mano.

Seppur fosse comprensibile la disperazione ebraica per quanto era successo durante il nazismo, è un bel rebus chiedere di tornare in una terra dove si era vissuti 2.000 anni prima e fondarci uno stato solo per loro.

Senza eccedere, potremmo solo dire – comparando – che noi italiani dovremmo avere l’intera Dalmazia perché l’abitavamo 2.000 anni or sono oppure, per la medesima ragione, affermare che la Turchia dovrebbe essere dei Persiani, il Montana dei Pellerossa, la Scozia dei Norvegesi (Vichinghi) e l’Australia degli aborigeni.

Insomma: la vicenda non funziona e non funzionerà mai.

 

Nel 1952 Ben Gurion offrì ad Albert Einstein la presidenza d’Israele che rifiutò, adducendo di non averne le capacità essenziali. E, si dice, che quando rifiutò il premier tirò un bel sospiro di sollievo.

Conosciamo oramai bene la storia d’Israele e, questo, ha condotto ad una nuova stagione d’antisemitismo la quale, però, rimarrà sterile e confinata a quattro assatanati da tastiera per secoli, fin quando lo stato d’Israele esisterà e rimarrà il ricordo di Auschwitz.

Una soluzione ci potrebbe essere, ossia creare un solo Stato che comprende anche i territori arabi e governato come un qualsiasi stato democratico, ma questo si scontra con la ferma opposizione degli integralisti israeliani.

 

Perciò, dal primo antisemitismo d’origine cristiana siamo passati quello delle tastiere nascoste, che vomitano insulti senza ragione, se non quella – che ho sempre sostenuto – della strana definizione di “stato democratico” che si fonda, in realtà, su una concezione di stato confessionale, che in nessun luogo del mondo civilizzato sopravvive ancora oggi.

La Storia è anche questo: la possibilità di definire, con precisione, degli eventi e le loro cause. Che rimane, purtroppo, un ben misero conforto e sempre sofferenze, ora all’uno, ora all’altro.

19 giugno 2021

Luci e ombre nella letteratura italiana

 

Cercando le classifiche dei libri italiani più tradotti all’estero, capitano delle sorprese.

La prima, in realtà, non dovrebbe esserlo ma in qualche modo lo diventa, grattando via un po’ di polvere dai contorni della Storia.

L’autore italiano da sempre più tradotto in tutte le lingue è Dante Alighieri.

Per molti di noi, che hanno trascorso molte ore per tre anni di scuola ad ascoltar le sue sentenze, comprendo che la cosa possa apparire inverosimile, ma noi non siamo parte in causa perché possedevamo già l’originale in casa nostra: e, per giunta, scritta proprio nella nostra lingua nell’epoca in cui la lingua dei dotti non era il Volgare, bensì il Latino.

 

Capovolgendo il dilemma, c’è da chiedersi perché tanti italiani siano così stregati dalle opere di Shakespeare: sia che fosse un inglese, come sostengono attualmente ad Oxford e Cambridge la metà dei filologi e sia che fosse un italiano, come sostiene l’altra metà. Con, per sostenere le loro tesi, una faretra molto fornita di frecce per il loro arco da entrambe le parti: in ogni modo, William fu un autore inglese perché usò quella lingua per esprimersi. E morta lì.

 

Ci stupiamo, e con molte ragioni per sostenere il nostro stupore, che molti americani, russi, inglesi…s’iscrivano a dei corsi di Italiano per leggerlo nella lingua originale. La prima impressione che scaturisce è che abbiano tempo e soldi da buttare al vento: questa è la prima impronta che colpisce e che poi s’esterna quasi con un vagito dei vecchi studenti: ma come…e perché…tutte quelle ore a maledire terzine e quartine…e loro ci passano pure il tempo libero? Con gli oceani per fare surf e le steppe innevate per lo sci di fondo…Dante?!?

 

Eppure, Dante è poca cosa se circoscritto nel cortile italiano, poiché fu il cantore – oggi lo definiremmo forse un uomo della multimedialità – di tutta un’epoca: grazie a lui, una religione d’origine orientale, con una filosofia greca come appoggio ed una liturgia latina per esprimersi riuscì a creare un’immagine figurata, ma scolpita nelle menti, di realtà visiva. A mio avviso, nemmeno Dante stesso poté accorgersi della potenza della sua creazione, poiché era impossibile immaginare un simile evento nel tempo stesso in cui si verificò.

E, si badi bene, la gerarchia cattolica non appoggiò mai apertamente l’opera di Dante ma nemmeno la condannò o la bandì: tutto passò sotto silenzio ma, siamo certi, per molti secoli tutti i dotti cristiani, certamente insieme ad Agostino, Paolo di Tarso, Cicerone ed Aristotele…lessero la sua opera. Definita “commedia” tanto per non appesantire troppo il lettore.

 

Mentre la vera moglie mai viene citata, Beatrice viene glorificata sin a piazzarla dalle parti dell’Empireo, ma qui Dante la fa troppo grande: già, oggi siamo più sgamati…

Beatrice, si pensa, era la moglie di un conoscente o di un abitante del rione di S. Croce che Dante, probabilmente, non conobbe mai veramente: inoltre, morì molto giovane, cosicché gli fu possibile piazzarla in Paradiso. Ma in un altro passo si tradisce.

Nel V canto dell’Inferno, proprio dove sono sistemati i libidinosi, Dante si cheta per qualche attimo perché non se la sente di condannare con la solita frusta anche Paolo e Francesca che volano, sospinti dai venti infernali…Virgilio quasi lo richiama ma lui non risponde…eh, Alighiero, Alighiero mio…t’avessi mai visto un film di Pieraccioni…

 

In ogni caso, soprattutto in epoca Moderna, quando la stampa diffuse di più la letteratura, intere generazioni s’adoprarono per piazzare all’Inferno stuoli di vicini di casa o confinanti, mentre il medico era sempre paradisiaco…e lo zio Gaspare? Mah…quello ha sparato al mi gallo – ne son certo – però mi regalò n’ bel boccione di vino al mi matrimonio…ficchiamolo un po’ in Purgatorio, qualche anno come Vallanzasca…che poi si ripiglia…

Insomma, una religione forse troppo seria trovò una colonna sonora che poteva andar bene per tutti, dal graffiante Pasquino al gigione Marchese del Grillo e la platea s’allargava…fra il serio e il faceto.

In ogni modo, anche a me – se fossi nato in California – metterebbe male pensare di passar le giornate a studiare l’italiano: e poi? Quando l’avessi anche imparato potrei ritenere di capire Dante? No…meglio pizza e cappuccino…questa è l’Italia…

 

L’Italia che, passato Dante, fu quasi dimenticata: oggi, solo il Boccaccio gode ancora di qualche, minima visualizzazione nel mercato internazionale, dovuto alla sua capacità di mostrare il lato meno nobile e più godereccio della sua epoca. E tutti gli altri? Da Petrarca fino al Tasso, all’Ariosto ma, passati i secoli, nemmeno il Manzoni, poi i tanti poeti, fino al Verga…niente…Durlindane, pestilenze e Fresche Acque sono state triturate nell’immensa discarica della cultura umana, oppure passate all’inceneritore per il riciclo delle ceneri che hanno lasciato. Solo D’Annunzio gode ancora qualche visualizzazione, ma soprattutto per la sua figura politica, e poi siamo già in pieno Novecento…

 

Stupisce senz’altro di più il secondo posto poiché pochi di noi l’hanno sentita nominare ed è un frutto strano, soprattutto perché si tratta di un’autrice: ancora una volta, l’inveterato maschilismo italiano la spunta.

Eppure, Carolina Invernizio fu un’autrice, per dirla al femminile, con i fiocchi e le frange: moglie di un ufficiale dei Bersaglieri, poi madre, trovò il tempo per una produzione letteraria di tutto rispetto e fondò anche un salotto letterario a Cuneo, nei primi anni del Novecento, che si concluse alla sua morte nel 1916.

Disprezzata, "la Casalinga di Voghera", "l'onesta gallina della letteratura popolare", "la Carolina di servizio" come la definirono i tanti colleghi maschi dell’epoca (compreso Antonio Gramsci) ci ha lasciato una produzione monumentale: più di cento romanzi i quali ancora oggi – al tempo di Amazon e dei libri elettronici – vengono tradotti e venduti, soprattutto in America Latina.

 

Fa quasi sorridere la sua storia: come le sue contemporanee che si dilettavano nella maglia, nel ricamo e nel merletto – e, a volte, ci siamo ritrovati con armadi zeppi di lenzuola, federe e altre pregevolezze divenute problematiche per la loro conservazione – la Invernizio si dilettava nel romanzo popolare, detto “d’appendice” (“l’appendice” ai serissimi romanzi dei suoi contemporanei maschi, oggi finiti nell’inceneritore), nel poliziesco, nel giallo…e tuttora sopravvive.

Viene da pensare come l’Italia ha trattato la Invernizio e riflettere, invece, su come la Gran Bretagna ha trattato Jane Austen, Charlotte Bronte od Agatha Christie, che tuttora sono pubblicate e largamente tradotte in tante lingue…ministro Franceschini…ci facciamo una riflessione?

 

Il terzo in classifica diventò, suo malgrado, lo scrittore della “guerra fredda”…perché Giovannino Guareschi lo divenne?

L’uomo era strano, ma vero. Lo dissero fascista, poi democristiano…ma nulla è vero e palpabile.

 

Per capirlo, non posso far altro che raccontare un aneddoto che capitò nella mia infanzia. Passavo le vacanze, a volte, in Emilia nel borgo dov’era originaria la mia famiglia e, un giorno, accompagnai il mio prozio – che si definiva “fascista” – al caseificio cooperativo per comprare il parmigiano. Stetti un po’ in parte, mentre lui ed il venditore stapparono e bevvero una bottiglia di Lambrusco amabile mentre assaggiavano, insieme, la forma destinata all’acquisto.

Nel ritorno, gli chiesi se non avvertiva una contraddizione fra il suo sentirsi “fascista” e l’altro il quale, chiaramente, era un fedelissimo del PCI emiliano.

Mi diede del matto “Ma cosa c’entra mai ‘sta storia? Non capisci che prima della nascita del Caseificio Cooperativo quella gente faceva una vita ben misera, schiacciati com’erano dagli agrari e dai caseifici privati?” Non ribattei, ovviamente, nulla: avevo nove anni ed in quella frase riposa l’apparente contraddizione sociale emiliana, e non sprecherò parole per spiegarla.

 

Guareschi è stato l’unico giornalista italiano a scontare interamente una pena in carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa: chi lo mandò in galera fu De Gasperi, dopo due anni di campo di concentramento per aver rifiutato le mostrine della RSI.

Scrisse con il cuore il suo “Don Camillo” senza mostrarsi molto tenero col grande Fernandel, colpevole ai suoi occhi d’omosessualità.

Il Don Camillo fu tradotto in molte lingue però, a differenza di mille altri libri, attecchì in quelle terre.

Si radicò in Cina ed in Vietnam – diventando così la perenne disfida fra un bonzo ed il locale partito del popolo – ma, sulle prime, se ne seppe poco: d’altro canto, in quegli anni, non erano molti i lettori italiani in lingua cinese o vietnamita. Dopo la morte di Guareschi, però, gli avvocati si misero al lavoro ed iniziarono la noiosa disfida internazionale sui diritti d’autore: non ce l’ho con tutti gli avvocati, però definirli “sostituti dei topi per gli esperimenti” dai ricercatori, come affermò Robin Williams in Hook, mi pare che s’adatti bene alla vicenda.

In ogni modo, il Don Camillo di Guareschi contende, secondo gli anni, la palma del primo posto con Dante nelle traduzioni per l’estero: già…il cantore del Cristianesimo figurato se la gioca con quello della Guerra Fredda consumata fra la gente…

 

I primi tre posti della classifica sono occupati stabilmente da decenni e, per quanto appare, rimarranno tali per molto tempo: c’è poi la media classifica e la zona retrocessione.

Nella zona centrale della classifica, da molto tempo – proprio come nel Calcio – i nomi sono sempre gli stessi che salgono o scendono, ma di poco.

Le case editrici, poi, hanno qualche interesse (ben comprensibile) a manomettere un poco la classifica per evidenziare il loro “nuovo” campione, ma con scarsi risultati.

 

Oriana Fallaci spicca, fra quei nomi, per la sua grandezza, la sua non-comprensibilità se cercata fino alla radice dei capelli, la sua incoerenza radicalmente coerente ma, soprattutto, per il suo esser sempre donna fra le righe e, molto spesso, sopra al pentagramma della sua vita. Poco importa se, negli ultimi anni, la disperazione per il tumore che aveva in corpo la lasciò in balia della disperazione e del dolore che poi maturò ne La rabbia e l’orgoglio, perché quello che ci ha lasciato è di gran lunga più grande del libro che ne ha sancito la cosiddetta saggezza della senescenza.

 

Era l’amica del cuore della sorella maggiore di una mia compagna d’università: non la conobbi personalmente, però qualcosa di lei mi giunse dalle sue confidenze. Erano gli anni Settanta, gli anni di Panagulis, gli anni del Vietnam: gli anni che segnarono una generazione.

E, Oriana, per quella generazione, divenne una sorta di totem da adorare senza mai scalfirlo: per tanti ragazzi dell’epoca indicò quel sogno di donna perfetta e, per quella ragione, irraggiungibile. La donna da amare appassionatamente, da guardare negli occhi per vederci transitare mille pensieri, la madre caritatevole per un momento di dolore o di disperazione.

Solo Panagulis ebbe quel privilegio, ma Panagulis – greco – come non poteva diventare il suo Ettore od Achille che combatteva una battaglia impossibile, che ebbe solo la morte come finale prevedibile? Ma, in Oriana, scoppiò allora nuovamente la donna e forse, il fatto di non aver avuto figli, la scompose riducendola al silenzio.

In ogni modo, esser vissuti in un’epoca nella quale è vissuta l’ultima epigone “sul campo” della tragedia greca è già un privilegio, da soppesare attentamente e, se si vuole, da gustare.

 

Andrea Camilleri, invece, è stato (per ora) l’ultimo preso per il culo dalla cosiddetta cultura letteraria italiana.

Per decenni sceneggiatore – bravissimo ma sconosciuto – solo in tarda età è stato riconosciuto per l’autore che era: un altro passo da meditare per Franceschini…a che serve essere bravi, se non si ha modo di mostrarlo – e non sempre – solo quando si sta per “tirare il gambino” come dicono a Genova?

Non è stato mica l’unico a mettere se stesso nei panni di un commissario, magistrato od indagatore che dir si voglia, però Camilleri ha saputo tinteggiare il suo personaggio con garbo, insufflandogli quel tanto di epica popolare per renderlo accessibile ai più, ma anche quell’amarezza che lo configura nella sua Sicilia, terra dove la mafia esiste per davvero e non si può fare finta che “uccida solo d’Estate”.

Difatti, il suo commissario non si mette mai a combatterla frontalmente: al più, tenta di correggerla quando l’ingiustizia diventa insopportabile ed il dolore scoppia come un uragano. D’altro canto, da una terra composita, generata dal connubio inverosimile (se non fosse capitato) di Romani, Arabi, Svevi, Normanni, Spagnoli e Borbonici…che ci si poteva aspettare?

Un uomo che non ha avuto remore nell’affermare d’essersi ispirato ad un mentore spagnolo, Manuel Vasquez Montalban, per tratteggiare il suo eroe che si destreggia come può fra piccoli delinquenti e grandi bastardi. Ma, bisogna farsene una ragione, sembra dirci Camilleri: e questa è, forse, la ragione che lo stabilizzerà nella media classifica per molto tempo, e ne ha tutto il merito.

 

La perfezione della forma e la conoscenza sublime della sostanza, questo potrebbe essere l’incipit per descrivere Umberto Eco. Ma, sul personaggio c’è poco da dire: un ottimo docente universitario, buon descrittore dei paesaggi e delle atmosfere che vuole portare all’attenzione del lettore…ma, se gli andrà bene, rimarrà a metà classifica come la Fiorentina od il Torino per lunghi anni. Oltre allo scrittore, manca il personaggio: come potete osservare, man mano che si scende nella classifica, il collettivo – nel Calcio – o la somma delle sensazioni ed esperienze vissute dall’autore, fa la differenza.

 

Quasi identica sorte per Giorgio Faletti, catapultato dalla televisione alla scrittura, e con merito. Lui raccontò che il suo esordio fu quasi casuale, ossia un amico che lavorava in Mondadori lesse quello che scriveva così, tanto per divertirsi. Difatti, scrisse qualche bel giallo, poi scadde (a mio avviso) nel turpe mondo del sangue e dell’immondizia del crimine, ossia quel composto di sangue, feci e pezzi di cervello che tanto sembra interessare oggi i lettori. Con lui, concludiamo la classifica dei più importanti ed entriamo nella zona retrocessione.

 

Una menzione la merita senz’altro Paolo Giordano, vincitore del Premio Strega nel 2008 con La solitudine dei numeri primi, romanzo interessante, però circondato da un’ovvietà geniale. Giordano è anzitutto un fisico, quindi uno scienziato, ed è circondato da un alone inconfondibile: quello dell’intellettuale. Peccato che, nella nostra epoca, per essere conosciuti convenga di più essere dei saltimbanchi televisivi, degli attori cinematografici (quelli, non mancano mai) o dei cosiddetti “politici” ossia degli ottimi attori/saltimbanchi che la buttano sempre in caciara.

Però l’argomento è stuzzicante – i numeri primi non sono solo 1, 3 o 7…anche 3761 lo è, ma non ci dice niente – e quindi il fisico/intellettuale non ha avuto difficoltà a descrivere la loro incapacità d’avere relazioni, se associati a certi esseri umani. Ma, mi perdoni Giordano, pur avendo scritto un libro stupendo, ha fatto – da buon fisico – la scoperta dell’acqua calda. Quando una persona, dopo aver concluso piacevolmente il suo libro, si chiede cosa c’era di così singolare in quel libro, si risponde che è ovvio che esistano persone incapaci d’avere relazioni appaganti, sincere, corrisposte, durevoli…ossia “normali”…perché la loro storia, ossia il loro rapporto con la vita del loro tempo, non può appagarli. Sono, appunto, “numeri primi”. Ed è per questo che un vero secondo libro di successo non è mai arrivato: si consideri fortunato, la Fisica è un pianeta stupendo.

 

Susanna Tamaro è stata una fulgida cometa, passata velocemente nel firmamento con Và dove ti porta il cuore, racconto se vogliamo interessante, ma di scarsi contenuti di riflessione: ha venduto un sacco di copie nell’intero pianeta e, in qualche modo, mi ricorda Carolina Invernizio. Solo che dalla Tamaro attendiamo un secondo, simile successo: la Invernizio ne scrisse più di cento.

 

La decima posizione spetta a Roberto Saviano anche se il suo libro Gomorra è un saggio e non un romanzo. Ha venduto anch’egli un sacco di copie ed è stato tradotto in molte lingue: peccato che solo in Italia non sia stata compresa e meditata la gravità dei fatti che, inequivocabilmente, Saviano riporta.

 

Le ultime posizioni, come avrete ben compreso, sono molto aleatorie e facile preda delle case editrici, che si battono sulle copertine assicurando decine o centinaia di migliaia di copie. In realtà, la vera possibilità inventiva degli italiani, oggi, è più ferma di un masso nella pianura.

 

Con la nascita del super-gruppo editoriale Mondadori/Rizzoli/Einaudi la capacità produttiva è molto aumentata, ma a questa prolificità non corrisponde la qualità letteraria. Se ne accorgono i lettori incalliti i quali, sempre più spesso, prendono un libro dalla biblioteca pubblica e lo rendono dopo averne lette sì e no venti pagine. Manca la capacità di cooptare il lettore nel mondo della creazione onirica prelevata da un contenitore letterario: questa è la vera natura della magia del libro.

Mancando quella certezza, è inutile sprecar soldi in libreria, magari conviene riprendere in mano un libro già letto molti anni fa dalla propria libreria, o scambiare con altri dei testi. Difatti, molte librerie hanno corretto il tiro, e la libreria è diventata “wine and book”, ossia un luogo d’incontro dove sorseggiare un libro, o sfogliare un buon vino in compagnia. Perché? Poiché il mondo è cambiato e, ad ogni mutamento – osserva Darwin – s’accompagna una mutazione.

 

La Einaudi, fino alla sua vendita al gruppo Mondadori, aveva una serie di lettori proprio a Torino, ai quali affidava il giudizio dei testi che avevano, almeno, superato le cinque o sei cartelle di lettura preventiva: si cercava di mantenere alto il livello di qualità.

Appena Mondadori acquistò la casa editrice, licenziò subito il settore dei lettori: a prima vista, parrebbe un tentativo di limitare le spese, ma non fu solo quello. Grazie alle sue dimensioni il gruppo meditò di diventare egli stesso il “creatore” di un nuovo gusto letterario: se avete presente come cambiò la televisione con l’ingresso di Mediaset nel mondo televisivo, se non proprio concordate con questa tesi, però il sospetto viene, eccome.

Da dove vengono, allora, i libri che si pubblicano?

 

Dalle agenzie letterarie: semplice no? Incarichiamo persone esperte di segnalarci ciò che conviene pubblicare. E’ proprio così semplice?

Le agenzie letterarie, bene o male, si resero presto conto d’esser sedute su una gallina dalle uova d’oro e cominciarono a riflettere: quando mi arriva un testo, come posso giocarmelo meglio se è un buon testo?

Beh…magari segnalandolo ad un autore già noto…meglio ancora rivenderglielo, riveduto e corretto.

 

Prendete un romanzo: cambiate la scenografia generale, la città, se possibile il Paese, poi i nomi dei personaggi. Passate quindi alla scrematura di qualche parte un po’ prolissa e non molto utile: quindi, lo darete in redazione per un severo passaggio sui sinonimi, cambiate titolo ed autore…voilà, il gioco è fatto!

In Italia si pubblicano 75.758 libri l’anno, 207 ogni giorno, 8,7 libri ogni ora, uno ogni 7 minuti: nel tempo impiegato per leggere questo articolo sono stati pubblicati circa 2 o 3 libri. Chi volete che s’accorga di un falso? E, poi, dopo averlo scoperto, vi ritrovereste di fronte al gruppo d’avvocati più agguerrito e coeso della Terra. Che speranza avreste con la giustizia (min) italiana?

 

Oltretutto, le agenzie letterarie si stanno raccogliendo, a loro volta, in super-agenzie consociate, in modo di poter dirigere i gusti dei lettori spacciando “il meglio”, ossia proprio quei 5 o 6 testi che avete abbandonato dopo 20 pagine. Col trascorrere del tempo, quel “meglio” diventerà la colonna sonora per una nuova generazione, come lo sono diventati i quiz in Tv o le soap opera su Netflix: malaffare e corruzione a palate, armi e sesso a volontà, morti sbrindellati in abbondanza e la tecnica del melange fra presente e passato per confondere/incuriosire lo spettatore…certo…non tutte hanno il successo della “Casa di carta”, però gli abbonamenti si vendono…il sistema gira…ma c’è qualcosa d’ancora ricco culturalmente da notare?

 

Tornando ai libri, l’unico fenomeno che fa “muover le stelle” è la speranza, irremovibile di una grossa parte degli scrittori italiani, che non smette mai di postare nuovi testi verso le agenzie. Le quali già abbiamo spiegato cosa fanno e, attenzione: non ho potuto dire di più, perché non voglio dovermi scontare denunce e querele.

In aggiunta, ricordiamo che il mercato della letteratura italiana è di circa 50 milioni di potenziali lettori, mentre gli altri (inglesi e spagnoli) si rivolgono a 500 milioni di persone: se a loro basta scalare uno scoglio di 5 metri, il nostro è di 50.

 

E tutto questo riposa nelle sole mani di Franceschini, il quale da molti anni ha nelle sue mani le soluzioni.

Ma le soluzioni – evidenziate dal Covid, Franceschini – non sono mai giunte: non bastano Firenze, Venezia e Roma per il turismo italiano nelle città d’arte, non basta concedere alle grandi navi da crociera di transitare dentro Venezia – anche se le case si distruggono per il moto ondoso, ed è proprio questo che vi chiedono i veneziani, vero? – perché la cultura, se non si rinnovano le fonti, deperisce fino ad annullarsi: non possiamo solo vivere di cultura antica, altrimenti finiamo come Petra o Leptis Magna dove qualcuno arriva, spende qualcosa e poi se ne va.

 

Altra cosa è creare cultura: in campo letterario, musicale, teatrale, grafico…tutti abbiamo visto il successo degli stilisti italiani – in tutti i campi, dalla moda all’auto – e cos’hanno portato in termini di valore aggiunto alla Nazione.

E, investire qualcosa nella cultura già lo avevo indicato: basta utilizzare i carcerati (a scelta loro e dei direttori dei carceri) per leggere i manoscritti, poi affidare la seconda scelta a neolaureati e, infine, pubblicare i libri vincitori del concorso in forma tascabile grazie al Poligrafico dello Stato.

Non ci vorrebbe tanto, ed anche pochi fondi per realizzarlo: s’obbligherebbero le case editrici e le agenzie editoriali a tornare ad un modo di lavorare più onesto e, ogni anno, migliaia di giovani autori verrebbero a galla.

 

Se non si vuole farlo c’è una sola ragione: il “metodo Berlusconi” ha vinto e stravinto, annichilendo anche la volontà politica. Di questo dovrete rendere conto di fronte al Paese.

12 giugno 2021

La conferenza postbellica di Jalta (quarta ed ultima parte)

 

Josef Mengele, il medico-boia di Auschwitz

Nelle indagini storiche, l’assillo d’ogni ricercatore sono le fonti, che devono essere ampiamente documentate ed affidabili: altrimenti, si è subito cestinati ed accusati di complottismo. Ma c’è un “ma” che molte volte non si nomina che però esiste, eccome.

In fin dei conti, chi scrive veramente la Storia? Gli storici, che traggono le loro fonti dagli archivi, sempre che da quegli archivi non siano passati prima altri e sottratto od immesso quello che loro faceva comodo. Quelli che la Storia hanno il vezzo di “addomesticarla”.

 

L’esempio lampante fu lo storico inglese Hugh Trevor-Roper, autore del famoso libro Gli ultimi giorni di Hitler nel quale cercava di tacitare le molte voci che, soprattutto dai Paesi del Socialismo reale (URSS in testa), accusavano gli Alleati d’aver nascosto Hitler per loro vantaggi.

Lo stesso Trevor-Roper, però, durante la guerra era un agente segreto inglese, in stretto e costante contatto con Wilhelm Canaris, capo indiscusso dei servizi segreti germanici, con il quale tentò d’intessere una trattativa – poi fallita poiché i sovietici mangiarono la foglia – per una pace separata con la Germania. Insomma, per quei due, la Guerra Fredda sarebbe nata con almeno una decina d’anni d’anticipo: a questo punto, fregiarsi del titolo di “storico ufficiale” inglese, mi sembra un poco esagerato.

Quando poi dichiarò autentici i Diari di Hitler nel 1983, subito dopo si scoprì che erano un falso: insomma, molta confusione sotto il cielo…non vi stupirà sapere, allora, che alcune notizie qui riportate provengono, addirittura, dalla prestigiosa e di certo non accusabile di complottismo, Università Luiss di Roma.

 

Il conflitto sul metodo, dunque – ricordando Popper – dovrebbe nascere dal confronto aperto sui contenuti, ed analizzando attentamente anche il cui prodest, senza il quale molte “mosse”, in guerra o in diplomazia, finiscono per non reggere se l’analisi si fa più serrata.

Magari non prestare attenzione a chi spaccia teorie senza la minima prova, ma ascoltare chi pone una serie d’eventi concatenati, segno evidente che lasciano trasparire sospetti molto consistenti: non è un buon affare per la cultura storica, anche se pare acquietare gli animi e tranquillizzare la popolazione.

Quel “andrà tutto bene”, propalato ai quattro venti durante la pandemia, mostra tutti i suoi limiti, sia per le questioni pandemiche e sia per le questioni storiche.

 

Devo confessare che di tutta la vicenda la parte che meno m’impressionò fu la sorte di Hitler, anche se Abel Basti – pur comprendendo le necessità editoriali – intervistò persone che dicevano d’averlo incontrato, e la presenza di Ante Pavelic, il dittatore croato, fu sicuramente documentata nel dopoguerra a Buenos Aires e pare che ci sia stato un incontro fra i due.

Stalin non ci credeva affatto alla morte di Hitler e, alla conferenza di Postdam (a guerra finita) fece sapere come la pensava chiacchierando con un addetto d’ambasciata britannico. “Dove avete nascosto Hitler?” gli chiese, creando un notevole imbarazzo.

Anche Mussolini fece la fine che fece per credere a delle fandonie: lui – pilota – cosa ci avrebbe messo, volando di notte, a decollare dal nuovissimo aeroporto di Linate a rifugiarsi in Spagna da Franco? Ma i servizi segreti italiani non erano quelli tedeschi, è la più ovvia risposta. Oppure Franco non voleva grane e declinò la richiesta? Come vedete, la strada per la Valtellina è zeppa di “bivi” mai indagati.

 

In ogni modo, la figura dei due dittatori era oramai inutile nel nuovo panorama internazionale: erano già iniziati i prodromi della Guerra Fredda.

Lo capirono entrambi: l’interprete del loro ultimo incontro, quello avvenuto dopo l’attentato ad Hitler, intervistato nel dopoguerra, raccontò che a parte la sparata iniziale di Hitler sulle nuove armi che avrebbero…eccetera, eccetera…ascoltato più per cortesia che altro da Mussolini, stettero almeno un’ora a ricordare gioiosamente i loro passati di caporali, uno sul fronte francese (con suo ufficiale Rudolf Hess!) e l’altro sul fronte italiano: avevano creato e gestito un’epoca, e milioni di morti. Erano, usando un termine oggi consueto, “obsoleti”.

 

Gli uomini d’apparato, però, sono preziosi e vengono salvaguardati, anche se hanno commesso qualche “marachella” durante la guerra: ne avemmo anche noi, seppur frettolosamente “tutti assolti” dalle malefatte pre e post belliche.

Ne è un esempio il prefetto di Milano nel 1969, Marcello Guida, il quale indirizzò immediatamente le indagini per la strage di piazza Fontana verso Valpreda e gli anarchici, dimostratosi poi non solo un “indirizzo” sbagliato, ma anche colluso con gli interessi della destra eversiva dell’epoca. Ma chi era Marcello Guida?

Fu, in epoca fascista, commissario e direttore della colonia penale per motivi politici di Ventotene e, nel 1970, il presidente della Camera Sandro Pertini, scendendo dal treno a Milano dove il prefetto era andato a riceverlo in pompa magna, si rifiutò di stringergli la mano.

 

Mentre l’Italia non ebbe grandi “richieste” di personaggi del mondo occulto dei servizi segreti, annessi & connessi, la Germania nel dopoguerra viveva un incubo: suddivisa in quattro settori, uno comunista e tre (s)governati dagli alleati, fino al 1950 restò letteralmente alla fame. Bisognava farle pagare le bombe su Londra e, soprattutto gli inglesi, si misero con impegno a farlo.

Molti tedeschi abbandonarono la Germania in quegli anni, ma c’era chi non poteva farlo alla luce del sole, perché mostrare un documento poteva trasformarsi in un capo d’accusa di fronte ad un tribunale militare. Qui, tornarono utili le vecchie conoscenze, in luoghi vissuti per secoli come contee tedesche e che ora, per i ghiribizzi della Storia, languivano sotto il tacco italiano.

 

Non era difficile giungere fino a Vipiteno (Sterzing) o recarsi in altre località della ex Operationszone Alpenvorland, che fino al Maggio del 1945 conteneva il Trentino, l'Alto Adige e la Provincia di Belluno sotto la Germania nazista: lì, c’erano ancora molti amici. E proprio in quelle zone iniziò la “rat-line” (via dei topi), ossia il percorso che portava gli ex nazisti a ricevere nuove identità e documenti italiani, poi a Roma, dove soprattutto i religiosi croati “sistemarono” centinaia di persone, quindi a Genova, dove il cardinal Siri li imbarcava, con la buona volontà dei Costa, sulle navi e li spediva in Sudamerica. Che gioielli di bontà cristiana: tutto sotto gli occhi di Pio XII, che era stato nunzio apostolico per molti anni in Germania (firmando nel 1933 un Concordato dove riconosceva il partito nazista) e, nel 1936, come Segretario di Stato aveva soggiornato a lungo in Argentina.

 

La domanda da porsi è allora: perché gli americani strinsero quel patto scellerato con quella gente? Che, notiamo, in larghissima parte abbandonò la Germania, la quale era timorosa d’essere accusata di nazismo per secoli: molti comportamenti, ad esempio, sono tollerati più in Italia o Spagna che in Germania. Lo Horst Wessel Lied, l’inno nazista, in Germania è reato suonarlo ed ascoltarlo, e la legge viene fatta rispettare.

 

Quando, se ben ricordo era il 2003, mia figlia si recò in Argentina con il fidanzato per conoscere la sua famiglia le chiesi, qualora si fosse ritrovata a San Carlos de Bariloche – considerata il rifugio dei nazisti argentini – di telefonarmi, e lo fece.

Qui era Estate e laggiù Inverno, sotto i contrafforti delle Ande: mia figlia desiderava darmi delle informazioni, anche se il gelo sentivo che l’attanagliava, ma avvertivo che non sapeva cosa raccontarmi. Sì…sulla piazza c’era una birreria in stile bavarese…ma che prova è? Magari possiamo trovarla anche a Roma od a Bari. Le case erano in stile nordico, ma erano quasi sulle Ande…la notizia più curiosa fu che, lì vicino, era sopravvissuta una comune hippie da anni lontani e che erano diventati famosi perché costruivano delle bellissime stufe in terracotta.

Ciò che pensai, mentre lei parlava, fu che si trovava in un teatro di posa abbandonato.

 

Un teatro di posa che era servito, per molti anni, per immagazzinare, controllare e decidere la destinazione di ricchezze inaudite: per noi italiani, la fine – mai conosciuta – dell’Oro della Banca d’Italia trafugato dapprima a Fortezza, in Alto Adige. La parte sparita e mai recuperata ammontava a due tranches del 1944, una di circa 64 tonnellate confluite nella Reichsbank di Berlino e l’altra di circa 7 tonnellate prelevata dal Ministero degli Esteri tedesco. In totale, circa 71 tonnellate mai ritrovate, e viene da chiedersi cos’avessero trasportato i sottomarini a San Matias: 71 tonnellate erano il carico di due sottomarini e mezzo, se le nostre ipotesi del capitolo precedente sono corrette.

 

Ma, se da una parte i servizi americani tollerarono questi traffici, dall’altra chiesero qualcosa in cambio.

Anzitutto, la democrazia in Argentina era un optional: dal 1950 al 1970 l’economia crebbe parecchio e la povertà diminuì fino a toccare un valore minimo del 7% (forse anche grazie all’enorme ricchezza precipitata sull’Argentina?). I governi democratici si succedevano a periodi dittatoriali, fino al 1976, quando prese il potere la giunta Videla. Lì, fu la catastrofe con almeno 30.000 desaparecidos, persone scomparse e mai più ritrovate.

Parallelamente, in Cile nel 1973 andava in scena la seconda rappresentazione: il golpe militare del generale Pinochet, che inaugurò un periodo di disgrazie e morti senza fine.

Mentre la presenza e l’attività di Klaus Barbie – il boia di Lione – è documentata in Argentina ed in Bolivia, quella di Walter Rauff, SS-Obersturmbannführer (simile a Colonnello) nelle SS è documentata in Cile, dove godette della protezione di Pinochet fino alla sua morte, avvenuta nel 1984.

Fra Cile, Argentina, Bolivia e Brasile non si conosce il numero delle vittime né la precisa identità dei loro assassini: si sa che il neofascista italiano Stefano delle Chiaie operò in Argentina sotto la dittatura e poi in Bolivia, in quel grande intervento che prese poi il nome di Operazione Condor. I nazisti, probabilmente operarono dietro alle quinte, senza intervenire direttamente, ma delle tracce le lasciarono, ben evidenti.

 

Colonia Dignidad fu una di queste.

Un orrore nazista, creato nel 1961 da un ex caporale della Wermacht, medico o infermiere che sia stato (un medico caporale?): Paul Schäfer, a 350 chilometri da Santiago del Cile, costruì un campo dove una apparente setta idolatrava il loro leader, pedofilo e nazista fino al midollo, con un annesso ospedale dove un medico (?) tedesco, Harmut Hopp, riforniva di bambini il suo capo, mentre altri li utilizzava come cavie per i suoi esperimenti. Pare che da Colonia Dignidad sia passato anche Josef Mengele, il medico-boia di Auschwitz: non vi è la certezza, ma il marchio sembra proprio il suo.

Nel campo era proibita qualsiasi attività sessuale e, grazie agli psicofarmaci, la gente viveva imbambolata più che tranquilla. D’altro canto, un “campo” circondato da un recinto elettrificato qualche ricordo lo fa rinvenire, e non sono bei ricordi.

 

Vissuto per molti anni nella totale indifferenza, il “campo” divenne tristemente famoso dopo il golpe di Pinochet del 1973, quando parecchi “indesiderati” gli fecero visita e scomparirono per sempre. Sotto Pinochet, il campo fu inviolabile: nessun magistrato poteva indagare e chi lo faceva veniva trasferito, se insisteva spariva. D’altro canto, la presenza della DIMA – la polizia segreta del regime d Pinochet – era abituale a Colonia Dignidad.

Quando, finalmente, in anni recenti si riuscì a penetrare nel “campo”, si scoprirono depositi di armi e di munizioni, molte risalenti all’ultimo conflitto mondiale e, ben celato sotto terra ma perfettamente funzionante, addirittura un carro armato.

Harmut Hopp, il “medico” dell’ospedale, condannato in Cile, è tornato in Germania dove vive libero, mentre Schäfer è morto a Santiago nel 2005 in carcere, dopo essere scappato in Argentina e ripreso.

 

Colonia Dignidad fu scoperta per la fuga di un suo “adepto” che rivelò al mondo quella ignobile presenza: ma quante sopravvissero, in silenzio, sia come “campi di adepti” o come semplici strutture dei servizi segreti? In fin dei conti, agli USA interessava soprattutto il Rame cileno e che l’URSS non mettesse piede in Sudamerica: paradossale, ma  gli aerei che bombardarono il palazzo della Moneda, uccidendo il presidente Allende, erano Mig-21 cileni.

 

Così, la lista di nomi che segue (probabilmente molto incompleta) è tutta composta da gente scomparsa in Europa e ricomparsa in Sudamerica, e mai più tornata per affrontare la giustizia nei Paesi dove l’avevano offesa (salvo Eichmann e Priebke):

 

Josef Mengele, Adolf Eichmann, Klaus Barbie, Gerhard Bohne, Walter Kutschmann, Erich Priebke, Erich Muller, Walter Rauff, Josef Schwammberger…ed i meno noti:

-Ludolf von Alvensleben, ex ufficiale delle SS in Russia.

-Josif Berkovic, fascista croato.

Gerard Blaton, collaborazionista belga.

-Michel Boussemaere, fondò l’associazione Vlaanderren in Argentiniae.

- Bytebier Gerard, collaborazionista belga condannato a morte.

-Bytebier Michel, suo fratello.

-Franz Calcoen, già condannato a Bruges.

-Kurt Christmann, ex ufficiale delle SS e colonnello della Gestapo.

-Pierre Daye, collaborazionista belga.

-Jan Durcanksy, ministro della Repubblica indipendente slovacca.

-Erwin Fleiss,capo delle SS nel Tirolo.

-Fridolin Guth, partecipò al fallito colpo di stato austriaco del 1934.

-Hans Friedrich Heffelmann, accusato di aver preso parte al programma di eutanasia di Hitler.

-Friedrich Rauch, ex ufficiale delle SS e vicino al Fuhrer.

-Eduard Roschmann, ex comandante del ghetto di Riga.

-Bilanovic Vjubomir Sakic, ex comandante del campo di concentramento di Jasenovac, Croazia.

-Franz Votterl, ex dirigente della Gestapo e ufficiale delle SS.

-Guido Zimmer, ex comandante delle SS a Genova.

-Albert Rits, ex ufficiale delle SS.

-Fritz Lantschner, coinvolto nel colpo di stato in Tirolo del 1934.

 

Queste persone, però, giunsero in Argentina tramite la cosiddetta “rat-line” ossia le protezioni e le falsificazioni delle identità in gran parte create in Alto Adige e poi in Italia, come ricordavamo all’inizio, ma viene da pensare che prima giunsero delle “avanguardie” le quali, per prima cosa s’incaricarono di spostare in Argentina le copiose ricchezze rapinate in tutta Europa dai nazisti e quindi di sistemare degnamente i “profughi” che arrivavano dall’Europa. Ecco perché, all’epoca, San Carlos de Bariloche era un “teatro” molto attivo divenuto, nel 2003 (quando ci passò mia figlia) un teatro di posa abbandonato.

C’è inoltre da ricordare che la Spagna, anche se oramai controllata più rigidamente dagli ex-Alleati, forse chiuse più di un occhio a cavallo del 1950, e nessuno poteva controllare chi partiva da Vigo per il Sudamerica, soprattutto se dotati di documenti falsi e d’identità non facilmente riconoscibili: d’altro canto, lo faceva tranquillamente anche l’Italia.

Non dimentichiamo, inoltre, che tutto avveniva con la bonaria distrazione dei servizi segreti americani, che ebbero poi molti contatti con quella gente: ricordiamo che, dopo il 1970, ci fu un momento nel quale nell’America Latina non ci fu più un solo governo democratico.

 

In fin dei conti, non sappiamo quanti ex nazisti giunsero in Sudamerica – probabilmente, i nomi scoperti sono soltanto la punta dell’iceberg – e la Storia ufficiale ha taciuto, sia per i limiti di ricerca attuati dai servizi segreti di mezzo mondo ed altri storici per aperta collusione.

Allora, vista la situazione di stallo nella quale gli storici si sono trovati, perché continuare a negare l’evidenza di moltissime prove che indicherebbero la sopravvivenza di un’ideologia perversa e soltanto utile a fini strategici?

In fin dei conti, la guerra al bolscevismo inaugurata da Hitler continuò in America Latina, oggi forse connotata più dai grandi cartelli internazionali del traffico di droga piuttosto che da ideologie anticomuniste ma, comunque si voglia definirlo, un brutale assassinio della tanto sbandierata democrazia.

 

Chissà se un giorno, cancellati gli omissis dai documenti secretati, i nostri nipoti sapranno veramente quel che è accaduto.

09 giugno 2021

La conferenza postbellica di Jalta (terza parte)

 

Il golfo di San Matias, oggi, in Argentina

Nel Maggio del 1982, durante la guerra delle Falkland/Malvinas, una fregata antisommergibile argentina navigava lentamente al largo del Golfo di San Matias, circa 500 chilometri a Sud di Buenos Aires: il sonar di bordo dava la caccia ad un eventuale sommergibile inglese che navigasse da quelle parti.

Un bimotore dell’aeronautica volava con rotta Sud con pressappoco gli stessi compiti della fregata: il Paese era in guerra contro la Gran Bretagna, e tutti dovevano cercare i maledetti inglesi.

Vide in lontananza la fregata argentina e, a scanso d’equivoci, la chiamò con la radio. “Tutto tranquillo, qui sotto non c’è niente…e da lì, si vede qualcosa?” “Niente, anche da qui niente, bella giornata per esser già Autunno, vero?” “Già, proprio una bella giornata…adios amigo…”

 

“Adios…” ma il pilota osservò meglio e, sotto le onde, gli parve proprio di aver notato per pochi attimi la sagoma di un sommergibile: virò di bordo compiendo un largo cerchio per tornare dov’era pochi minuti prima. Si abbassò, e fu allora che lo vide. “Attenzione: avete un sottomarino a poppa! Presto! Attenti!” urlò nella radio.

In pochi secondi il mare, a poppa della fregata, divenne bianco di spuma a causa dei motori che ruggivano per allontanarsi rapidamente. L’aereo compì un altro giro, si portò sulla verticale del rilevamento visivo e, senza aspettare altro, sganciò due bombe di profondità, che scoppiarono dopo una manciata di secondi. Anche la fregata virò di bordo e si portò dove aveva visto scoppiare le bombe: per sicurezza, ne aggiunse quattro delle sue. Altri geyser d’acqua del limpido Autunno argentino. Poi, si mise in ascolto col sonar: niente, nessun rumore, né d’eliche che fuggivano e neppure di paratie che si schiantavano. Entrambi fecero rapporto ai loro comandi che li elogiarono per l’azione congiunta. Amen.

 

In realtà, non era il primo falso avvistamento: era da anni che molti avevano notato qualcosa di simile in quelle acque, al punto che i pescherecci passavano lontani per non rimetterci le reti. Anche gli ufologi hanno trovato storie interessanti per i loro lettori: condendo il tutto con luci verdi e un poco di suspense, riuscivano ad accalappiare i loro lettori.

 

Prima di proseguire, però, dobbiamo fare la conoscenza di Abel Basti, un giornalista argentino che ha trascorso la vita a ricostruire l’avventura del nazismo in Sudamerica. Pazientemente, negli anni, ha raccolto testimonianze e concatenato indizi, al punto di sostenere che Hitler non morì nel bunker di Berlino, bensì fuggì in Argentina ed in altri Paesi del Sudamerica.

In questa sua lunga ricerca sono venuti alla luce molti nomi – uno l’abbiamo avuto sui nostri giornali, Erik Priebke, il “contabile” delle Fosse Ardeatine – ma tanti altri si nascosero in molti luoghi ed oramai sono morti da tempo.

Recentemente, durante dei lavori di risistemazione del Credit Suisse, sono stati trovati 12.000 nominativi di ex nazisti che avevano conti milionari proprio in quella banca, quando era ancora la tedesca Schweizerische Kreditanstalt: non possono non essere sospettati quei 3 miliardi di marchi ricevuti per i 1.000 passaporti in bianco, oppure qualche carico d’Oro giunto chissà come?

 

Uno dei pregi di Abel Basti è proprio quello d’essere completamente ignorato dalla stampa anglosassone: recentemente, una piccola casa editrice italiana ha pubblicato un suo libro, ma il resto non varca il confine della lingua castigliana, ossia lo spagnolo. E, spesso, viene presentato come un visionario: userò, in questo articolo, alcune delle sue ricerche insieme ad altre, riconducibili ad altre fonti, ma la mia stima per il giornalismo di Abel Basti è infinita.

 

Tornando al 1945, pare proprio che il golfo di San Matias – un posto quasi deserto – fosse diventato uno dei luoghi più gettonati della Terra. Nell’unico commissariato di San Antonio Oeste, l’unico commissario era tempestato di richieste, stranezze, avvistamenti...e quant’altro la popolazione gli raccontava. Ed erano tutte concordi quelle voci: sottomarini sconosciuti navigavano al largo, poi s’avvicinavano a terra, tornavano al largo…alcuni pescatori avevano addirittura notato quei grossi battelli rifornirsi da petroliere argentine.

E lui, cosa poteva fare? Aveva solo una barchetta…giusto per girare in porto…che andassero a lamentarsi a Bahia Blanca o a Mar del Plata dove c’era la Marina!

Un giorno, però, un abitane del luogo andò a riferirgli che al Sud della Baia, proprio di fronte a dove sorgeva l’immensa tenuta di un piantatore tedesco, c’era stato movimento. Non sapeva dire di più…però rumori d’autocarri o trattori…voci, luci nella notte…in un posto dove, in genere, regnava il silenzio più assoluto, soprattutto la notte.

Va bene…andrò a vedere…chiamò due poliziotti del suo comando, salirono in auto e scesero verso Sud: quando intravidero, in lontananza, i grandi edifici e la sontuosa villa della tenuta, scesero fino alla spiaggia.

 

Là giunti, capirono immediatamente che qualcosa d’importante era capitato: sulla sabbia, che l’Oceano in fretta cancellava, erano impresse nitide orme di camion, forse trattori o cingolati…doveva essere successo proprio un bell’ambaradan, pensò il commissario. Decise di salire fino alla tenuta, che si trovava a qualche centinaio di metri dalla spiaggia, per chiedere cosa sapessero della strana vicenda.

Camminarono sulla via sterrata del bosco, proprio fra le orme nitide e ben incise nella rena, segno che di lì era passato qualcosa di molto pesante…ma alla villa non giunsero mai…perché, improvvisamente, si trovarono inquadrati da quattro mitragliette dietro le quali c’erano quattro SS in divisa, che fecero loro segno di girare i tacchi e d’andarsene.

Prima d’obbedire, il commissario riuscì a “fotografare” nella sua mente l’immagine: erano proprio quattro SS…notò le mostrine nere, il piccolo stemma sull’elmetto ed i mitragliatori che maneggiavano erano i classici Schmeisser tedeschi. In seguito, e sotto altri cieli sarebbero diventati, con qualche modifica, il primo Kalashnikov. Dopo quella “fotografia” visiva fece un cenno di saluto, girò i tacchi ed i tre tornarono verso la spiaggia.

 

Il commissario era tranquillo, gli agenti un po’ meno…ma li tranquillizzò…vedrete, domani come li concio…certo – pensò – stilare un rapporto dove racconto d’esser stato fermato sotto la minaccia di quattro SS…e chi mi crederà?

Il giorno seguente si recò a Bahia Blanca, dove c’era il suo superiore diretto e gli raccontò l’incredibile avventura, siglata in un preciso rapporto che, per prudenza, aveva fatto leggere e controfirmare anche ai due agenti.

Il superiore gradì molto il rapporto, si complimentò con il commissario per la sua arguzia – ma anche per la sua prudenza – e gli comunicò che, da quel momento, la cosa era di sua competenza e degli alti gradi della Polizia: gli raccomandò di dimenticare la brutta vicenda, ci avrebbe pensato lui. Il commissario però, tornato al suo commissariato, rifletté sulla cosa: non c’era stato, da parte del suo superiore, il minimo cenno di sorpresa o di dubbio, d’incredibilità.

In fin dei conti, però, lui aveva fatto il suo dovere e, consegnando il rapporto, non aveva più compiti per quella storiaccia. Perciò, si dimenticò di tutto e riprese la vita di tutti i giorni: i “superiori” non si fecero più vivi e non citarono mai più la storia. Amen.

 

La “cosa” la riprese in mano Abel Basti, decenni dopo, quando intervistò e filmò le stesse persone che avevano, in gioventù, raccontato le medesime cose al commissario. Anche lo scrittore volle recarsi su quella spiaggia, parlò con la gente e, finalmente, un pescatore gli chiese di salire sulla sua barca.

Insieme, passarono la linea dei frangenti e giunsero in mare aperto: dopo qualche minuto e guardando sempre a terra il pescatore, come per fare un rilevamento visivo, arrestò il motore e si mise ai remi.

 

Il mare era calmo e limpido lontano dai frangenti della costa ed il pescatore remava in piedi, osservando sempre quei misteriosi punti a terra. Dopo un po’ si fermò e gli disse: “vai a prua ed osserva il fondo con attenzione”.

Lo scrittore si sporse dalla prua ma, lì per lì, non vide altro che sabbia sul fondo. “Osserva meglio” lo riprese il pescatore dando, ogni tanto, un leggero colpo di remi.

Solo allora si accorse che la sabbia non era uniforme: pareva quasi che si fosse adagiata su qualcosa di grande, lungo e tondo…improvvisamente un fulmine gli attraversò la mente: un sottomarino!

Solo allora il pescatore raccontò la sua storia, che Basti annotò con cura.

 

“Mio padre” iniziò il pescatore “quella notte era qui, anzi…un poco più a Sud e stava gettando la rete. Forse la sua fortuna fu proprio quella d’essere fermo e più lontano, con una barca modesta, a gettare la rete e nessuno se n’accorse, altrimenti dubito che l’avrebbe raccontata.

I sottomarini erano tre o quattro e s’erano arrestati poco prima della linea dei frangenti, dove c’era ancora un poco di fondo per quei bestioni. Dalle loro pance vomitavano fuori ogni genere di mercanzia, tutto sigillato nelle casse di legno…due grandi motobarche – che mai aveva visto da queste parti – facevano la spola fra i sottomarini e la spiaggia, dove venivano scaricate da molti uomini e caricate su camion e rimorchi che dei trattori conducevano nel bosco, molto probabilmente fino alla villa, da dove parte una strada che confluisce sulla grande arteria che porta dal Nord fino alla Terra del Fuoco.

Lo scarico andò avanti tutta la notte: mio padre rimase nell’ombra perché le uniche luci erano il riverbero che scaturiva dai boccaporti dei sottomarini, mentre a terra erano solo i fari dei camion a fare un po’ di luce. Tutta l’operazione mostrava d’esser stata progettata con cura e gli uomini addetti alle barche ed alle fasi di caricamento erano moltissimi, e tutti si muovevano come se avessero previsto tutto quello che dovevano fare senza una parola, un grido, una risata.

Terminato lo scaricamento, scesero gli equipaggi dei sottomarini mentre quei bestioni, lentamente e senza il minimo rumore si allontanarono dalla costa: dopo circa un’ora, tornarono a terra dei canotti pneumatici con pochi uomini a bordo. Mio padre, all’epoca, non capì perché quegli uomini tornassero separatamente dagli altri sui battelli pneumatici ma, trascorso qualche tempo, quando le reti iniziarono ad impigliarsi sul fondo, qualcuno notò quei grossi ostacoli, oramai coperti di reti e di sabbia e mio padre comprese che quella piccola pattuglia aveva il compito d’affondare i sottomarini in acque profonde.

Forse fu la stanchezza, forse la fretta oppure l’alba che s’appressava e la stima della distanza dalla costa li trasse in inganno: i sottomarini sono posati su un fondale di 30-40 metri che, all’epoca, consentiva nelle giornate di mare calmo d’osservarne le ombre sul fondo. Forse dovevano condurli più al largo…non capì mai il motivo della fretta…ma, all’epoca, non esistevano ancora le odierne attrezzature per l’immersione e l’immersione con l’Ossigeno – già praticata all’epoca – non consentiva di scendere più di 12-15 metri, pena la morte e forse pensarono, semplicemente, che nessuno se ne sarebbe accorto o sarebbe potuto immergersi per indagare.

In quegli anni, oltre a mio padre anche qualcun altro doveva essere in mare perché – nonostante mio padre comprese subito che era meglio non parlarne con nessuno – fiorirono dei racconti fantasiosi: qualcuno raccontò di una coppia che scese sulla barca circondata da alti ufficiali, ma mio padre non vide nulla del genere perché, alla distanza cui si trovava, non poteva distinguere il sesso o le uniformi delle persone sui sottomarini.  

Quando comparve l’aurora, pareva che non fosse successo niente: le grandi barche a motore erano scomparse, tutta quella gente s’era volatilizzata…camion, sottomarini, più niente…mio padre ritirò la rete e tornò in porto. Tutto qui.”

 

Anzitutto, dobbiamo chiederci perché quel pescatore parlò: ma erano gli ultimi anni del millennio, forse già i primi di quello nuovo e l’Argentina s’era oramai lasciata alle spalle la dittatura da molti anni. Oramai la democrazia era solida e s’alternavano, al comando, destra e sinistra come un minuetto. E poi, era una storia strana solo per gli altri, per i gringo e gli europei…mica per loro…che queste storie le avevano ascoltate da padri e madri già quand’erano bambini.

Abel Basti si recò a Buenos Aires e fece una richiesta ufficiale alla Marina perché mandasse qualche sommozzatore ad osservare se c’erano e cos’erano quei mostri sotto le onde, ma la Marina rispose che non aveva soldi da sprecare per delle ricerche inutili. Avvisò, dunque, che lui stesso avrebbe incaricato un paio di sommozzatori per andare a vedere: la Marina rispose che le immersioni, nel golfo di San Matias erano proibite a causa delle pericolose correnti. Ribatté che liberava la Marina da qualsiasi responsabilità in merito e, questa volta, gli rispose il ministero dell’Interno: ricordando che su quel tipo d’indagini vigeva il segreto di Stato. Amen.

 

Stupisce osservare, a così tanti anni di distanza, come le operazioni segrete della Germania in Argentina ebbero una pianificazione certosina, iniziata già negli anni ’30 con mezzi di penetrazione finanziaria, con loro uomini nelle istituzioni, proseguita durante la guerra con l’installazione di stazioni radio che tenevano d’occhio il movimento dei convogli britannici e lo comunicavano a Berlino e conclusa…conclusa…quando?

Doenitz, a metà del 1944, ordinò ai sommergibili di non operare più in Atlantico sotto il 18° parallelo che, guarda a caso, corrisponde proprio alle coste argentine. Perché?

Poiché, per prima cosa, gli Alleati avrebbero trascurato di pattugliare l’immensa area, come fecero, ma ai tedeschi quel “risparmio” conveniva? Le navi inglesi ed americane si sarebbero sposate più a Nord, dando la caccia ai tedeschi in una zona meno ampia. E i tedeschi si privavano di una zona di “caccia” in mare molto vasta e difficilmente controllabile, soprattutto per i convogli che doppiavano il Capo di Buona Speranza per immettersi in Atlantico?

Doveva essere un motivo importante e vitale. Per la guerra? Doenitz, oramai sapeva che era perduta difatti, proprio in quei mesi, raggiunse il massimo numero di sommergibili operativi – più di 400 – semplicemente perché limitò le missioni, oramai diventate quasi tutte missioni suicide. Li teneva in porto, al massimo li mandava a Bergen perché l’Artico, in Inverno, consentiva maggior protezione da navi ed aerei Alleati.

L’Argentina era il luogo “sicuro e protetto” come lui stesso aveva fumosamente indicato? Allora, bisognava tenerci lontani gli Alleati. Quadra perfettamente.

 

Se la popolazione si fosse allarmata nel vedere sommergibili vicino alle coste argentine, i tedeschi avevano preparato tutto…li fecero arrivare alla luce del sole…per arrendersi!

Qui posso confermare, per conoscenza personale, cosa avvenne.

 

Mia figlia fu fidanzata per qualche tempo, una ventina di anni fa, con un ufficiale di Marina argentino d’origine italiana. Si recò in Argentina  la girò in lungo ed in largo e il fidanzato venne a conoscermi mentre la sua nave era in porto a Capodistria.

Ricordo ancora il giovanotto, seduto sul divano di fronte a me, che mi raccontava la storia della sua famiglia, nata italiana e diventata argentina.

Era una famiglia che con il mare aveva vissuto per generazioni: in Argentina non esistono Istituti Nautici e l’unico modo per diventare ufficiale di Marina Mercantile è diventarlo nell’Armada.

Il padre dovette salire, con le pale in mano, per staccare i cadaveri dalle pareti della stiva dell’incrociatore General Belgrano, silurato dagli inglesi nella guerra del 1982.

 

Il nonno, invece – nato ancora in Italia, all’Elba – si trovava di guardia, la mattina del 10 Luglio 1945 (la Germania s’era arresa due mesi prima) a Mar del Plata, uno dei principali porti argentini: ricordiamo che il 10 Luglio dell’emisfero australe corrisponde, meteorologicamente, al 10 Gennaio dell’emisfero boreale.

 

Il povero marinaio si trovava nella torretta di controllo del porto e la bruma invernale e mattutina lasciava intravedere poco o nulla di ciò che gli era attorno: probabilmente ascoltava la radio o si riscaldava un po’ di caffè dal bricco del fornello ad alcool che gli teneva compagnia.

Possiamo immaginare quando, gettando l’occhio sul tranquillo bacino del porto, vide sbucare dalla bruma un sommergibile tedesco con tanto di bandiera del III Reich al picco. Rimase gelato.

Oltretutto, il sommergibile aveva un cannone in coperta, che gli pareva puntato proprio contro di lui e parecchi marinai in coperta, mentre un ufficiale con il binocolo pareva scrutarlo col binocolo dalla torretta.

Eppure, anche se a quell’ora era solo, doveva scendere per capire cosa stava succedendo ma scese dalla torre disarmato: se questi la mettono giù dura, sia chiaro che io m’arrendo.

 

Quando fu a lato del sommergibile, oramai fermo, i marinai gli gettarono le cime che lui, conciliante, assicurò subito alle bitte. Poi, scese un ufficiale: forse il comandante? Gli parlò con cortesia, ma lui non capiva niente di quello che diceva: insomma, per farla breve, non riusciva a capire chi doveva arrendersi ed a chi.

Prima che scoccassero le fatidiche 8 del mattino ed il porto riprendesse a vivere, i tedeschi avevano già messo a terra una passerella e se la stavano filando di gran carriera: uscirono dal porto e se la diedero a gambe per chissà dove. In pochi minuti l’U-530 fu quasi deserto, salvo qualche ufficiale che rimase a bordo e lui, dopo essersi riavuto dalla sorpresa, corse a telefonare ai suoi superiori per dire loro che…dunque…c’era un sommergibile tedesco ormeggiato e lui non capiva cosa volessero e cosa dovesse fare…insomma, aiuto!

L’Oberleutnant zur See Otto Wermuth, il comandante, era però una persona gentile e comprensiva: quando giunse finalmente un ufficiale che parlava inglese dichiarò di volersi arrendere. E l’equipaggio? Allargò le braccia sconsolato: eh, sono scappati…

 

L’U-530 non stupì molto gli americani – prontamente accorsi, ed oramai “alleati” dell’Argentina dopo la tardiva dichiarazione di guerra alla Germania del Marzo 1945 (!), ultimo Paese del Sudamerica ad attuarla  – perché si trattava di un sommergibile moderno e di grande autonomia (tipo IX C), in grado di raggiungere l’Argentina con i propri mezzi. Dotato, inoltre, di radar e snorkel: che avesse fatto la scorta ai veri sottomarini di San Matias? Eppure, non un solo siluro mancava all’appello.

Wermuth fu interrogato a lungo dagli americani, ma non uscì nulla d’interessante. Avevano l’autonomia per raggiungerla, invece di finire in un campo di raccolta per prigionieri inglese: perché non farlo?

 

Diversa fu, invece, la situazione dell’U-977 quando giunse, il 17 Agosto 1945, ad arrendersi pure lui a Mar del Plata. Ma pensa te: invece di recarsi a Portsmouth per arrendersi, calano fino in Argentina, proprio dietro l’angolo.

Prima di tutto il sommergibile comandato dall’ Oberleutnant zur See Heinz Schäffer era un sommergibile di media crociera (tipo VII C), in grado di raggiungere con gran difficoltà l’Argentina o di non riuscirci affatto, col rischio di rimanere senza gasolio in pieno oceano.

Inoltre, mentre l’U-530 era in perfetto ordine e perfettamente funzionante, l’U-977 era sporco, disordinato e mancavano all’appello alcuni siluri. Il comandante dichiarò d’essersi fermato alle isole di Capo Verde “per dare un bagno all’equipaggio”, poi fu sospettato dell’affondamento – a guerra terminata – del vecchio incrociatore brasiliano Bahia, ma il comandante si difese affermando che, all’epoca dell’affondamento del Bahia, si trovava ancora in acque nordamericane. Ma se si trovava in acque americane, dopo aver attraversato l’Atlantico, come aveva fatto a raggiungere l’Argentina? Non aveva sufficiente autonomia! E i siluri mancanti?

Gli americani requisirono i due sommergibili, interrogarono a lungo i due comandanti, per sicurezza secretarono gli interrogatori con valanghe di “omissis” e, qualche anno dopo, i due tornarono in Germania, per scrivere libri sulle loro avventure e, soprattutto, sulla loro innocenza da qualsiasi intrigo. Gli equipaggi – ossia i pochi che ritrovarono – scelsero d’andare dove volevano: i più, rimasero in Sudamerica.

 

Se le vicende dei due sommergibili sono molto diverse o più o meno credibili, dobbiamo riconoscere che – affiancandoli ai (presunti) veri sottomarini di San Matias – erano la ciliegina sulla torta. Avete notato dei sommergibili? Eh, stavano navigando per arrendersi in Argentina…

Difficile anche ipotizzare un loro carico per l’Argentina, giacché (soprattutto l’U-977) non avevano spazio di carico quasi per niente. Però, l’attenzione internazionale (molto scarsa) si concentrò sui due sommergibili che s’erano arresi e dimenticò in fretta il golfo di San Matias, almeno i pochi argentini che erano a conoscenza di quelle vicende. Amen.

 

I sottomarini del tipo XXI potevano essere usati come navi da carico? Entro certi limiti, assolutamente sì.

I sottomarini tipo XXI erano molto grandi, stazzavano circa 2000 tls, il doppio dei loro predecessori, ed avevano 6 lanciasiluri a prua: non servivano più i lanciasiluri di poppa, giacché si poteva inserire qualsiasi angolo di deviazione prima del lancio. Ma, avevano ben 17 siluri di riserva conservati in un apposito locale a poppavia della camera di lancio:

 

Disegni dell'epoca di Type XXI

Ogni siluro pesava 1,5 tonnellate perciò, se consideriamo che nel lungo viaggio l’imperativo era di non farsi scoprire, i siluri di riserva erano inutili. Oltretutto, l’equipaggio di missione standard era di 57 persone le quali, in un lungo viaggio soltanto di trasferimento, non erano più necessarie: ad esempio, tutti i siluristi o gli addetti alle armi contraeree non servivano. Si può ipotizzare un peso di 30 tonnellate risparmiato. Ricordiamo che 100 uomini con bagaglio leggero pesano intorno alle 10 tonnellate, solo per fare un esempio:

 

Il compartimento di prua, senza siluri ed adatto per il carico di 30 t

Il vano di carico, dunque, era uno spazio lungo circa una decina di metri, largo 5-6 metri con un’altezza di 3-4 metri, in grado di ospitare merci per 30 tonnellate, che potevano essere bilanciate (entro certi limiti) con lo spostamento di acqua fra le casse di compenso di prua e di poppa, mantenendo così il sottomarino in assetto. Forse lasciarono uno stretto passaggio fino alla camera di lancio, oppure ignorarono anche quel problema, ossia un improbabile combattimento.

 

Il carico di questi mezzi fu soprattutto Oro e metalli preziosi, pietre preziose, opere d’arte, valuta ed armi: almeno, ciò che possiamo ipotizzare. Probabilmente anche prodotti chimici e/o medicinali di varia natura, ma non possiamo andare oltre nelle ipotesi.

Molto probabilmente, il carico era un mix di persone e merci, considerando il risparmio di personale dalla tabella standard d’armamento: forse una ventina di passeggeri ed il resto tutto destinato a carichi molto “paganti”, in ogni senso, se consideriamo che a Colonia Dignidad (come vedremo in seguito) furono trovate molte armi dell’epoca.

Se, veramente, l’Argentina potesse togliere il segreto di Stato su quei sottomarini affondati in trenta metri d’acqua, avremmo delle risposte, ma temo che – se ci fosse quel pericolo – alcune salve di bombe di profondità cancellerebbero tutto, anche se i relitti – comunque – sarebbero facilmente riconoscibili.

Ma, per ora, nessun governo argentino di destra o sinistra, di golpisti o democratici, d’alto o basso profilo, l’ha fatto. Amen.

 

Continua nelle quarta parte, perché la storia da raccontare è ancora lunga.