24 febbraio 2008

Coscette e mezzadri

Don't let it bring you down:
it’s only a castles burning…

Non lasciarti buttare giù:
sono solo castelli (di carte) che bruciano…


Neil Young, Don't let it bring you down, dall’album After the gold rush, 1970.

Non varrebbe nemmeno la pena di perderci del tempo, però è utile farlo più per noi che scriviamo e leggiamo queste pagine che per loro, che ingombrano allegramente l’agorà televisiva sfornandoci una miriade di cazzate. So benissimo che lo fanno da decenni, ma ogni tanto è utile ricordarlo.
Mi sono perso (per modo di dire…) le due passerelle dell’Insetto che, ad ogni campagna elettorale, ringalluzzisce come uno scarafaggio in amore. Avere nuovamente Berlusconi in studio, tirar fuori dal magazzino la scrivania dove firmò il famoso contratto con gli italiani, e poi ricevere l’appena dimesso sindaco di Roma sulle bianche poltrone, lo ringiovaniscono di vent’anni. Perché? Poiché gli rammenta la gioventù, quando c’erano quasi le stesse persone che raccontavano identiche minchiate. Lui ci gode come un mandrillo a mostrare che l’adagio di Tomasi di Lampedusa vale più della Costituzione: far finta di cambiare qualcosa e, in realtà, mantenere tutto immutato.

Già che parliamo di Costituzione, varrebbe la pena di raccontare che tutto quello che ci propinano sulle grandi “novità”: i nuovi partiti, le nuove alleanze, equilibri, equilibrismi, legami, fili per stendere e quant’altro, è una colossale puparata.
Perché la Costituzione, prevede – all’art. 67 – libertà di mandato per i parlamentari:

Art. 67. Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.

Se così non fosse, i parlamentari sarebbero soltanto dei “mister pollice” utili a schiacciare il pulsante per votare. Potrebbero essere anche analfabeti: dovrebbero solo saper distinguere il rosso dal verde. Per i daltonici, poche speranze.
Se non ci fosse completa libertà di mandato, non sarebbe nemmeno necessario fare estenuanti campagne elettorali, pagarli una montagna di soldi, eccetera: basterebbero dei comuni COCOCO, assunti con contratto a termine a progetto – durata 5 anni, 800 euro mensili – poiché qualsiasi operaio della FIAT sa far di meglio che schiacciare due pulsanti.
Questo colossale castello di carte che stanno intessendo – la “rivoluzione” dei due “nuovi” partiti, PD e PDL – si basa su un assunto che non ha nessuna base giuridica, Costituzione alla mano. Il giorno dopo essere stato eletto, qualsiasi parlamentare dei due cosiddetti partiti “omogenei” potrà scegliere di cambiare schieramento, fondare un nuovo partito, formare un nuovo gruppo parlamentare.
E, attenzione: queste non sono ipotesi “di scuola”. Vorremmo sapere come si comporterà Di Pietro quando ci sarà da varare un nuovo indulto, oppure Alleanza Nazionale quando la Lega chiederà un federalismo fiscale che sarà praticamente una secessione economica.

La contromossa che – a parole – suggeriscono per superare questa impasse, riguarda la riforma dei regolamenti parlamentari. In pratica: nessun parlamentare “dissidente” potrà fondare un nuovo gruppo parlamentare, e quindi accedere ai finanziamenti previsti dai rispettivi regolamenti, della Camera e del Senato.
Tutto ciò appare alquanto fumoso e difficile da realizzare: il cosiddetto “accordo” fra PD e PDL riguarda proprio la scrittura delle regole, principalmente i regolamenti dei due rami del Parlamento.
Ora, per giungere a quel risultato, i due partiti dovranno concordare un testo condiviso: già qui, mi sembra un approdo fra le scogliere. Subito dopo, dovrebbero “far digerire” l’accordo agli altri partiti, e siamo arenati sulla barriera corallina.
Una riforma a colpi di maggioranza? Potrebbe essere, ma – per come sembrano andare le cose – non s’intravedono maggioranze “bulgare”, su entrambi i fronti. La scelta dell’UDC di non entrare nel partito di Berlusconi ha sparigliato le carte: senza Casini, la speranza di Berlusconi di raggiungere quella maggioranza schiacciante che intravedeva solo un mese fa, è un sogno svanito.
Da ultimo, non dimentichiamo che sarebbe sempre aperta la “campagna acquisti” per i vari “transfughi” del centro, che – con tanta allegria e sempre più soldi in banca – si prestano alle operazioni di caduta dei governi, maggioranze a “geometria variabile” e quant’altro. Ricordiamo la vicenda De Gregorio – al quale sembra che Berlusconi abbia appianato alcuni debiti – oppure Follini, la moglie del quale – l’architetto Spitz – è diventata il deus ex machina per la dismissione del patrimonio immobiliare (soprattutto militare) dello Stato.
Quindi, sul grande “rinnovamento” della politica italiana, stendiamo un pietoso velo.
Tutto ciò, in verità, è misera cronaca dell’oggi: proviamo a salire di un misero scalino? Domandiamoci: perché si sono messi a recitare questo pietoso teatrino?

Sappiamo che le elezioni non sono più la fase finale di un’elaborazione politica (del corpo elettorale): svanite le ideologie di un tempo, sono soltanto una gran faccenda di marketing.
Le stesse aziende che stilano i sondaggi, sono raffinate strutture di marketing dove noi (che dobbiamo depositare la scheda nell’urna) siamo – sostanzialmente – gli avventori del supermercato della politica. Ossia, del loro modo di concepire la politica.
Così, se la società di sondaggi afferma che gli italiani gradiscono la coscia di pollo, tutti – dall’agorà televisiva – si sbracceranno nel dire che c’è abbondanza di cosce di pollo e che ne distribuiranno a profusione.
La coscia di pollo sarà elegantemente infiocchettata, avvolta in un involucro luccicante ed adeguatamente illuminata ogni sera: al precario faranno pregustare la coscia costante, al pensionato quella sicura, al lavoratore la confezione famiglia, al “diverso” quella di struzzo, ecc. A ciascuno la sua coscetta.
Questo è sempre stato fatto e si continua a fare: nessuno si prende la briga di spiegare dove troverà le coscette, se è proprio necessario mangiarle, se ci sono alternative. Lo ha detto la società di marketing: il nostro compito è solo quello di rassicurare che ci sarà abbondanza di coscette e coscioni.

Dopo tanti anni di delusione, però, gli italiani iniziano a credere che le cosce di pollo – presenti in abbondanza fino al 13 Aprile – spariranno il giorno dopo. Anche questo ha detto la società di marketing.
Un sentimento montante – detto “antipolitica” – suggerisce di non fidarsi più di nessuno, perché le coscette – raccontano – sono tutte finte, di plastica e già pronte per essere re-immagazzinate, per essere riutilizzate alle prossime elezioni.
Quando cade la fiducia nella coscetta, per la politica italiana è un dramma.
Bisogna allora far credere che, quelli che ieri avevano promesso piogge di cosce e non le hanno mantenute, siano stati mandati via come perversi impostori: se cacciamo fuori gli azzeccagarbugli come Mastella, i tromboni stonati come Diliberto, i grilli parlanti come Tabacci…eccetera, eccetera…rimarranno solo quelli “buoni”. Gente pronta, decisa, con le idee chiare: utile per schiacciare il bottone a comando.
Serve poi un capro espiatorio: Romano Prodi è perfetto. Non ho mai lesinato critiche all’operato di Romano Prodi ma, credere che sia il maggior responsabile dello sfascio al quale siamo giunti, sarebbe un errore che ci condurrebbe a nuovi disastri.
I furbacchioni, intanto, si rivestono con abiti nuovi, agitano nuove coscette e riprendono il gioco di sempre. Le prove?

Walter Veltroni ha promesso finalmente di risolvere il problema delle famiglie: 2.500 euro a figlio. A chi? Ai nuovi nati: se avete un figlio che compirà un anno, avete trombato fuori tempo e dovrete fare un buco alla cinghia per i prossimi vent’anni. Oppure, datevi da fare e riprovateci: con un altro figlio, almeno acchiapperete i 2.500 euro. Fanno sempre 1.250 a testa: poi, però, fino alle prossime elezioni, castità e preservativi.
Come arriveranno, a chi, quando e come questi 2.500 euro? Non si sa.
Se qualcuno non è di memoria corta, potrà ricordare che fu la stessa, identica promessa che Prodi fece nella campagna elettorale del 2006. La solita coscetta: questo è il welfare italiano.
Ci sono poi i 1.000 euro il mese per i precari. S’istituirà un salario minimo di legge (come nella maggior parte dei paesi industrializzati)? No, la strada italiana è più fantasiosa: l’imprenditore che darà i 1.000 euro riceverà uno sgravio fiscale. Sarebbe a dire: nessuno garantisce che le coscette giungeranno al supermercato ma che, se qualcuno le porterà, gli pagheremo il gasolio per il camion. Che fantasia!

Sull’aumento delle retribuzioni sono tutti d’accordo: possiamo stare tranquilli. Si dà il caso che, proprio in questi giorni, il personale della scuola abbia ricevuto gli arretrati per il contratto già scaduto a Gennaio 2008.
Secondo livelli ed anzianità, possiamo calcolare un aumento di circa 80 euro medi netti: per questa gente, mantenere una famiglia – negli ultimi due anni – è costato solo 80 euro in più!
Ovviamente, siccome non pagano la benzina e non vanno al supermercato (loro hanno i prezzi bloccati della buvette di Montecitorio) non possono sapere di quanto è aumentato un pieno, né sanno di quanto sono aumentati il pane, la pasta, la carne. 80 euro in due anni! Questa è la stessa gente la quale afferma – sicura – che così “non si può più andare avanti”. Probabilmente, sono le precise parole che le strutture di marketing hanno suggerito d’utilizzare.

Infine, c’è il grande impulso verso l’energia: la “rottamazione” del petrolio. Quando ho letto la dichiarazione di Veltroni – messa in quei termini – m’è venuto freddo. “Il 20% di risparmio sulla bolletta energetica fanno 20 miliardi risparmiati”.
Ora, da anni il sottoscritto va dicendo le stesse cose, ma prima s’informa. La “bolletta energetica” del 2006 fu di 46 miliardi di euro, quella del 2007 – secondo il RIE, centro di studi sull'energia – resterà pressoché invariata. Non stiamo a sottilizzare troppo, ma il 20% fa circa 9 miliardi, non 20. E se mancheranno 11 miliardi? Scaveranno un altro “tesoretto”? Siamo seri.

Sull’altro versante cambiano un po’ le parole d’ordine: d’altro canto, ciascuno si fida della sua struttura di marketing.
Giulio Tremonti è già sceso in campo per spiegare che le cose, per il bilancio statale, virano al peggio. C’è la crisi economica incombente, quella dei subprime, la recessione americana…insomma, un panorama di tregenda. Il quale, si manifesta soltanto quando governa il centro-destra, mentre il centro-sinistra gode sempre di sole e bel tempo. All’italiana, verrebbe da dire: portassero un po’ sfiga?
In realtà, Giulio Tremonti – ottimo insegnante e scrittore – l’unica cosa che non dovrebbe fare è il Ministro delle Finanze, perché non c’è tagliato. Farebbe fallire anche un chiosco di bibite: se ne accorse addirittura Fini, che ne pretese le dimissioni.
Il buon Giulio gode però dell’appoggio di Berlusconi e di Bossi, e per un sostanziale motivo: è ligio agli ordini, pronto a firmare qualsiasi cosa arrivi da Arcore. Tant’è che Siniscalco, chiamato in fretta perché non si sapeva più come rimediare ai buchi di bilancio – alla fine – se ne andò sbattendo la porta perché non voleva fare, all’unisono, la marionetta di Silvio ed il capro espiatorio. Giulio non ha questi problemi: è uomo di poche pretese e s’adatta a tutto.
L’uomo di Arcore, oltre probabilmente a qualche mago e cartomante, consulta anch’egli la sua struttura di marketing, che per lui ha scelto la strategia dell’abbattimento delle tasse. Funziona, Silvio, funziona.
Così, promette d’eliminare l’ICI, e probabilmente lo farà. Ne beneficeranno principalmente i possessori d’interi palazzi, i grandi proprietari fondiari, perché l’ICI sulla prima casa – in moltissimi comuni – già gode oggi di consistenti sgravi.
Insomma, la famiglia normale risparmierà qualcosa, mentre Berlusconi – gran palazzinaro – si metterà in tasca fior di dobloni. Quando abbatté le tasse sugli alti redditi, il principale beneficiario fu lui. E forza Silvio.
Questo, a lungo andare, provocherà degli ammanchi sul bilancio statale: ecco perché Tremonti già mette le mani avanti, accusa la sinistra “di lasciare buchi”, la congiuntura internazionale…la solita solfa.

Anche Berlusconi, però, vuole aumentare gli stipendi: oh, bene. Sì, ma solo sugli straordinari.
Lavora di più, così potrai guadagnare anche 1400 euro il mese che, con gli sgravi fiscali, diventeranno 1440. Sei felice? No? Luca di Montezemolo è contento...dice che risparmia personale e ci guadagna parecchio…la fatica aumenta la probabilità d’incidenti sul lavoro? Non raccontiamo cazzate: la colpa è degli operai che non si mettono il casco.
Così, senza più l’ICI e con meno tasse che entrano, il bilancio dello Stato va in rosso. E chi se ne frega! Mandate Giulio a Porta a Porta, fategli raccontare che la colpa è dei comunisti!
Esilarante poi la proposta di Berlusconi sul fronte dell’energia: mettere più soldi nelle tasche degli italiani, così fanno il pieno e corrono felici in autostrada. Solare, eolico, nucleare, biomasse? No, se il petrolio costerà 200$ il barile, daremo più soldi agli italiani per comprare la benzina. Per favore, basta…
Anche Silvio, come Walter, vuole “fare cassa” per le tasse, l’energia…e allora s’inventa il risparmio sull’informatizzazione della Pubblica Amministrazione. Dai 20 ai 40 miliardi l’anno, parola di Lucio Stanca – gran direttore dell’ex IBM – che è un amico e di lui mi fido.
Mentana, un po’ imbarazzato, gli chiede se ci saranno “esuberi” – è scaltro, e non osa certo parlare di “macelleria sociale” – ma Berlusconi lo ferma: no – mi ha detto Stanca – s’ottengono solo dal risparmio che si consegue nel passaggio dal cartaceo all’elettronico! E dobbiamo anche starlo a sentire! Da domani, proverò con metà carta igienica: poi scriverò a Stanca per raccontargli com’è andata.

Sugli altri commensali, meglio stendere un pietoso silenzio: dagli “Arcobaleno”, i quali – dopo aver votato per due anni le peggiori leggi contro i lavoratori – adesso pretendono d’assumerne le tutele. Oppure il Pecoraro che non ha più erba in Campania per le sue pecore, giacché c’è solo monnezza. Sarà la Coscia Rossa?

Mi ha invece un poco infastidito Tabacci, perché sembrerebbe uomo di cultura, e certe cose non si fanno proprio.
Ora, sappiamo che la fantasia per creare nuovi partiti sta scemando: dopo anni trascorsi nella botanica (querce, girasoli, margherite, ecc) non si sa proprio più dove andare a parare. Non si può fare il partito del Giusquiamo Nero, perché è un’erba velenosa e nessuno sa cos’è. Nemmeno Storace lo reclama.
Nuove frontiere della Zoologia? Può essere: Partito del Gambero Rosso, della Lucciola, Armadilli Riuniti, Rinnovamento Equino…la fantasia non manca.
La Rosa Bianca, però, se la poteva proprio avanzare: per il rispetto che tutti dovremmo avere per Christoph Probst, Hans e Sophie Scholl, antesignani di una critica alla guerra che metteva sotto accusa proprio il concetto di “suprema ragion di Stato”, e che pagarono con la vita nei tribunali di Hitler. Uno come Tabacci – che ha sempre approvato le missioni di guerra italiane all’estero – quel nome non ha il diritto d’insozzarlo. Si prenda la Coscia Bianca, Tabacci, e corra.
Basta con questa gente, silenzio.

Ciò che dispiace – e l’ho purtroppo dovuto leggere sul Web – è sapere di gente che s’accapiglia per la scelta d’andare a votare oppure no. Pazienza che ci prendano in giro con le stesse coscette da decenni ma, mettersi a litigare per delle coscette inesistenti, è da fessi! E’ quello che vogliono! Loro, la chiamano “passione politica”!
Vogliono vederci “responsabili”, “interessati”, “coscienti” perché, se manca il pubblico, la compagnia non guadagna.
Qualcuno vuole votare? Lo faccia, ma sorridendo. Preferisce una gita in campagna: ottima idea! Un pomeriggio che promette bene con quella tizia che…alt! Avete consultato il calendario? Achtung! Altrimenti, niente 2.500 euro!

Da ultimo, dovremmo riflettere che gran parte di questi signori s’incontra in discreti palazzi ed indossa curiosi grembiulini. D’alcuni lo sappiamo per certo – Berlusconi, Cicchitto, ecc, ma anche larga parte del giornalismo italiano – perché compaiono nell’elenco della P2 che Gherardo Colombo consegnò a suo tempo a Forlani. Non è irragionevole, però, immaginare che a decine, forse centinaia, s’incontrino nei discreti palazzi delle confraternite massoniche e che se la ridano di noi allegramente. Magari mettendosi d’accordo sulle coscette: tu proponi la confezione famiglia? Va bene, io vado con la coscia di tacchino.

Insomma, siamo già così sfigati da doverli sopportare: dobbiamo anche metterci a litigare?
Oltretutto, riflettiamo che il principale dato economico che ci riguarda consiste nella ripartizione della ricchezza. Per anni, ci hanno propinato il leitmotiv che “è inutile promuovere la re-distribuzione della ricchezza se prima non la si crea”. Verissimo, ma sappiamo che il 40-45% della ricchezza è nelle mani del solo 10% della popolazione: addirittura Prodi – nella campagna elettorale del 1996 – affermò che la distribuzione della ricchezza in Italia era praticamente la stessa della Gran Bretagna del primo Ottocento. Il guaio, è che l’ha solo detto: altra coscetta.
Riflettiamo su questo dato; approssimativamente, significa che la ricchezza prodotta da 10 italiani sarà così suddivisa: uno solo prenderà quasi la metà, mentre gli altri 9 si divideranno ciò che rimane.
Niente di nuovo rispetto alla vecchia mezzadria, scomparsa nelle campagne con le riforme del dopoguerra. Come funzionava?
Una grande famiglia patriarcale (poniamo una decina di persone) lavorava i campi e produceva ricchezza: ogni anno ricavava, ad esempio, 10 maiali, 100 quintali di grano e 50 barili di vino. La mezzadria divideva a metà fra il proprietario e l’affittuario, così il padrone – senza far nulla, fornendo al massimo le sementi – acchiappava 5 maiali, 50 quintali di grano e 25 barili di vino.
Oggi, questo meccanismo – grazie alla fantasmagoria dei mercati finanziari ed all’informazione drogata – è tornato in auge: ecco il significato degli 800 euro mensili “a singhiozzo”, del progressivo depauperarsi dei ceti popolari. Hanno semplicemente riportato in auge un sistema che vigeva al tempo dei Savoia, contro il quale combatterono intere generazioni di veri sindacalisti!
Oggi, i Tre Re Magi – Angioletto, Bonanno ed Epifanio – sono diventati i “fattori”, e fanno gli interessi dei padroni.
Di conseguenza, allarmarsi per chi andrà o non andrà a votare, non è poi così importante: sono tutti d’accordo! Altrimenti, almeno rifondaroli e comunistucoli non avrebbero votato le leggi Damiano su welfare e le pensioni.

Le soluzioni non sono molte, e tutte difficilmente praticabili.
Ho provato ad inserire il mio comune nel sito delle Liste Civiche di Grillo: vivendo quattro spanne oltre il bordo della carta geografica, non c’era una lista civica per quel comune. Mi sarei aspettato una richiesta del tipo: vuoi fondare una lista civica nel tuo comune, vuoi partecipare alla costruzione della lista? Mandaci i tuoi dati, dicci chi sei.
No, la risposta è stata “che sarei stato avvisato qualora si fosse formata una lista civica per quel comune”. Ora, di grazia, se chi si presentasse (condizionale…) per formarla viene soltanto “avvisato” per quando (eventualmente) ci sarà, chi forma queste liste? Nascono sotto i cavolfiori?
L’idea di trovare una nuova classe politica partendo da liste locali – bene che vada – potrà condurre ad avere una lista nazionale fra dieci anni. Nel frattempo, chissà cosa s’inventeranno i venditori di coscette: magari riformeranno l’art 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul televoto”. Bonolis Presidente della Repubblica.
A meno che, la lista nazionale già ci sia ed abbia soltanto bisogno di trovare un pubblico – abilmente ammansito ed addestrato – per sorreggerla. Insomma, una lista “coperta”. Come le logge.
La scelta del blog di Grillo d’essere soltanto un contenitore di protesta, e mai d’elaborazione politica, sembrerebbe confermare questa ipotesi.

Sostituire questa classe politica inefficiente e truffaldina non è cosa di poco conto: lo sa anche la Casta. Difatti, Bersani ha già lanciato una parola d’ordine: “Rinnovare la classe politica, però immettendo solo persone di provate capacità”. Traduzione: “Noi ce ne possiamo anche andare, ma solo per lasciare il posto ai rampolli che abbiamo allevato alla nostra scuola”. La quale, ha mostrato ampiamente d’essere una pessima scuola.
Le candidature dei giovani sono tutte di “provata fedeltà”, come il figlio di Colaninno (grande amico di D’Alema…) e Marianna Madia, ufficialmente un volto “giovane e candido” della new generation: Veltroni ha visto forse un po’ troppi film americani?
Qual visino, quando l’ho visto, m’ha subito rammentato un profilo greco che avevo notato la notte, in una trasmissione sull’energia (politically correct, tranquilli…) dal nome eCubo. Sponsorizzata da Minoli, la bella Marianna (oltre che a lavorare in RAI) si scopre che lavora con un contratto di consulenza presso la Presidenza del Consiglio: è, praticamente, la principale collaboratrice di Enrico Letta detto il Giovane, come Plinio. Insomma, affermare che la ragazza sia proprio una illustre sconosciuta…
E’ il “teorema” ben enunciato da Bersani: giovani puledri e puledre, ma tutti della nostra scuderia.

Sull’altro versante, invece, ci sono le pornostar che fondano i “Circoli della Libertà” per B&B (Berlusconi e Brambilla) – come Federica Zarri – e già circolano le bozze di una “riforma” dell’hard, che la ragazza chiama “legge Zarri”. Questa è la destra del futuro.
L’antipolitica, si sconfigge così: parola di Bersani & Brambilla.

Innovare colmando i vuoti con la cosiddetta “società civile”?
Qui entra in gioco il fattore anagrafico, e non si tratta di un mercato dove abbondano le offerte.
Se si propone di fare veramente politica – il che significa anche abolire gli assurdi privilegi della Casta, riportare ai livelli medi europei gli emolumenti dei parlamentari, ridurne di gran copia il numero nelle amministrazioni centrali e periferiche, inserire norme che garantiscano vera trasparenza nei concorsi, nelle Università, negli Enti, ecc – non c’è la fila di gente che attende. Siatene certi.
Una vasta pletora di giovani e meno giovani è lì che attende, ma solo per sostituire a “pari condizioni” quelli che vorrebbero defenestrare. Siamo onesti con noi stessi.
Si può anche capire il fenomeno: ammettendo una generale moralizzazione della vita pubblica, fare seriamente politica è un mestiere ingrato. Mica come vendere coscette.
Significa dire a chiare lettere cosa si vuol fare per rimediare all’immobilismo dilagante: la sanità? La scuola? L’energia? La finanza? Le tasse? La giustizia? Vuol dire presentare progetti seri ed essere pronti ad affrontare i venditori di coscette, ovunque. E saperlo fare.

A fronte di questa prospettiva – che, per chi ci riflette un attimo, dovrebbe apparire chiaro che si tratta di un compito che fa tremare i polsi – ci sono persone giovani che non hanno molta esperienza. Le persone meno giovani – che non hanno trascorso l’esistenza scaldando soltanto comode poltrone – hanno lavorato un’intera vita.
Hanno sì esperienza, sanno a grandi linee quali sarebbero i provvedimenti seri da prendere per raddrizzare il Paese, ne avrebbero probabilmente anche le capacità, ma sono stufi. Per troppi anni si sono sentiti presi per il culo.
Sono risposte che ho ricevuto personalmente, non mie idee bislacche.
Sostanzialmente, le persone che hanno trascorso una vita nelle fabbriche, nel settore pubblico, nelle professioni – e che non hanno mai mendicato nelle anticamere della politica – si trovano ad un bivio: vado in pensione, e “che qualcuno ci pensi”, oppure devo ripartire da capo? Con la prospettiva d’avere tutti i poteri della Casta contro, che avveleneranno anche gli ultimi anni della mia esistenza?

Eh sì, signori miei, perché le persone serie non sbatacchiano in televisione i propri sentimenti, non li trasformano in altre coscette (come l’immondo ricorso ai temi etici, per meri obiettivi elettorali), ma s’interrogano sul significato della Vita e della Morte.
In altre parole, conoscono bene il proverbio indiano che recita: “La vita è un ponte incerto che dobbiamo attraversare: l’unica cosa poco saggia è costruirci una casa sopra”, e – siccome sono in larga parte persone semplici ma serie – riflettono mille volte prima di decidere. Mica si buttano a pesce sul primo posto da assessore: in definitiva, giunte al termine della loro vita lavorativa, non ne hanno bisogno.

I giovani potrebbero essere la risposta, ma da soli non ce la possono fare: ne hanno viste troppo poche, ed i marpioni di regime se li mangerebbero in insalata. Un mix sarebbe forse la migliore soluzione.
Possiamo ricordare com’era strutturata la civiltà Lakota: i vecchi erano sempre consultati prima di prendere decisioni importanti, ma i capi erano persone di mezza età. Infine, i capi guerrieri e quelli eletti di volta in volta per le cacce, erano giovani. Impariamo.
Aprendo una breve parentesi, ricordiamo che, qualche mese fa, la comunità Lakota si è “dimessa” dall’essere cittadina americana: aspettiamo il comunicato di Condoleeza Rice che ne sancirà l’indipendenza. Come in Kosovo.

E’ molto interessante, invece, l’idea d’emigrare in massa: molti giovani già lo fanno, ed il fenomeno è senz’altro in crescita. D’altro canto, è perfettamente coerente con l’impianto sociale che dovrebbero sopportare in Italia: prezzi tedeschi e stipendi greci.
Siccome parlano spesso due lingue (e meglio delle precedenti generazioni), non c’è motivo per rimanere a soffrire in questo dannato paese. Conosco personalmente giovani che lavorano in mezza Europa, in America Latina, in Giappone.
Se qualcuno, però, pensa che questi giovani, dopo aver vissuto molti anni all’estero, tornino per salvare la Patria – a mio avviso – si sbaglia di grosso. Non scendiamo nelle situazioni personali, ma è difficile immaginare che giovani che lavorano, si sposano e fanno figli all’estero siano pervasi dalla voglia di tornare. E per quale motivo? Per tornare a sedersi nell’anticamera del notabile, oppure campare “a singhiozzo” con un contratto da 800 euro il mese?
Oltretutto, non esiste più la gran differenza di culture nel pianeta: Internet sta appianando molte differenze, e si può gustare una buona pizza ovunque.
Sembrerebbe la “lista della spesa” dello sfascismo ma – se riflettiamo sulla situazione – così stanno le cose: il bassissimo impero qual siamo giunti, non ci riserverà altro che chine ancora più ripide e pericolose.

Che fare?
Le prossime elezioni politiche – comunque vadano – non scalfiranno di un’unghia la solita solfa: Berlusconi tuonerà contro lo Stato ma non saprà, non potrà e non vorrà riformarlo. Sostanzialmente, continuerà a farsi gli affari suoi.
Veltroni affermerà di prendersi cura di tutti i disagi, ma non vedo croci che lo attendano per la grande espiazione. Se ne scorderà presto, al primo canto del gallo.
Al venticinquesimo “Vaffa-day”, Grillo inizierà a pensare di girare un film, magari ad Hollywood, con Dustin Hoffman nella parte di Veltroni e Gene Hackman in quella di Berlusconi. Lui, in quella di Masaniello. Non lo metterà su Youtube: meglio i diritti d’autore.
Intanto, noi saremo sempre in mutande.

Se qualcuno intende perseguire la strada di creare una nuova classe politica, che nasca dal semplice dibattito della gente – l’agorà di Internet – la possibilità c’è. Se si vuole veramente farlo.
Ho acquistato il dominio www.italianova.org (non cliccatelo, è vuoto) per dare la possibilità a chi volesse intraprendere l’impresa di farlo.
C’è da fare di tutto: scrivere e selezionare articoli, filtrare e riproporre le critiche dei lettori, gestire la parte informatica. In altre parole, creare una redazione per un giornale Web, aperto come un blog alle critiche.
Niente di nuovo sotto l’aspetto di Internet, ma molto per la politica italiana: bisognerà affermare a chiare lettere che quello sarà il sito dal quale nascerà una nuova aggregazione politica. Esattamente l’opposto dei siti dei partiti, che servono solo a pubblicizzare ciò che si decide nelle stanze del potere.
Lo scopo? Selezionare, pazientemente, le migliori idee e progetti per uscire dall’impasse delle coscette, per parlare finalmente di politica nell’ottica della decrescita e dell’ecologia, della re-distribuzione della ricchezza e della vera pace, che non significa votare tappandosi il naso. Significa affrontare con pazienza anche scuola, sanità, trasporti: tutto ciò che ci viene ammansito con le coscette. E senza strani “grembiulini”.
Riflettiamo, però, che chi desiderasse farlo dovrebbe prendere precisi impegni, non chiacchiere. Vedremo: al massimo, avrò gettato 25 euro. Pazienza.
Perché Italianova? Poiché mi ricordava il “dolce stil novo” che – con il passaggio dal Latino al Volgare – segnò il sentiero del Rinascimento.
Scontate le premesse sopra esposte, la porta è aperta, per tutti.

17 febbraio 2008

Una storia vigliacca

Abbiamo imparato a portare le giarrettiere, a scrivere intelligenti articoli progressisti, a fare il caffé e la cioccolata Milka. Ma quando si tratta di affrontare seriamente il problema della convivenza di poche tribù in una fertile penisola dell’Europa, non sappiamo escogitare altro metodo che il reciproco sterminio su scala di massa.”
Lev Trotsky, corrispondente per la Kievskaja Mysl nel Kosovo, durante le guerre balcaniche del 1912-13.

E così siamo giunti all’epilogo: il Kosovo è diventato Kosova. Questi sono i “grandi temi” ai quali si applica la politica internazionale, gli obiettivi, i principi. Da oggi in poi, signori miei, ciascuno di noi potrà proclamare l’indipendenza di ciò che gli pare: non sarà più necessario concordare nulla, né avere l’assenso dell’unica organizzazione che (eventualmente) potrebbe sancirla, ovvero l’ONU. Ah, dimenticavo: procuratevi prima l’assenso del Segretario di Stato USA e della NATO. Quello europeo non serve, basterà – eventualmente – un’autocertificazione convalidata dal vostro segretario comunale (in procinto di diventare, probabilmente, Ministro dell’Interno).
All’occorrenza, potrete scaricare dal Web un fac-simile di quelli “milleusi”, nel quale dovrete sostituire le parole “residente nel comune di Pippolandia, Repubblica Italiana”, con “Repubblica di Pippolandia”. Siete a posto: fatto. Perché, sotto l’aspetto del diritto internazionale, questa è stata l’indipendenza del Kosovo.
Fra i tanti commenti che sono apparsi, nessuno ha citato il fatto che l’UE non è stata in grado di formulare un giudizio e d’avere una posizione univoca: avanti uniti, in ordine sparso. L’Italia – per non venir meno alla tradizionale “decantazione” prima di prendere decisioni importanti (si pensi alle due guerre mondiali…) – attende, per bocca del suo Ministro degli Esteri, che i partner europei “si pronuncino”.

L'Italia è quindi pronta a riconoscere l'indipendenza del Kosovo, ma intende farlo assieme a Francia, Germania e Gran Bretagna e "senza strappi" con gli altri Paesi dell'UE.” Afferma una non dichiarata “fonte diplomatica” all’ANSA il 17 Febbraio, “perché Cipro, Spagna, Grecia, Bulgaria, Romania e Slovacchia sono fortemente critici sul nuovo status di Pristina.

Notiamo che, a parte la Spagna – che in politica estera non è proprio il due di coppe – degli stati balcanici aderenti all’UE l’unica a pronunciarsi favorevolmente è stata la Slovenia. Che si trova a mille chilometri da Pristina.
Perché l’ostracismo delle repubbliche balcaniche?

L’ANSA brilla spesso per essere così “neutra” da diventare la semplice cassa di risonanza del Governo al potere, ma stavolta non s’è accorta di contraddirsi platealmente.
Massimo D’Alema definisce “ineluttabile” l’indipendenza del Kosovo – dimenticando che fu proprio lui uno degli artefici di questa “ineluttabilità”, quando inviò i cacciabombardieri italiani AMX a bombardare la Serbia – e incassa la solidarietà di Fini, il quale dichiara:

In una politica che divide, su questa questione quello che ha fatto D'Alema è sostanzialmente anche da me condiviso. Proprio perché D'Alema si è mosso sulla scia di una precedente posizione assunta dal governo di centrodestra."

E, questo, la dice lunga sulle grandi “novità” dell’orizzonte politico italiano.
Purtroppo per lor signori, c’è una voce fuori del coro ed è quella del generale Fabio Mini, che comandò la forza NATO in Kosovo nel 2002 e nel 2003, il quale esprime ben altro giudizio.
Attenzione: qui non parla uno dei tanti sproloquiatori a vanvera del teatrino politico italiano, qui parla una persona che ben conosce la situazione.
Al Corriere della Sera, il generale Mini dichiara (e riporta l’ANSA):

Il Kosovo indipendente serve solo ai clan che lo potranno utilizzare per le loro spregiudicate operazioni finanziarie, un "porto franco" che consentirà di farne la base di nuove banche per il denaro dell'Est perché "Montecarlo, Cipro, Madeira non sono più affidabili.”

In sostanza, mentre Montecarlo, Cipro, Madeira ed altre realtà sono espressamente dedicate al traffico internazionale occulto d’alto bordo, serve un luogo dove far crescere e prosperare la “piccola e media impresa” criminale, un posto dove anche chi può permettersi poco – magari solo la vendita di qualche carico d’armi in Africa, o un po’ di eroina dal nuovo Afghanistan “purificato” da USA e UE dai Talebani (che avevano fortemente represso la coltivazione dell’oppio) – potrà trovare banche accoglienti, finanziamenti discreti, amene località a basso costo per “fare impresa”.
Per preparare un simile “terreno di coltura”, però, è necessario tanto duro lavoro e gente volenterosa: si sa, fare l’imprenditore è un mestiere rischioso.
Per prima cosa era necessario togliere di mezzo i serbi – che hanno le loro responsabilità in quei luoghi, come tutti ne hanno nei Balcani – ed a questo pensarono le 19 aviazioni riunite del IV Reich, nel 1999.
Poi, c’erano dei fastidiosi strascichi da regolare…piccoli particolari, inezie…

Una era la presenza dei ROM, che vivevano – stanziali – da secoli in quelle terre. Quelli che lamentano la presenza dei ROM in Europa – penosa e criminale l’affermazione di Berlusconi, che ha promesso “tolleranza zero” per i ROM, soprattutto se riflettiamo che l’uomo si candida a governare uno dei più importanti stati del pianeta – dovrebbero conoscere un po’ meglio la storia di quel popolo, prima d’abbandonarsi alla voce delle viscere.
Per prima cosa, i ROM dovrebbero godere della stessa attenzione ampiamente riconosciuta agli ebrei per la Shoà: purtroppo, i ROM non hanno banche che finanziano Yad Yashem per fare ricerche sull’Olocausto. Così, a Tel Aviv, si è pensato che era meglio fare di tutta l’erba un fascio: chi è morto nella Shoà? Gli ebrei.
Non sappiamo quanti ROM finirono “su per il camino”, ma tanti sopravvissuti (di molte etnie e nazioni) raccontano quella che fu la loro triste odissea: razziati dagli italo-tedeschi (sì, anche dagli italiani, più i fascisti croati) finirono nei vagoni piombati per la Germania, magari dopo una “sosta” alla Risiera di Trieste.
E’ difficile fornire cifre attendibili al riguardo, poiché anche l’ultimo censimento statale jugoslavo ne contava approssimativamente 2 milioni, definendoli “jugoslavi”, perché non si sapeva quale nazionalità (serbi, croati, ecc.) attribuire loro.
Al termine della Seconda Guerra Mondiale, nessuno si prese la briga di risarcire in nessun modo un popolo che aveva subito la brutalità nazista al pari degli ebrei. I soliti due pesi e due misure.
Finirono per essere un “problema interno” jugoslavo, e moltissimi ROM divennero stanziali proprio in Kosovo, principalmente a Pristina, Kosovo Polje, Tavnik, Podujevo, Djakova…

Per raccontare la storia dei ROM in quella terribile estate del 1999 – quando, terminate le ostilità, in Italia si discuteva delle elezioni europee, oppure s’andava semplicemente al mare – è importantissimo un documento pubblicato sul Web da Roberto Giammanco e da Theo Fründt, dal titolo “Storia di Reska”, che troverete all’indirizzo http:www.kelebekler.com .
Roberto Giammanco è fine giornalista, uno dei tanti che scrivono benissimo (ve ne accorgerete da soli, se leggerete quelle pagine) e che non trovano – ovviamente – “grande accoglienza” nell’editoria di regime.
Ancora più sconvolgente la vicenda di Theo Fründt, che è un esperto d’aiuti umanitari ed era stato inviato dal suo governo per soccorrere i profughi albanesi.
Quando Fründt s’accorse che i più perseguitati erano invece i ROM, ne informò Berlino, la quale rispose che “il loro dramma non era politicamente interessante”.

Solo per ricordare brevemente il dramma dei ROM, bisogna sapere che – all’arrivo dei guerriglieri dell’UCK a Kosovska Mitrovica, a Graçanica, etc. – i comandanti albanesi avevano già le cartine delle città, dove erano indicate con precisione le varie etnie, casa per casa.
Semplicemente, diedero poche ore di tempo alla popolazione ROM per lasciare le case, altrimenti li avrebbero bruciati insieme ad esse. Sorte che toccò, a Mitrovica, ad Aziz Azemi – vecchio e zoppo imam della tekké (santuario) locale – che bruciò vivo nell’incendio delle 1.600 case non albanesi della città. Questa fu la pulizia etnica che avvenne in quella malsana estate, mentre D’Alema guidava il governo italiano e si scoprivano i mille rivoli di corruzione e di malaffare, compresi i traffici con la malavita albanese, che avevano intriso di veleno la “Missione Arcobaleno”.
Questa premessa era necessaria per comprendere le affermazioni del gen. Mini che, altrimenti, potrebbero essere travisate come uno sfogo personale per chissà quali motivi. Che sono, invece, ben fondate storicamente.

Per ottenere quella base per traffici d’ogni tipo, la vecchia dirigenza albanese di Ibrahim Rugova era troppo inaffidabile: era gente che desiderava sì l’indipendenza del Kosovo, ma in un quadro di condivisione con i serbi.
Ecco allora che sale al cielo la “stella” di Hashim Thaci, il comandante militare che diventa referente politico per gli USA e per alcuni paesi dell’UE (Italia compresa).
A dire il vero, si trattò di un’ascesa prevedibile e scontata, giacché lo stesso Thaci era stato il referente presso i clan albanesi di William Burns – inviato di Clinton in Albania per rassicurare i clan skipetari, per assicurare loro l’invio di armi e denaro, cosa che avvenne anche grazie all’invio diretto dall’Italia (in un carico della Caritas che, probabilmente, era all’oscuro di tutto, furono scoperti cannoni anticarro smontati) – e tanto lavoro “diplomatico” è stato oggi premiato.
Ascoltiamo cosa racconta il gen. Mini sulla nuova “dirigenza” albanese del “Kosova”:

E’ il mandante di almeno 28 assassinati del partito di Rugova. Uno che, come molti capi dell'UCK, non ha mai spiegato la fine di un migliaio di rom, serbi e albanesi accusati di collaborazionismo, desaparecidos negli anni del primo dopoguerra".

Mini non cita apertamente Thaci (almeno, così parrebbe all’ANSA), ma un “presidente” è responsabile comunque dell’operato dei suoi Gauleiter.
La contrarietà di Mini è a tutto campo:

Questi processi non si risolvono in pochi anni, e non si affidano a chi ha partecipato allo sfascio. Ci si rende conto che all'Aja non testimonierà più nessuno contro gente che comanda uno Stato?”

Certo, questa è la precisa volontà italo-britannica-franco-tedesco-statunitense, ovvero i soliti due pesi e due misure: Karadzic e Mladic devono essere processati all’Aja, Thaci, diventa invece presidente.

Il gen. Mini mostra poi ampie doti di giurista e diplomatico:

Questa proclamazione fa saltare il diritto internazionale fondato sulla sovranità degli Stati. Uno scempio voluto dagli USA, che in questo diritto non credono e l'hanno dimostrato in Iraq. Sotto quest'aspetto, il Kosovo è l'altra faccia dell'Iraq.”

Riflettiamo che queste dichiarazioni non giungono da un Hugo Chavez oppure dall’Iran: sono l’espressione di un generale del nostro Esercito – finalmente qualcuno che ne ravviva l’onore con il coraggio, non solo con la triste conta dei morti – di una alto ufficiale italiano che ha comandato la forza NATO per due anni in Kosovo!
Pronto? Berlusconi, Fini, Veltroni, D’Alema, Casini, Diliberto? Come? Non vedo non sento e non parlo?

Ecco la contrarietà degli stati balcanici: signori, perché venite ad aprire il supermercato del crimine internazionale proprio sulla nostra porta di casa?

Fa parte del gioco, adesso, affermare che Serbia e Russia s’opporranno drasticamente. Sarà molto difficile farlo, perché non esiste nessun documento sul quale votare all’ONU! L’indipendenza del Kosovo sarà sancita da una semplice presa d’atto, proprio come un’autocertificazione.
Suggerirei ai sardi, corsi, nord-irlandesi, baschi, altoatesini, bretoni…ed a tutti coloro che voglio rendersi indipendenti, di firmare finalmente la benedetta autocertificazione – come ha fatto Pristina – e risolvere così i loro problemi.

Fuori della satira, i veri rischi che si corrono nei Balcani non sono oggi in Kosovo, bensì in Bosnia. Chi conosce la Jugoslavia, so già che assentirà, pensoso.
Di tutte le repubbliche ex-jugoslave, l’unica che non ha mai superato lo choc della guerra è la Bosnia. Rimangono sì altri problemi, strascichi…basti pensare che la Croazia, tuttora, rivendica l’aeroporto di Portroz (Portorose), che è in territorio sloveno, al confine.
Niente, però, che s’avvicini alla tragica inconsistenza politica bosniaca: il Ministero degli Esteri italiano – in una scala da 1 a 7 – assegna alla Bosnia un “7” per quanto riguarda l’affidabilità degli investimenti stranieri. Una nazione nella quale la moneta è rimasta il marco, “Marka convertible”, come al tempo della guerra.
E’ “convertible” perché la puoi convertire sul posto con quel che cazzo ti pare: corone croate, dinari di Belgrado, euro, dollari, una stecca di sigarette, una tanica di benzina.
La Bosnia è la vera polveriera della Jugoslavia, perché dalla separazione dall’Impero Ottomano – nel 1878, poi divenuta formale nel 1908 – non ha mai trovato equilibrio.
Grande “ventre” della Jugoslavia (basta osservare una cartina per rendersene conto) sopravvive politicamente con presidenze “a rotazione”: un ortodosso, un cristiano, un musulmano.
Viaggiando per la Bosnia musulmana, ci si rende conto che il tempo si è fermato con la fine della guerra, forse ancora prima, con la morte di Tito.
Nessuno sa come risolvere l’enigma, perché sullo stesso territorio convivono due repubbliche serbe (al nord ed al sud), mentre su una parte dell’Erzegovina ci sono tuttora rivendicazioni croate.
Niente di più facile, da parte di chi vorrà approfittare dell’indipendenza “on demand” del Kosovo, per accendere nuove micce: magari sacrosante, oppure truffaldine, in una terra dove il tanto vituperato l’Illuminismo non ha mai attecchito, dove ci si riconosce principalmente su base religiosa ed etnica.
Qualcosa Tito aveva cercato di fare per superare le mille divisioni interne: fu forse troppo poco? Sarebbe lungo affrontare un simile argomento, e ci vorrebbero ben altri spazi (e la pazienza dei lettori).

Tentai, però, nel 2000, di raccontare davvero cos’era successo fra le montagne del Kosovo, d’andare oltre le mille bugie raccontate mostrando sempre e soltanto il posto di frontiera di Morini. Ne nacque un libro, che intitolai “Kosovo e dintorni: la verità addomesticata”, che presentai a numerose case editrici. In quelle pagine, c’erano già i prodromi per raccontare l’oggi, questo oggi da operetta tragicomica.
Nessuno volle pubblicarlo: un altro punto d’onore per l’editoria italiana. Avanti coi carri, ed ogni carro ci porterà sempre la solita carrata di bugie.

10 febbraio 2008

Memorie e Ricordi

Come piombo pesa il cielo questa notte.
Quante pene e inutili dolori
.”
Franco Battiato – Come un cammello in una grondaia

Come ogni anno – accompagnate dal danzare del tempo – giungono le giornate della Memoria e del Ricordo. Arrivano quando l’Inverno cerca ancora di resistere, mentre le prime, timide brezze di Primavera s’incanalano nel fondo delle valli per ravvivare il verde spento dei prati.
E noi ricordiamo. Ricordiamo il gelo dell’Inverno che ci ha trapassati, che ci ha addolorati, pervasi, consunti.
Viene da chiedersi, allora, quali siano i tempi ed i modi del rammentare, del rinnovare a nuova memoria accadimenti che non si possono lasciare sedimentare nel baratro della Storia, senza accompagnarli con le pennellate di una melodia, per rendere loro onore nel palcoscenico della mente.
Si dà il caso che ricordo e memoria non possano soltanto trarre linfa dalle pagine dei libri, ma che – senza quelle pagine – diventino soltanto slavate leggende. E, sulle saghe, nessuno pontifica: ci si crede oppure no, e basta.
Come ritrovare allora il senso del rammentare, senza precipitare nella fredda cronologia degli orrori, oppure nella vuota enfasi dei retori, abbandonando così ogni speranza di vero ricordo?

Abbiamo innumerevoli esempi di questa pessima abitudine, particolarmente nel nostro Paese, una nazione dove la mancanza di veri mezzi di comunicazione s’evidenzia proprio nella gestione di quello che diventa un vuoto rito, la sterile ritualità della memoria e del ricordo.
Un Paese – nel quale il proprietario delle maggiori reti televisive è stato e si candida a diventare Presidente del Consiglio, sorretto/contrastato da migliaia di giornalisti pagati dallo Stato con la truffa delle leggi sull’editoria – quale elaborazione del tempo può fare? Come può affrontare memoria e ricordo, senza la libertà d’esprimere ad ogni livello tutte le verità che ogni frammento del vivere contiene? Si può affrontare un’analisi (di qualsiasi tipo) ponendo anzitempo dei limiti all’agire?
Si giunge così alla frammentazione ed alla sedimentazione di memorie e ricordi, vagliando accuratamente ciò che può e quello che non può essere raccontato. A prima vista, il maggior danno sembrerebbe di natura etica (per chi pianifica simili operazioni) e deontologica (per chi si presta ad eseguirle). Politici e giornalisti di regime, accomodatevi. In realtà, è l’intero patrimonio storico di un popolo che va a farsi benedire. False memorie, portano a pessimi futuri.

Per chi invece cerca onestamente d’osservare ricordi e memorie, per traslarli nel vivere collettivo, non è più nemmeno necessario citare fonti, perché la truffa è così sfacciata ed evidente da gridare lo schianto della menzogna, in ogni pagina di quotidiano, su ogni canale televisivo.
Dobbiamo meravigliarci se qualcuno ha qualcosa da ridire per la “dedica” ad Israele della Fiera del Libro di Torino? E, attenzione: si tenta di demonizzare chi non è d’accordo! In democrazia!
Forse qualcuno avrebbe dedicato una Fiera del Libro al Sudafrica dell’apartheid? No, perché non sapremmo come altrimenti definire Gaza ed il West Bank. “Territori occupati”? Oppure lager a cielo aperto, dove volteggiano elicotteri ed F-16 pronti a colpire dall’alto con razzi e missili? E quando a farne le spese (sorvolando su una pratica bellica proibita dalla Convenzione di Ginevra, ossia il bombardamento di civili) sono famiglie e bambini? Tzahal si scusa: der Krieg über alles. L’avevamo già sentita questa storia, proprio nelle memorie e nei ricordi.

Succede poi che qualcuno pubblica un elenco di docenti ebrei, affermando che “fanno lobby”. Attenzione: nessuno li accusa di sovvertire le leggi dello Stato, d’essere agenti provocatori…niente del genere.
Significa soltanto che c’è un sospetto, il solito: già che abbiamo potere, lo useremo per favorire i nostri interessi e quelli di chi ci sostiene.
Niente di nuovo, ma nemmeno nulla d’importante: se la più potente lobby italiana – da Palazzo Giustiniani a Castiglion Fibocchi – sta per insediare a palazzo Chigi la sua tessera della P2 numero 1816 – codice E.19.78, gruppo 17, fascicolo 0625, 26 Gennaio 1978 – è legittimo chiedersi cosa si propone la (supposta) lobby ebraica? Oppure israeliana? Non è una bestemmia chiedere allo Stato di sapere cosa vogliono fare questi cittadini italiani in possesso del doppio passaporto. Avessero il passaporto egiziano, siamo certi che nessuno avrebbe gridato allo scandalo e, anzi, si sarebbe chiesto da più parti di procedere speditamente nelle indagini. E’ questo uno dei pessimi frutti d’approssimativi “ricordi” e di mal sedimentate “memorie”.

Invece di gridare allo scandalo e di tirare fuori le leggi razziali del 1938, sarebbe più opportuno conoscere cosa desiderano queste lobby (ebraiche e non) in un Paese nel quale non c’è direttore di ASL che non abbia appiccicata al culo la targa di un partito, dove la malasanità – spesso – è frutto di nomine baronali, dove i ricercatori devono andare all’estero per pubblicare a proprio nome i risultati del loro lavoro: in Patria, devono subire l’onta di doverle “passare” al potente di turno. In un Paese, dove anche il più sperduto giornalista ha quel posto solo sulla base di precisi equilibri politici – che significano potere, denaro, lobby – è una bestemmia chiedere di sapere cosa vogliono questi signori? Per prima cosa, per sapere se esiste per davvero questa lobby. In un Paese normale, non si tirerebbero fuori come un manganello le leggi del 1938, perché nulla hanno a che vedere con la vicenda odierna. Memoria e ricordo, iniziano con la verità. E, la verità, non ammette ombre.
Qualcuno potrebbe credere che la Magistratura possa essere così cheta e neutrale da raccontarci la verità: a questo servono le fiammate dei media, a costruire una verità mediatica che possa intimidire anzitempo chi deve indagare. Dopo, ci vuole coraggio per cercare la verità: quando – come nel caso di Clementina Forleo – si giunge, sulla base di precise norme giuridiche, a liberare un sospettato perché non ci sono sufficienti prove, la campagna mediatica antecedente ha già creato un’altra verità, per il volgo e per il palazzo, cosicché è facile dopo accusare il giudice d’essere “non imparziale”. Soprattutto, se lo stesso magistrato sta indagando sulle trame fra mondo bancario e politico.

La pratica retorica di creare eventi mediatici enfatizzati, pieni di (falsi) sentimenti, finisce per insozzare proprio la memoria di coloro che quegli orrori li provarono sulla loro pelle. Serve, inoltre, a mascherare ciò che di poco onorevole ci fu in quelle vicende. Se si ricordano le pagine di Primo Levi, viene da chiedersi con quale coraggio si barattano quelle sofferenze con le combine politiche odierne. Vogliamo proprio saperne di più? Ce n’è da raccontare.

Perché, invece d’intessere i “Papa day”, non chiediamo al Vaticano come mai, la fuga di tanti ufficiali nazisti implicati nella Shoà, avvenne grazie al Cardinal Siri di Genova, che organizzava viaggi in Argentina in accordo con la compagnia Costa, la quale chiudeva entrambi gli occhi?
Qui non ci sono estenuanti ricerche d’archivio da fare, non è necessario scomodare illustri cattedratici: c’è il documento filmato, l’intervista che il segretario personale del Cardinal Siri concesse prima di morire, perché – probabilmente – non se la sentiva di presentarsi al Buon Dio con quel fardello addosso. L’intervista fu trasmessa – come sempre – a tarda ora su una rete RAI molti anni fa: perché, nell’occasione di Memorie e Ricordi, queste cose non si ripropongono?
E’ certamente più redditizio immergersi in elucubrate discussioni su quello che fu il ruolo del Vaticano, ossia lo spregio per il “signor Hitler”, ma anche la paura del “signor Stalin” – forse che Hitler era considerato “uomo della Provvidenza”?
Su queste basi, si può dissertare all’infinito: ci saranno storici che ammetteranno l’impossibilità – da parte del Vaticano – di fare di più per salvare gli ebrei. Altri, che invece sosterranno dei dubbi al proposito. Come giustificare, invece, la “compagnia di viaggio Siri” di Genova, forse affermando che il Vaticano non sapeva nulla? Dell’operato di un Cardinale che fu in procinto di diventare Papa?
Se qualcuno vuole ancora “approfondire”, c’è il film Amen, di Costa Gavras. Ritengo che la firma di Costantin Costa Gavras basti ed avanzi.

E ancora: qualcuno vorrebbe mostrarci quali furono gli attributi della “triangolazione” d’oro fra le banche svizzere, la Germania e la Svezia? Non a caso, i nazisti cercavano sempre e per prima cosa l’oro: la vicenda dei 50 Kg d’oro pretesi dalla comunità ebraica romana (che fu poi tradita) è emblematica.
Perché l’oro? Poiché la Germania aveva una fame d’oro immensa, per pagare la sempre più costosa guerra. La vicenda dei risarcimenti – terminata prima del 2000, per non cadere in una troppo vergognosa prescrizione – è nota: le banche svizzere, dopo mezzo secolo, liquidarono con quattro spiccioli gli averi (predati agli ebrei europei) ottenuti illegalmente dal Terzo Reich, e tutti stettero ben zitti.
Eh, lo crediamo bene: perché una verità “vera” avrebbe condotto a scoprire non le classiche “tre scimmiette” – non vedo, non sento e non parlo – ma una legione di muti, sordi e ciechi. L’acciaio migliore che esiste al mondo, dove si trova? Tutti lo sanno: in Svezia. Possiamo immaginare l’enorme quantitativo d’acciaio che Speer doveva trovare per mandare avanti la baracca nazista? Per costruire sottomarini, panzer, cannoni?
E dove la trovo? Come la pagò? Insomma, signori miei, l’artefice della macchina da guerra tedesca – a Norimberga – pagò solo con una condanna a 20 anni, poiché “mostrò pentimento al processo”! Notiamo che la corte lo ritenne colpevole per i capi d’imputazione 3 e 4: ossia “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”, i più gravi. Vent’anni, s’accomodi e stia ben zitto.
Per Gustav Krupp von Bohlen und Halbach – il nome “Krupp” qualcosa dovrebbe raccontare – fu escogitato addirittura che era “incapace d’intendere e di volere“ e condannarono, in altro processo, il figlio a 12 anni. Thyssen (altro magnate dell’acciaio tedesco) era già fuggito negli USA nel 1935, e là faceva affari con Prescott Bush, il nonno dell’attuale presidente USA, finanziando la macchina bellica tedesca grazie alle sue banche.
Insomma, la vogliamo smettere di raccontare sempre mezze verità o, peggio, mezze bugie con le quali si fabbricano mezze verità? Ecco dove finì ed a cosa servì l’oro rapinato agli ebrei europei.
Oppure dobbiamo chiederci perché i P-38 americani sorvolavano quasi quotidianamente i binari che portavano al complesso di Auschwitz-Birkenau, e non scese mai una bomba per, almeno, rallentare l’invio di prigionieri al lager? Dobbiamo anche raccontare che Otto Skorzeny – colonnello delle SS che liberò Mussolini al Gran Sasso – passò direttamente dalle file delle SS a quelle della CIA?

Se volessimo veramente conoscere le mille verità del nostro passato, dovremmo per prima cosa non indossare paraocchi: cosa, a dire il vero, non facile da fare con la strisciante censura che passa il convento.
L’altro “ricordo” di questi giorni riguarda l’Istria e la vicenda delle foibe.

Anche qui non c’è molto da dissertare, perché la vicenda – nella sua interezza – è di un chiarore disarmante: le truppe italiane si dedicarono per un biennio (1941-43) alla repressione in Dalmazia, e spesso sfogarono sulla popolazione inerme gli attacchi dei partigiani di Tito. Tutto ciò, avveniva dopo un ventennio nel quale gli slavi erano stato brutalizzati dai Fascisti peggiori che l’Italia ha espresso. Basti ricordare figure come il generale Roatta:

Saranno pure arrestati i maschi validi che affluiscono in abitazioni isolate, gruppi di case e centri abitati, dopo la nostra occupazione. Quelli che fra essi non risulteranno del posto, o che non rientrino colle proprie famiglie (circostanza questa che giustificherebbe la loro assenza al momento della nostra occupazione) saranno passati per le armi”. (dal diario storico militare dell’XI Corpo d’Armata, 4 luglio 1942-XX).

Oppure un “orgoglio italico” come Giuseppe Caboldi Gigli. Ascoltiamo Predrag Matvejević, scrittore croato e docente all’Università “La Sapienza” di Roma:
Il ministro fascista dei lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si attribuì l'appellativo vittorioso di "Giulio Italico", scrive nel 1927: “La musa istriana ha chiamato con il nome di foibe quel luogo degno per la sepoltura di quelli che nella provincia dell'Istria danneggiano le caratteristiche nazionali (italiane) dell'Istria” ("Gerarchia", IX, 1927). Lo zelante ministro aggiungerà a ciò anche dei versi di minacciose poesie, in dialetto: "A Pola xe arena, Foiba xe a Pazin" ("A Pola c'è l'arena, a Pisino la foiba").

Infine, se ancora si hanno dei dubbi, basterà leggere l’ottimo "Si ammazza troppo poco" di Gianni Oliva[1].

Al termine della guerra, si scatenò la rabbia e la vendetta degli slavi: come in ogni parte d’Europa, a pagare furono spesso gli innocenti. Mi sarebbe piaciuto, nei tanti servizi televisivi di questi giorni, ascoltare una parola pacata, che ricordasse le ingiustizie e i dolori, dall’una e dall’altra parte.
In questo strano Paese – dove si può essere solo juventini od anti-juventini – non è ammesso raccontare semplicemente che ci furono due tragedie: la prima causata dalle truppe italiane alle popolazioni slave, la seconda dai partigiani slavi contro la popolazione italiana. Due tragedie, non s’annullano l’una con l’altra, bensì si sommano nel dolore.
Invece, ricordare che l’Italia ebbe gravi colpe nell’occupazione della Dalmazia, è considerato un affronto, perché si contraddice il principio supremo della ricostruzione vuota e retorica, che non conduce al vero, bensì al suo simulacro. Ottone al posto dell’oro, così andiamo avanti.
Anche qui, per ragioni che non sono così nobili.

Tralasciando le velleità jugoslave su Trieste, e l’improponibile revanche italiana sull’Istria – non è questa la sede per approfondire un argomento così complesso – rimane da spiegare l’assurdo menefreghismo che circondò il rientro in Patria di centinaia di migliaia di nostri connazionali, dapprima ingannati dal Fascismo con le sue becere velleità razziali – al pari di quelli che dovettero tornare dalla Libia, dalla Somalia e dall’Etiopia – e poi abbandonati al loro destino.
Al loro ritorno in Italia – non eravamo più nella concitata “prima fase” post-bellica – quei disgraziati non trovarono nulla: furono alloggiati in strutture di fortuna, acquartieramenti militari abbandonati, vecchie fortezze e quant’altro. Con la pelosa carità di un piatto di minestra. Fu proprio in Italia che divennero veri profughi, quasi apolidi senza diritti.
Ho avuto il privilegio d’ascoltare da qualcuno di loro le vicissitudini, i dolori – oramai silenti nella mente, dopo tanti anni – di quell’esodo. Sono meglio di mille retori che marciano in squadra.

La notte d’agosto è tiepida: siamo rimasti solo in due nel giardino della casetta che sorge alle estreme propaggini di Trieste, sui primi contrafforti del Carso. Dopo la festa, la pantagruelica cena a base di carne alla brace e la sfilza di bottiglie di birra “Lasko” radunate in un angolo, siamo rimasti solo io e Alberto – lo chiameremo così – a raccontarci quei fiori che solo la notte sottende, ed ai quali solo la notte consente di sbocciare.
Tutte le cose iniziano sempre da una frase che nulla ha a che vedere con il discorso che prenderà forma, pian piano, man mano che la brezza notturna inizierà a stendere un velo d’umidità sulla tovaglia di plastica.
C’è ancora della birra…sì…ma questa non è più l’ora della birra, ed allora versiamo la rakja – la grappa slava – nelle tazzine del caffé, tanto per cominciare.

Una domanda neutra, innocua, grigia apre le danze: quanto ti manca per andare in pensione? Chiede Alberto. Cinque anni…forse quattro: in Italia – grazie alle continue riforme della previdenza, portate a termine o mancate per un soffio – oramai, lo sai solo quando stai per andarci; la pensione italiana è diventata una sorta di last minute, un avvenimento on demand.
So che Alberto ci è appena andato, ed abbiamo sei anni di differenza: siamo ancora nati entrambi sotto Stalin, ma io sotto Eisenhower, lui sotto Roosevelt. Ride: no, io sono nato sotto Tito.
Dove sei nato? E’ la domanda di rito.
A Rovigno. Già, Rovigno, Rovinij: quanti triestini vengono da Rovigno, forse troppi perché giungere da Rovigno sia un fatto del tutto casuale.
A quel tempo, Rovinij era Rovigno ed era Italia: tutto questo avveniva poco prima che Alberto venisse al mondo.
Poi la guerra, l’invasione italo-tedesca, la resistenza jugoslava, gli ustasha fascisti a dare una mano ai tedeschi – ricevuti in pompa magna in Vaticano – ed i cetnici serbi che credevano sì nella liberazione, ma anche nel vecchio re Pietro.
Quando Alberto era ancora nel grembo della madre il padre cadde, combattendo contro altri italiani – lui che era italiano – e la lasciò sola con un figlio che stava per nascere. Per questa ragione, appena nato, la madre pensò di prendere il posto del marito nella resistenza, fra i partigiani di Tito.
Finì la guerra e vennero i tempi bui, quelli della resa dei conti: Alberto era piccolo e non poteva ricordare i rastrellamenti casa per casa effettuati dai partigiani per stanare ustasha e fascisti, le fucilazioni, le foibe. No, non ricordava: il primo ricordo è una vecchia corriera sulla quale salirono lui, la madre e la sorellina per raggiungere Trieste.
Non chiedo nulla della sorellina, perché è evidente che hanno padre diverso: non voglio metterlo in imbarazzo. Perché fuggivano?
Poiché italiani. Schifoso, vile sberleffo della storia: una donna comunista, partigiana titina, vedova di un partigiano che credeva nella luce di Tito, obbligata a salire su quella vecchia corriera perché italiana! Eppure fu così: italiano divenne sinonimo di fascista, e non solo la pietà ma anche la giustizia finirono abbandonate nel fondo delle foibe.
Alberto ricorda il pianto della madre, mentre osservava allontanarsi il borgo vecchio: tutta la sua vita, i suoi amori, le tante sventure d’ancor giovane donna che svanivano dal finestrino.

Quando si cerca astutamente di non commettere un errore, spesso, si finisce per commetterne uno ancora peggiore; non ho voluto sapere nulla del padre della sorella – perché chiedere una simile inezia? Che importanza può avere un amore disperato, dolce e tremebondo nel fragore della buriana? Che cosa conta, oggi… – ed invece domando, come un sonnambulo deficiente: e tua sorella, dove vive?
La mia sorellina – torna improvvisamente indietro nel tempo, si sfrega il naso con le dita, dice proprio “la mia sorellina”, ed io mi chiedo perché non riesce ad immaginarla grande, magari madre, forse già nonna – morì quando aveva due anni nel campo di raccolta – fa un cenno con la mano ad indicare la nera collina alle nostre spalle – su, in Carso.

Vorrei inghiottire la saliva ma non ci riesco, tutto si è fermato, immobile: anche le foglie, che un attimo prima parevano ondeggiare alla brezza notturna, adesso mi fissano mute e mi chiedono come tanti occhi marziani, verdastri, perché non ho taciuto, perché ho domandato, perché…
Alberto capisce. No, non importa, non potevi sapere, ti capisco, non sei di qui. Quante cose non sappiamo e non riusciamo a comprendere, noi, quelli che “non siamo di qui”.
Giunti a Trieste – così le raccontò poi la madre – credevamo d’essere accolti come italiani: profughi, ma pur sempre italiani.
Invece i triestini ricordavano ancora l’occupazione jugoslava della fine della guerra, non si fidavano di niente e di nessuno, soprattutto di tutto quello che veniva da oltre confine, da quelle nere colline che oggi sembra quasi di toccare con mano.

I primi tempi rimanemmo nella zona del porto, ma non ricordo bene: quel che ricordo è invece il “campo” in Carso, le baracche di legno, il poco cibo, il freddo. Erano vecchi acquartieramenti delle truppe alleate e divennero case per gli sfollati dell’Istria: forse potevano bastare per dei vigorosi montanari dell’Oregon o per gli scozzesi, ma la gente dell’Istria ha il “piede” mediterraneo come un marchigiano od un greco, ed il gelo spaventa, atterrisce.
La mia sorellina morì di freddo: nelle baracche – in quel triste inverno – di notte gelava l’acqua, chissà quanti gradi sotto zero c’erano…
Dormivamo tutti nello stesso letto per scaldarci, e la mettevamo in mezzo perché godesse del tepore dei nostri corpi. Non bastò. S’ammalò, le venne la tosse e non c’erano antibiotici, le venne la febbre e tremò per notti e notti, poi se ne andò. Se ne andò così, la mia sorellina.
In quel momento comprendo – anche se non sono “di qui” – che per Alberto c’è un punto fermo nella vita: in mezzo a tutte le vicende che ti squassano l’anima, lo spirito di Alberto è ancora nascosto da qualche parte lassù in Carso, fra le nere boscaglie che ci sovrastano, e continua a vivere – come uno spettro – in quelle baracche che non esistono più da decenni.
Chissà quante volte, già adulto e sposato, si sarà rannicchiato accanto alla moglie e nel sogno avrà ritrovato la madre, chissà quante volte, quando la figlia voleva rimanere nel lettone, avrà ricordato…mio Dio…

No, non c’è un Dio. Lo accompagno al cancello e lo osservo salire sull’auto, lentamente, nel gran silenzio delle tre del mattino. Lo saluto e torno sui miei passi, verso un letto che non mi vuole e che non desidero: no, non c’è un Dio lassù a vegliare sulle vicende degli uomini, non può esistere un Dio che permette ad una bimba di due anni di morire mentre la madre ed il fratello cercano disperatamente di scaldarla con i loro corpi.
Non c’è un Dio per gli uomini e non c’è neppure per le loro guerre: insane, maledette, bastarde. Tutto il resto, poco conta.

[1] Più modestamente, potrete leggere il mio “La congiura del silenzio”, che troverete facilmente sul Web.

03 febbraio 2008

Cavalli, Caimani e tromboni stonati

“Voi non siete l'uno meno peggio dell'altro; siete due veri fratelli; due lupi legittimi; né v'è divario, se non che l'uno è nato prima e l'altro è nato dopo, non v'è divario che nel pelame.”
Carlo Bini, Manoscritto di un prigioniero

Sono le 9 e 30 del mattino quando varco la soglia del Centro Congressi della Regione Piemonte, per seguire i “lavori” del primo incontro fra le Liste Civiche del Piemonte. A dire il vero, quella convocazione – partita dal Gruppo.Unione@consiglioregionale.piemonte.it – avrebbe dovuto insospettirmi, ma non si può presagire il futuro, né gettare all’Inferno tutto solo perché giunge da una struttura della Casta. Se non si è puntato molto, ci si può anche permettere un “vedo”.
All’ingresso, non manca il tradizionale volantinaggio da parte d’alcuni coraggiosi giovani comunisti, appartenenti ad un fantomatico centro per la “vittoria del comunismo”. Propongono una strategia vincente ed innovativa: lotta antifascista per il comunismo. Film mai visto.
Appena entrato, due elegantissime P.R. chiedono la registrazione e consegnano una cartellina con il programma: sulla copertina – roba fina, di quella che costa – una lista d’oratori iscritti a parlare che stramazzerebbe un dromedario.
Noto subito la scansione degli interventi, che prevedono anche un “saluto” della Presidente regionale Mercedes Bresso (fuori orario, ovviamente), più la “comunicazione” delle attività della regione. Finalmente, alle 11.45, anche i poveri peones potranno parlare.

Il ritardo accademico, però, giunge oramai a superare la mezzora quando il primo oratore prende la parola, per magnificare l’iniziativa, che permetterà finalmente alle varie liste civiche di trovare un coordinamento. Sotto l’alto patrocinio della Regione Piemonte, della sua Presidente e dell’Unione: ringraziate, gente di poca fede. Dai, non smettete di leggere: il divertimento deve ancora arrivare.
Faccio due rapidi conti: sommando la mezzora di ritardo, l’immancabile pistolotto della Presidentessa, più qualche ritardo e le “varie ed eventuali”, bene che vada qualcuno del pubblico riuscirà a parlare verso l’una. A quel punto, lo stomaco inizierà a borbottare e tutti andranno con la mente al piatto di pasta che li attende: quando non sanno più come fare per imbonirti, cercano di prenderti per fame. Sul ponte sventola bandiera bianca.
Mi consolo quando comunicano che Rita Borsellino non sarà presente (15 minuti in meno…); no, hanno pensato a tutto: intervento registrato. A causa della pessima acustica e della scarsa conoscenza dei mezzi informatici, dalle parole della Borsellino riesco solo a decifrare “Sicilia” e “mafia”. Il resto, all’immaginazione.
Mentre la voce di Rita Borsellino – indistinguibile dai gracchi e dalle variazioni di volume – si spande, do un’occhiata al programma e cerco di capire chi sono questi signori che pretenderebbero di “coordinare” la gente, per lanciarla verso un fulgido futuro politico “civico”. Targato Unione, ovviamente.
Fanno tutti parte (eccetto, credo, Pancho Pardi) dell’Unione, quindi dell’alleanza Margherita-DS, ergo, oggi del PD. Sono i “trombati” del PD! Sono salito fino a Torino (per fortuna qui ho tanti amici e non avrò modo d’annoiarmi) per presenziare ad una riunione di trombati!
Apro la cartellina e leggo.

Vengo così a sapere che, quello che sembra il boss (fuori, qualcuno lo chiamava “Presidente”) – tale Mariano Turigliatto (sarà parente del senatore dissidente?) – è stato eletto nella lista “Insieme per Bresso” con 2703 voti di preferenza, ed è Presidente del gruppo regionale “Sinistra per l’Unione”: dai Mariano, ancora un sforzo e potrai diventare Gran Mogol delle Giovani Marmotte.
Mentre giungono dagli oratori profusioni di lodi, genuflessioni e recitazioni di mantra per Beppe Grillo – “potevamo non esserci al V-day? Sono le nostre, stesse parole d’ordine!” ma, Romano lo sa? – m’informo meglio sull’attività del “Presidente”.
Alcune, veramente degne di nota: la difesa dei “massi erratici” in quel di Avigliana, oppure le “problematiche” del centro del cavallo nel Parco Regionale “La Mandria”. Accidenti, Mariano, quando – fra qualche mese – ci ritroveremo con alcune decine di migliaia di serbi “erratici”, nel nuovo Kosovo albanese, sapremo a chi chiedere soccorso. Se, poi, fuggissero a cavallo, avremmo fatto Bingo e tu saresti nominato immediatamente Gran Commissario per i serbi “erratici” a cavallo. Con gente come questa, l’Italia può guardare con fiducia al futuro.

Perché – Bertani, cattivone – tiri fuori la politica estera con un semplice consigliere regionale? Dai…così è come sparare sulla Croce Rossa…
Eh no – signori miei – perché, intanto che voi leggevate, io ero andato avanti: nella primavera del 2007, Mariano ha fatto parte di una missione diplomatica in Sud America (pagata con i nostri soldi, ovviamente). Cosa volete che sia un problemuccio come il Kosovo, rispetto alla sterminata pampa?
Turigliatto ha fatto tesoro dell’esperienza, e ci comunica le sue conclusioni:
“Come sono diversi gli italiani all’estero, soprattutto come sono aspri i contrasti sociali fuori dall’Europa. Qui la miseria è miseria vera, la ricchezza non sembra avere limiti”.
Accidenti, Mariano: ma, quanto sarà mai costata questa bella “sintesi”? Aerei, pernottamenti, piñacolade & Cuba Libre vari, facciamo qualche migliaio di euro? Per molto, ma molto meno, qualsiasi studente liceale saprebbe far di meglio. Ci sono “aspri contrasti sociali” fuori d’Europa? Ma va? Che bella scoperta! Hai forse sentito parlare di Sendero Luminoso, delle FARC, dei Montoneros? No, perché “fuori dall’Europa” c’è anche il “contrasto” israelo-palestinese, l’Iraq, l’Afghanistan…mai sentito nulla?

Cerco di comprendere cosa cercano dalla platea i quattro bonzi che stanno appollaiati sul palco: leggo che una – l’unica donna presente – si chiama Graziella Valloggia ed ha un pedigree da apparatcik di partito. Spiega lei stessa, nel libretto, cosa s’attende:
“Sento con forza la necessità di radicare sul territorio l’esperienza del gruppo che mi ha sostenuto e che ha favorito la mia elezione…Vorrei provarci con libertà e consapevolezza, senza troppi vincoli e limiti politici e partitici.”
Traduzione dal politichese: “Gente, qui sta andando tutto in malora. A livello nazionale siamo rovinati, Berlusconi incombe, e sarà difficile ritornare – alle prossime elezioni – nella stanza dei bottoni regionale. Se non ce la faccio a trovarmi da sola un nuovo pubblico, una nuova base…insomma, qualcuno che mi creda…qui finisce tutto in merda. Per favore: non voglio tornare a lavorare nell’asilo di Borgomanero!”
Chiudo il prezioso libro.

Mentre il secondo oratore c’informa sull’importanza delle piste ciclabili, lancio un’occhiata alla sala: ci saranno due-trecento persone, che sembrano essersi date appuntamento più per vedere gli amici che per ascoltare qualcosa. Nella toilette, un tizio si liscia accuratamente i capelli e poi va a sedersi accanto ad una graziosa biondina in minigonna: speriamo che, almeno per loro, sia andata bene.
Siccome ho messo 2 euro nel parchimetro, alle 10.50 dovrò metterci altri 3 euro, altrimenti fiocca la multa. Facciamo 250 persone a 5 euro l’una…e il Comune di Torino tira su una bella sommetta: eh – medito – se le possono sì pagare le brossure per i convegni…

E tutto questo per riuscire a dire (forse) quattro parole ad una platea ormai preda degli aromi della pastasciutta! Questa sinistra può raccontare quel che vuole, ma ha perso l’unica forza che poteva avere: ascoltare, ascoltare il popolo della sinistra, quello che lavora ogni giorno, che si chiede come mai sappiano solo accontentare le banche e non chi dà loro i voti. Fanno una “scaletta” d’interventi che dura tutta la mattinata proprio per dover ascoltare il meno possibile il dissenso, per non esporsi alle critiche.
Per la destra, il problema non si pone nemmeno perché decide tutto il Caimano. Per gli altri, dietro, non c’è nulla: muti, ritti e rassegnati. Il “disaccordo” viene semplicemente gestito passando una “velina” ad una delle reti Mediaset: “contrastato” e sputtanato. Istantaneamente, com’è successo a Gianfranco Fini due mesi or sono, che si è subito affrettato a prosternarsi di fronte al Caimano. Così siamo messi.

Basta, non penso proprio che metterò altri soldi nell’infernale macchinetta: esco. Fuori, trovo un amico – anche lui visibilmente depresso per il tristo spettacolo offerto – e ci fumiamo insieme una sigaretta. Concludiamo, rapidamente, d’aver perso del tempo: noi, gente del Web, non abbiamo nulla da spartire con questi, con le loro pubblicazioni patinate, le fichette P.R., i saluti ossequiosi (Presidente…Assessore…), con i loro cardigan da 300 euro portati come se fossero tute della FIAT. Il vero mondo è fuori da questi cancelli, anche se nominano Beppe Grillo come se ripetessero un mantra.

Il vero mondo ci viene incontro mentre stiamo per salutarci: ha il viso pallido di un ragazzo sui trent’anni, magro, visibilmente spaesato. Accento siciliano evidente, ci chiede se sappiamo dove può trovare un lavoro.
E’ un muratore che fa gli intonaci – “traboccante”, ci racconta – ed è salito da Catania per cercare un po’ di lavoro, ma non ha trovato nulla. Non ha un posto dove dormire e non riesce a trovare lavoro in nessun modo: quello regolare perché non ha una dimora, e nemmeno in nero perché nessuno lo conosce e non si fidano. «Maledizione a me, che mi è preso di salire…almeno, a Catania, un posto per dormire l’avevo…»
Non può nemmeno scendere con il treno senza biglietto, perché sui convogli a lunga percorrenza controllano accuratamente e ti mettono a terra alla prima stazione.
Gli diamo qualche soldo e l’indicazione di chiedere agli autisti delle bisarche, che portano le auto della FIAT: molti autisti sono siciliani, va che un passaggio per la Sicilia lo trovi. Ci saluta: ha quasi gli occhi umidi di lacrime, che si confondono con la nebbia del viale, e s’allontana nell’uggiosa mattinata torinese.

Accendiamo un’altra sigaretta e riflettiamo ancora un poco su quel che c’attende. La crisi dei subprime sta per calare sull’Europa: ancora una volta, gli USA riusciranno a scaricarci i loro guai addosso. In primavera, i Balcani rischieranno di prendere nuovamente fuoco, e Dio solo sa cosa c’aspetta.
In mezzo a questo bailamme, noi ci ritroveremo con Berlusconi al potere, ma non sarebbe nemmeno questo il guaio più grosso. Il problema non è nemmeno Berlusconi, ma l’Europa che non ci vuole più: sono stanchi d’ascoltare le nostre lamentele da orfanelli, le nostre furberie da monelli.
Chiunque abbia messo il naso in Europa negli ultimi anni, l’ha percepito “a pelle”: sono disgustati dagli italiani, dai soliti “furbi” della nidiata, che credono di poterla fare sempre in barba a tutti.
Non capiscono perché Europa7 – che ha vinto in tutti i gradi di giudizio – non debba avere le frequenze che le spettano. E sono stanchi d’ascoltare un trombone come Gentiloni che – serafico – afferma che “è necessaria una nuova legge sulle frequenze televisive”, perché anche i lapponi hanno compreso che, con una nuova legge, Europa7 dovrà partire da capo con un nuovo ricorso. Altri anni per Rete4, ed Emilio Fede über alles. Alla fine, se il Cavaliere lavora per sé (e si può almeno capirlo), Gentiloni lavora per lui e questo no, è un po’ più difficile da comprendere.

L’amico mi racconta d’aver sentito al telefono un conoscente che fa il giornalista, a Madrid: oggi – gli ha raccontato – El Pais ha titolato “Cinco años por el Caimano”. Oramai, anche in Spagna hanno capito come andrà a finire.
Malauguratamente, però, il Caimano non sta bene alle burocrazie europee: non vogliono più sentire storie di “sforamenti” nei conti pubblici, non vogliono più ascoltare i lamenti di Tremonti. Soprattutto, con la tempesta finanziaria in arrivo.
E poi, sono stanchi di un’Italia che deve nominare un Gran Commissario per togliere la monnezza dalle strade, di una propaggine d’Europa che riconosce come unico potere costituito la criminalità organizzata.
Il vero rischio non è Berlusconi – è già un gran danno, ma non è ancora il peggio – perché le burocrazie europee potrebbero stufarsi del nostro vivere da levantini. E, se i grandi potentati europei decidono che le cose non possono più andare in questo modo, sanno come fare. Non scordiamo che il piano per dividere l’Italia a pezzi partiva da Berlino – oggi forse da Francoforte – ed era abilmente tessuto da Kinkel in Germania e dal sen. Miglio in Italia.
Ci fu concessa una “proroga”, a patto che accettassimo “mortadelle” gradite a Bruxelles. Se ce ne chiamiamo fuori – dopo – dovremo sapercela cavare da soli, con la classe politica che ci ritroveremo. Altrimenti…

Lancio un ultimo sguardo alle spalle, alle luci del centro congressi, alle “riflessioni” di Mariano sulla politica internazionale, ai suoi massi erratici, ai cavalli “problematici”. Se c’è un problema – penso – siete voi, che ritenete d’essere la classe dirigente di questo paese.