26 marzo 2008

Un’altra puntata del Great Game

Fanatico è colui che non può cambiare idea, e non intende cambiare argomento.”
Winston Spencer Churchill

In questi giorni, come tanti, ho scorso gli articoli sul Tibet ed ho guardato i filmati su Youtube: della TV mi fido sempre meno. Ho un certo riserbo a parlare del Tibet, giacché vivo quasi una sorta di “conflitto d’interesse”: sono buddista da circa vent’anni.
A prima vista, sarebbe semplice chiudere la vicenda esortando tutti a sostenere le sacrosante libertà dei tibetani, ma sarebbero parole al vento.
Riflettiamo che, durante la recente visita in Italia di S.S. il XIV Dalai Lama – Tenzin Ghiatzo – l’unico uomo “politico” – per così dire – che ebbe il coraggio di parlare con lui fu Beppe Grillo. Se qualcun altro lo ha ricevuto e non ne sono a conoscenza me ne scuso, ma è acclarato che nessuno dei leader politici e delle figure istituzionali ha osato parlare con questa persona, che rappresenta soltanto le istanze di un governo in esilio.
Dispiace ascoltare voci che, in qualche modo, avallano la conquista cinese oppure accusano i tibetani di chissà quali nequizie per la spedizione “geografica” che i nazisti fecero in Tibet nel 1939. Sono affermazioni di chi conosce poco la storia tibetana, di là delle cronache della David-Neel e di qualche orientalista: in realtà, abbiamo iniziato a conoscere il vero Tibet solo dopo la diaspora, dai profughi che si sono insediati in Europa e negli USA.

Iniziamo con il raccontare che i primi a violare i sacri confini della terra dei Lama furono i britannici, nel 1904, al comando di Francis Younghusband, i quali non ebbero difficoltà – durante la loro avanzata, nei pressi di Phari, a Chumi Shengo[1] – ad accettare la resa di un contingente tibetano armato con fucili ad acciarino. Appena i tibetani s’arresero e furono ben visibili, i britannici scaricarono loro addosso nastri e nastri di mitragliatrice, compiendo un massacro. British honour.
Perché gli inglesi e quella data? Se riflettiamo un attimo sulle date, ci rendiamo conto che era lo stesso anno nel quale l’ammiraglio russo Rozhedestvensky cercava di raggiungere il Giappone con la flotta del Baltico, dopo gli esiti rovinosi della battaglia dello Shantung, nella quale i giapponesi avevano distrutto la flotta russa del Pacifico, di base a Port Arthur. L’anno dopo, ci sarebbe stato l’epilogo a Tsushima. Dunque, un momento di debolezza per la Russia, già minata al suo interno dai latenti moti rivoluzionari.
La Cina, a sua volta, era nel bel mezzo di una buriana, ovvero la rivolta dei Boxer e – in definitiva – era alle prese con l’ultimo atto delle sue millenarie dinastie.
Gli altri protagonisti del Great Game nell’Asia Centrale, dunque, erano alle corde: la Gran Bretagna cercò semplicemente d’approfittarne.
Quando Younghusband entrò in Lhasa, non fu considerato proprio un visitatore amichevole, anche se i tibetani – vista la potenza britannica – fecero di necessità virtù.
La ragione della fretta inglese nel porre una sorta di “prelazione” sul regno tibetano era dovuta all’intraprendenza dell’altro competitore del Great Game d’inizio secolo, ossia la Russia degli zar. Il rivale di Younghusband era il colonnello russo Grombtchevski, che era stato inviato su quelle montagne per lo stesso scopo: garantire “amicizia” e “collaborazione”[2]. Nell’attesa di riuscire a farne un sol boccone.
Gli inglesi lasciarono quasi subito il Tibet, formulando una soluzione furbesca: riconobbero il diritto di protettorato della Cina sul Tibet, una questione controversa, che affonda le sue radici dai tempi di Gengis Khan. Perché lo fecero?
Probabilmente per complicare le cose ai russi, giacché conoscevano bene le condizioni disastrose nelle quali versava il morente Impero Cinese. Come si potrà facilmente capire, la complessità di quelle vicende richiederebbe ben altre analisi, che prendessero in considerazione tutte le velleità delle potenze dell’epoca, ma un articolo rimane pur sempre un articolo, e non un libro.
Sarebbe dunque lungo ricordare la complessità del Great Game nell’Asia Centrale d’inizio secolo: sottolineiamo solo che gli attori erano tre – britannici, russi e cinesi – e che la Prima Guerra Mondiale e la guerra civile in Cina posero fine alle ambizioni sul Tibet[3].
A margine, possiamo notare come la situazione tibetana del 1900 fosse straordinariamente simile a quella dell’odierno Afghanistan: una terra non molto importante per le ricchezze naturali, quanto per la sua posizione geo-strategica. Difatti, sono decenni che ci si scanna nelle pietraie afgane, per un territorio che – di per sé – vale poco o nulla.
L’ultimo “sussulto” del Great Game fu però cinese: nel 1910, le truppe manciù cinesi entrarono in Lhasa ed il XIII Dalai Lama dovette fuggire in India. Durò poco: lo scoppio della guerra civile in Cina condusse alla ritirata, nel 1912. Per rendere più agibile la collocazione degli eventi, ricordiamo che l’ultima (e molto discussa) imperatrice cinese, Ci Xi, morì nel 1908, lasciando come erede un bambino, Pu Yi, la storia del quale è narrata nel film “L’ultimo imperatore” di B. Bertolucci.
Le guerre mondiali del ‘900 portarono – paradossalmente – tranquillità sull’Himalaya: inglesi, cinesi e russi erano occupati a scannarsi, in patria e per il mondo, e nessuno si ricordava del Tibet.

Nessuno, a parte i tedeschi (nazisti), che inviarono una spedizione nel paese nel periodo 1938-39 (come la parallela missione in Amazzonia, alla ricerca di segreti esoterici): in quale Tibet giunsero il dott. Ernst Schäfer, biologo e zoologo (ed ufficiale delle SS), e gli altri componenti della spedizione?
Il XIII Dalai Lama – Thubten Ghiatzo – era morto nel 1933 e, nel 1934, la reggenza era stata assunta dall’abate del monastero di Reting, Reting Rimpoche. L’attuale Dalai Lama (il XIV) – Tenzin Ghiatzo – nacque nel 1935 e fu ufficialmente riconosciuto come sua precedente incarnazione nel 1940 (1939 secondo altre fonti).
I tedeschi giunsero quindi in un momento delicato, come tutte le reggenze, e furono ben accolti dal reggente, che fece loro dono di parecchie, antiche scritture buddiste. La spedizione terminò nel 1939 e, il 4 Agosto del 1939, l’aereo che li riportava in patria atterrò all’aeroporto di Berlino.
Una seconda spedizione partì nel 1939, ma fu interrotta dagli eventi bellici: Heinrich Harrer (alpinista, prima appartenente alle SA e poi alle SS) e Peter Aufschnaiter(agronomo), partiti per scalare il Nanga Parbat[4], furono internati dagli inglesi poiché di nazionalità austro-tedesca, ma riuscirono a fuggire ed a raggiungere Lhasa nel 1946. Rimasero parecchi anni nella capitale, dove Aufschnaiter lavorò come agronomo, cartografo e per la sistemazione di canali ed impianti idroelettrici. Harrer divenne amico dell’allora giovane Dalai Lama, e le sue vicende sono raccontate nel famoso libro Sette anni nel Tibet (poi divenuto un non esaltante film).
Questi sono gli unici e documentati contatti fra la Germania nazista ed il Tibet dei Lama: un po’ pochino, a mio avviso, per far gridare a Fulvio Grimaldi che “il Dalai Lama flirtava con i nazisti, nel segno della comune purezza ariana”. In primis, nessun Dalai Lama ebbe a che fare con la prima spedizione: sulla seconda – che spedizione non era più, perché non esisteva più la Germania nazista quando i due giunsero a Lhasa – riflettiamo che il Dalai Lama era un ragazzino di dieci anni.
La figura del reggente – Reting Rimpoche – fu invece discussa, al punto che la condotta non proprio “monacale” dell’abate lo costrinse a dare le dimissioni nel 1944. Nel 1946, volle riprendersi il potere, ma fu fermato ed imprigionato nelle carceri del Potala, dove morì (qualche fonte afferma avvelenato, ma non ci sono certezze). La vicenda di Reting Rimpoche è però tutta interna al Tibet ed ai suoi equilibri, e nulla ha a che vedere con i nazisti.
Heinrich Harrer e Peter Aufschnaiter rimasero in Tibet fino al 1951, quando il giovane Dalai Lama (dichiarato maggiorenne a sedici anni per l’invasione cinese) fuggì ai confini del paese, verso l’India, per poi tornare a Lhasa e cercare un accordo con i cinesi. I due tedeschi, invece, tornarono in patria.
Cos’era successo, nel frattempo?

La fine del processo rivoluzionario in Cina, aveva riaperto i giochi: russi ed inglesi erano poco interessati al Tibet – i primi affaccendati con la nuova Guerra Fredda, i secondi che cercavano di salvare il salvabile dell’Impero – e la Cina ebbe tutte le vie aperte per conquistare Lhasa.
Sulle ragioni dell’intervento cinese, ci sono varie ipotesi. Di natura geostrategica nei confronti dell’India, oppure per una sorta di “frattura” nelle relazioni con l’URSS (durante la cosiddetta fase della “destalinizzazione”) che s’evidenziò alla fine degli anni ’50: forse, la principale ragione fu la pura e semplice conquista territoriale.
Il Tibet non era certo uno stato florido, ma i cinesi del dopoguerra erano praticamente alla fame: alcuni monaci tibetani, imprigionati, raccontarono che il cibo, per i prigionieri, era quasi “simbolico”. Nemmeno le guardie, però, avevano di che scialare: addirittura, però, gli stessi cinesi Han affamati s’avvicinavano ai “campi di rieducazione” in cerca di cibo. La carestia, in quegli anni, in Cina era quasi la regola e non l’eccezione.
Era quindi una situazione poco comprensibile per noi occidentali, quando il “ricco” è colui che detiene un semplice sacco di cereali.
Le razzie nei monasteri condussero ad accumulare oro e preziosi, ma anche il legname ed altri prodotti naturali furono depredati e spediti in Cina: il solito copione di una guerra di conquista, questa volta operato dal più straccione degli imperialisti che si possa immaginare.

Qual era la situazione interna del Tibet, in quegli anni?
La società tibetana era feudale fino al midollo, con un rilevante potere ecclesiale che aveva voce in capitolo su quasi tutto, anche se le cariche pubbliche erano “sdoppiate”, ovvero in ogni amministrazione c’era un pari grado, civile ed ecclesiastico.
Siccome, spesso, i grandi abati dei monasteri provenivano da importanti famiglie aristocratiche, il potere si “saldava” nelle mani del “primo e secondo stato” quasi in ogni luogo. La grande nobiltà, generalmente, preferiva dimorare a Lhasa, mentre i nobili in sottordine accettavano di fare i governatori (bon-po) nelle aree più lontane: a ben vedere, nulla di diverso dalla struttura russa, cinese o d’alcuni stati dell’Italia pre-risorgimentale.
Le condizioni economiche della popolazione erano naturalmente improntate ad una generale povertà, resa meno evidente rispetto ad altri luoghi dalla specificità dell’ambiente ecologico tibetano: grazie all’altitudine, la ridotta carica batterica nell’aria consentiva di conservare i cereali, in apposite torri, per quasi un secolo, mentre la carne seccata e salata rimaneva intatta per un anno intero.
Per questa ragione, è giusto affermare che nel Tibet (almeno, negli ultimi due secoli) non c’erano state gravi carestie, ma è altrettanto vero che la disparità di ricchezza fra la nobiltà e la popolazione rurale era enorme.
Uno dei cardini dell’ordinamento tibetano era l’ereditarietà dei debiti, sia nei confronti dei privati, sia con lo Stato, e questa era la vera “maledizione” dei contadini tibetani, sempre in ritardo con pagamenti e rimesse. Fu la prima riforma che introdusse, appena riconosciuto come capo di Stato, l’attuale Dalai Lama, nel 1951: cancellò l’ereditarietà dei debiti.
Il clero non viveva nel lusso, ma i monaci in Tibet erano decine, forse centinaia di migliaia, e questo era un aggravio che pesava tutto sulla popolazione rurale, priva di qualsiasi protezione sociale da parte dello Stato.
Sulla supposta protervia degli ecclesiastici, non abbiamo molte fonti attendibili: possiamo soltanto immaginare che ci fossero i più svariati comportamenti, secondo il feudatario – civile od ecclesiale – che governava quella regione. Il Tibet abolì la pena di morte già nel XIX secolo (poiché in contrasto con il dettato buddista), ma mantenne – come qualsiasi società feudale – le pene corporali. Insomma, nei giudizi che possiamo formulare, dobbiamo ricordare che parliamo di una nazione medievale proiettata nel XX secolo.
Ciò che – a mio avviso – molti commentatori non hanno compreso, è che eravamo di fronte ad una società feudale come le nostre del XVII-XVIII secolo, catapultata – grazie all’isolazionismo cercato fino all’inverosimile, ed alle due guerre mondiali che avevano posto in seria difficoltà gli eventuali colonialisti – nella seconda metà del XX secolo.
Nel 1951 – potremmo quasi affermare – un mondo che aveva appena attraversato mezzo secolo terrificante, e che aveva tratto da quelle esperienze (in positivo ed in negativo) una nuova impostazione sociale, si trovò improvvisamente di fronte un paese vasto come mezza Europa, popolato da 6-8 milioni d’abitanti (le cifre sono approssimative, e comprendono l’intero Tibet, Amdo e Kham inclusi) che vivevano secondo tradizioni ancestrali.
L’impatto, fu tremendo.

E’ mia opinione che, se non ci fossero stati gli imperialisti cinesi, quel mondo sarebbe franato ugualmente: falce e martello o Coca-Cola, il Tibet medievale era condannato.
Se ne resero conto, a posteriori, anche parecchi Lama tibetani giunti in Occidente, i quali ammisero d’essersi illusi di poter continuare a vivere nel loro “nido samsarico[5]”, come se il resto del pianeta non li riguardasse.

Nel Tibet esistevano già prima dell’invasione cinese cellule comuniste, simpatizzanti per la Rivoluzione Cinese, ma erano individui che credevano di riuscire a coniugare il grande principio della Compassione buddista con l’uguaglianza di matrice marxista. Dopo pochi anni, s’accorsero che quella sintesi era solo ideale, cancellata dalla brutalità delle truppe cinesi.
Nel decennio 1950-1960 ci fu il tentativo, da parte cinese, di cooptare il giovane Dalai Lama e l’altrettanto giovane Panchen Lama al marxismo leninismo, con viaggi in Cina e nomine – soltanto simboliche – nell’organigramma cinese. Intanto, in Tibet avvenivano tragedie.
Nel 1959 – e qui ci sono opinioni discordi su chi fomentò o diresse i disordini – il Dalai Lama fuggì da Lhasa per raggiungere l’India: recentemente, due scrittori statunitensi hanno raccontato che la fuga fu organizzata dalla CIA, ma non possiamo affermarlo con certezza. Se si crede agli americani, si crede loro sempre, anche quando sbatacchiano fialette di presunto antrace all’ONU, non solo quando fa comodo.
E’ invece accertato che gli USA eseguirono lanci d’armi[6] (solo di fabbricazione inglese, e molto vecchie, per non inimicarsi troppo la Cina) ai resistenti tibetani che, in ogni modo, non impensierirono mai l’esercito cinese.
Addestrarono piccoli gruppi di tibetani alla guerriglia, ma non appoggiarono mai con forza la causa tibetana: perché?

Nel 1951, quando avvenne la prima occupazione, gli USA erano impegnati in Corea e non se la sentivano d’aprire un altro fronte. Soprattutto, temevano un eventuale fronte contro la Cina in un Paese che non era toccato dal mare: la potenza anglo-americana è sempre stata fedele a Nettuno.
L’appoggio aereo fu probabilmente scartato per le esperienze della Seconda Guerra Mondiale, quando in Cina combattevano le famose “Tigri Volanti” di Charlie Chennault: il problema era rifornirli partendo dall’India.
Gli americani scoprirono quanto fosse difficile sorvolare l’Himalaya, perché le cime svettano oltre i 25.000 piedi d’altitudine, quote molto elevate per gli aerei da trasporto dell’epoca. Difatti, parecchi equipaggi si dovettero lanciare per problemi meccanici e presero terra anche in Tibet.
L’ultima ragione che non portò Washington ad un evidente appoggio alla causa tibetana fu la stessa che condusse a sospendere i rifornimenti alla guerriglia: la politica sorretta da George Bush (padre), quando era ambasciatore a Pechino, era quella di creare legami in chiave antisovietica. In quegli anni, Cina ed URSS giunsero addirittura a confrontarsi militarmente sui fiumi Amur ed Ussuri – per questioni di confini – e tutto ciò mandava in brodo di giuggiole Washington. E Taiwan? Quando mai gli USA accettarono che l’isola si dichiarasse completamente indipendente dalla grande Cina? Una indipendenza de facto poteva anche passare, mentre quella de iure avrebbe condotto a fratture con Pechino: il Tibet, a ben vedere, valeva ancora di meno.
Di conseguenza, gli USA hanno usato più che sorretto la causa tibetana, ed anche gli ultimi avvenimenti sembrano confermarlo.

Liberi da ogni ingerenza esterna (incubo della politica cinese, dai tempi della parziale occupazione europea d’inizio ‘900) i cinesi si dedicarono alla “modernizzazione” del Tibet.
I cinesi non compresero – abituati ai grandi numeri – che la società tibetana era un microcosmo assai fragile: la richiesta di 2.000 tonnellate d’orzo per sfamare le truppe d’occupazione e gli animali al loro seguito – fatta da un generale cinese al governo tibetano nei primi anni – provocò quasi ilarità: non c’era, nell’intero paese, un simile quantitativo di granaglie!
Abituati al frumento, i cinesi non gradivano l’orzo: collettivizzarono le terre ed imposero la coltivazione del grano, al posto del tradizionale orzo.
Il frumento, in Tibet, cresce soltanto nella bassa valle del Brahamaputra – nei pressi di Shigatse – mentre nel resto del paese l’altitudine non consente che l’orzo, le patate e poco altro.
I cinesi “liberatori”, grazie a questa bella invenzione, inflissero ai tibetani la più grave carestia che gli abitanti ricordassero a memoria d’uomo. Obbligarono anche ad adottare, in tutto il Paese, l’ora di Pechino: chi difende l’operato cinese contro i “Lama nazisti”, queste cose dovrebbe raccontarle.
Sull’altro piatto della bilancia, i cinesi hanno modernizzato il Paese costruendo strade, ferrovie, aeroporti, ecc, ma hanno trasferito decine di milioni di cinesi Han in terre, per loro, poco ospitali: i cinesi Han sono una popolazione di pianura, abituata ai grandi fiumi e che mal s’adatta a vivere a 3.500 metri d’altitudine.

La situazione odierna vede alcune decine di milioni di cinesi Han (intorno ai 40 milioni) convivere con circa 6,5 milioni di tibetani e con una minoranza musulmana (da secoli presente in Tibet), chiamati Hui.
Devo confessare che i filmati della recente rivolta mi hanno lasciato alquanto perplesso, per la violenza con la quale sono stati portati avanti – indubbiamente – dalla minoranza tibetana, poco avvezza a questi scenari di guerriglia urbana. Sembrava quasi d’osservare Gaza o Beirut.
Riflettiamo che lo stesso Dalai Lama – più volte – ha affermato che l’indipendenza del Tibet dalla Cina non è più in agenda: quello che chiede è il rispetto delle tradizioni e del credo buddista. Il quale – nonostante si siano fatti vivi i soliti “avvoltoi della storia”, che non esitano ad imputare sommosse o guerre per altre ragioni alla religione – non ha mai fomentato guerre nel mondo. Di certo, cristiani, musulmani ed ebrei hanno ben altro su cui meditare.
Inutile qui ricordare che la minoranza Tamil dello Shri Lanka è sì buddista, ma le ragioni della contrapposizione sono politiche, e non c’entrano niente con il buddismo. Come se la ragione delle guerre in Medio Oriente fossero l’Islam o l’Ebraismo! Cerchiamo dalle parti del petrolio, che è meglio.
Quei manifestanti di Lhasa mi hanno colpito perché erano straordinariamente violenti, organizzati, efficaci nei loro attacchi di guerriglia urbana. Qualcosa che stride con il carattere dei tibetani.
Ho il sospetto che – ancora una volta – non fosse in agenda la libertà del Tibet, ma qualcos’altro. Forse l’enorme debito che gli USA stanno accumulando nei confronti della Cina? O i dollari che i cinesi cercano subito di rivendere, perché è come essere pagati con monete di ghiaccio, che si sciolgono con il trascorrere del tempo? Una rivolta con un copione “globalizzato”, che sembra avere il giusto marchio per essere sbattuto sui principali media planetari. Dopo i tanti fallimenti delle due presidenze Bush, un po’ di Tibet in rivolta può risollevare le quotazioni di Washington. La speranza, nello Studio Ovale, è l’ultima a morire.

La rivolta di Lhasa non condurrà a nulla di buono per i tibetani, tanto che lo stesso Dalai Lama ha subito lanciato un appello per la fine delle violenze da entrambe le parti.
Chi, oggi, può pensare d’infastidire la Cina con delle manifestazioni di piazza? I cinesi reagiranno come sempre, ovvero con la forza bruta, e non hanno rivali.
Solo qualche sprovveduto nostrano va in piazza a gridare libertà per il Tibet: facile farlo a Roma, un po’ più arduo farlo a Lhasa, dove ti prendi le fucilate cinesi.
Qualcuno, ancora più fesso, non s’è accorto di compiere una discriminazione senza remore: difendiamo strenuamente la libertà dei palestinesi e dei curdi, e che i tibetani vadano a farsi fottere. Di questo passo, potremo dissertare se i curdi sono “buoni” quando combattono i turchi e “cattivi” quando appoggiano gli USA in Iraq. Oppure giocarci ai dadi chi dovrà ammazzare l’altro in Kosovo, serbi od albanesi: è un vicolo cieco, che si chiama nazionalismo.
Il vero internazionalismo passa sopra a razze e religioni, nel nome della comune appartenenza alla razza umana. Non declina le rime delle alleanze fra le borghesie finanziarie, perché sono quelle stesse borghesie – arabe, europee, russe, ecc – che recitano i versi della guerra per raggiungere i loro scopi di dominio sul proletariato: cinese e tibetano, inglese ed irlandese, armeno e turco, basco e spagnolo.
Chi si sente profondamente internazionalista, inorridisce nel vedere le sofferenze di questo o di quel popolo “tirate per la giacchetta” per miseri scopi di bottega: nella guerra del 1982, con chi ci si doveva schierare, con gli imperialisti britannici o con i fascisti argentini?
Non provo e non trovo contraddizioni fra il pensiero marxista e molti assiomi delle principali religioni: scopro invece terribili compromessi e macchinazioni – fra sedicenti idealisti, dottrinari e dottrinali – per cercare d’essere domani il nuovo padrone, al posto di quello che oggi ci schiaccia. Ora, nessun cane abbaia tanto perché gli sia cambiata la catena.
E, fra un padrone americano ed uno cinese, forse sceglierei ancora quello made in USA: se non altro, perché è senz’altro più fesso, ed avrei qualche speranza di batterlo.


[1] Chumi Shengo, in tibetano, significa sorgenti termali. Patrick French – Oltre le porte della città proibita – Sperling & Kupfer - 2000.
[2] Patrick French, op. cit.
[3] Ho cercato di riassumere qualche aspetto di quegli importantissimi avvenimenti nel mio libro “Europa Svegliati” – Malatempora – 2003.
[4] Heinrich Harrer era un valente alpinista, ed aveva fatto parte della cordata che aveva scalato per la prima volta la parete Nord dell’Eiger.
[5] Il Samsara, nella filosofia buddista, rappresenta i sei regni della rinascita (Inferi, Spiriti, Animali, Uomini, Semidei, Dei) che gli esseri percorrono infinite volte, prima di giungere alla condizione di Liberato (Arhat) od Illuminato (Buddha).
[6] Tenzin Ghiatzo – La libertà nell’esilio – Sperling & Kupfer - 1998

13 marzo 2008

La Nazionale avversaria








Di questi tempi, fioriscono sul Web le più disparate proposte sul come comportarsi alle prossime elezioni: si va dall’astensionismo puro, al non-ritiro della scheda elettorale con richiesta di segnalazione nel verbale, al voto per formazioni che non avranno nessun peso.
Tutto ciò (avrò certamente dimenticato altre proposte) è perfettamente comprensibile, poiché il livello di sopportazione degli italiani è oramai traboccato, ma ha poco senso se non riusciamo a comprendere profondamente il livello di commistione interna dell’attuale classe politica.
Si fa presto a dire “sono tutti d’accordo” perché, se non riuscirete a dimostrarlo, v’accuseranno sempre di qualunquismo.
Partendo da una vicenda sindacal-giudiziaria, che ha coinvolto circa 70.000 italiani, dimostrerò – senza ombra di dubbio – che l’attuale classe politica è tutta collusa, dall’estrema destra all’estrema sinistra. Vedremo, in seguito, contro chi e perché. E li sfido a dimostrare il contrario.

La storia parte intorno al 1970, con la legge sull’ordinamento regionale (che prevedeva l’abolizione delle Province): come eludere quell’impegno, che avrebbe significato perdere qualche migliaio di posti per i politici “trombati”, i figli di mammasantissima, le mogli in cerca di carriera?
Che il Bel Paese se ne freghi del Diritto – quando cozza con gli interessi della Casta – lo sappiamo: la vicenda di Europa7 insegna, ma anche questa storia non ha niente da invidiare.
Cercherò d’essere più conciso possibile – a scapito d’aspetti secondari – ma, quando s’affrontano i “fatti”, bisogna cercare d’essere precisi.

Per inventare qualche nuovo “ambito” di competenza per le Province, non bastavano certo la caccia e la pesca: ci voleva qualcosa di “sostanzioso”.
S’inventarono allora che per alcuni tipi di scuola – tutte le altre, eccettuati i Licei Classici, gli Istituti Tecnici Industriali, Istituti Professionali e Magistrali – il personale non docente (ed una piccola parte di docenti) sarebbe stato alle dipendenze delle Amministrazioni Provinciali. Motivazione? Nessuna, perché non si capisce per quale motivo un Liceo Classico debba avere personale dello Stato ed uno Scientifico della Provincia: una pura e semplice ripartizione per mantenere in vita le Province. Un po’ “d’ossigeno”, fin quando non fossero state inventate nuove competenze. Per scaldare le sedie di lor signori con i nostri soldi.
Mi rendo conto che pochi italiani conosceranno la vicenda ma, fino al 31 Dicembre 1999, le cose stavano così.

Nel 1997, viene emanato il cosiddetto “decreto Bassanini”, che individuava un futuro “aziendale” anche per settori come la scuola e la sanità: siamo nel momento aureo del governo Prodi, nel quale tutti corrono – garruli e felici – verso un futuro di “competitività” e “globalizzazione”.
Con il nuovo millennio – complice la “riforma Bassanini” – tale personale deve passare sotto lo Stato, perché non si sono mai viste “aziende” che non abbiano potestà sui loro dipendenti. Riflettiamo che, una simile “pensata” liberista, è stata partorita da un uomo che ha trascorso la vita nelle federazioni con l’effige di Stalin.
La legge, che provvede a questo trasferimento, è la n. 124 del 1999, all’art. 8, comma 2:

2. Il personale di ruolo…omissis…dipendente dagli enti locali, in servizio nelle istituzioni scolastiche statali alla data di entrata in vigore della presente legge, è trasferito nei ruoli del personale ATA statale ed è inquadrato nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali corrispondenti per lo svolgimento dei compiti propri dei predetti profili…omissis…A detto personale vengono riconosciuti ai fini giuridici ed economici l'anzianità maturata presso l'ente locale di provenienza nonché il mantenimento della sede in fase di prima applicazione in presenza della relativa disponibilità del posto.

Gli “omissis” non nascondono niente, soltanto un po’ di “scrematura” per rendere più agevole la lettura: ciascuno di voi potrà leggere facilmente la legge 124/99 cercandola su Google.

Per una volta, sembra che sia stata scritta una legge chiara: se hai 10 anni d’anzianità maturati presso un Comune od una Provincia, avrai lo stesso stipendio di un pari grado nello Stato.
Il problema è che gli stipendi dello Stato sono leggermente più alti, e bisogna provvedere alla differenza: chi scrisse la legge lo sapeva, ma preferì fare finta di niente.
Nel frattempo, Prodi è caduto, D’Alema s’è dedicato al bombardamento di Belgrado ed è divenuto impresentabile per gli elettori di sinistra. Si tira allora fuori dall’armadio il Dottor Sottile – alias Giuliano Amato – il quale è così “sottile” che riuscirebbe, per turlupinarvi, a passare sotto gli zerbini.

Lo ricordano milioni di piccoli risparmiatori, quando – siccome l’inflazione era al 15%, lo Stato aveva una “fame” di denaro immensa, e di conseguenza i Buoni Postali avevano alti rendimenti – il Dottor Sottile pensò bene di “rivedere” – a posteriori – quei rendimenti. Ovviamente, quando la paura per il bilancio dello Stato era passata.
Così, milioni di nonnine che avevano risparmiato 100.000 lirette per il nipotino, si videro gabbare da una legge che interveniva sui rendimenti di un contratto di natura privata, fra il risparmiatore e le Poste, laddove lo Stato non avrebbe avuto nessun diritto di metterci il becco. Ma, si sa, in Italia il Diritto è un optional.

In questo caso, la situazione era più spinosa: riflettiamo che 70.000 dipendenti fanno “massa elettorale”, e sono dell’ordine di grandezza di un’azienda come la FIAT. In questi frangenti, torna utile passare la palla all’ala, ossia ai sempre fedeli sindacati confederali & affini.
Siamo nel Luglio del 2000 – governa ancora il centro sinistra – e, mentre il solleone brucia strade e spiagge, si riuniscono i soliti “carbonari”: funzionari ministeriali, ARAN e Sindacati. Ripeteranno l’identico copione per l’accordo del 23 Luglio 2007, sulle pensioni e sul welfare.
Nasce il primo pateracchio: l’anzianità non viene più riconosciuta, ma “temporizzata”. La lingua italiana sa arrampicarsi su trapezi impossibili.

Ai suddetti dipendenti viene attribuita la posizione stipendiale, tra quelle indicate nell’allegata tabella B, d’importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31-12-1999 costituito da stipendio e retribuzione individuale di anzianità nonché, per coloro che ne sono provvisti, dall’indennità specifica prevista dall’art. 4, comma 3 del CCNL 16-7-1996 enti locali come modificato dall’art. 28 del CCNL 1-4-1999 enti locali, dall’indennità prevista dall’art.37, comma 4, del CCNL 6-7-1995 e dall’indennità prevista dall’art.37, comma 1, lettera d) del medesimo CCNL.

Ci avete capito qualcosa? Dubito, ma non fa niente.
Nella Tabella B, c’era scritto praticamente che quella gente sarebbe sì passata sotto lo Stato, ma avrebbe continuato a percepire lo stipendi di prima! A questo servono i sindacati! Ovviamente, quando governa il centro sinistra.

Arriva Berlusconi e la situazione non cambia: anzi, partono migliaia di ricorsi alla Magistratura del Lavoro, che per la quasi totalità danno ragione ai lavoratori. I Magistrati di primo grado, evidentemente, fra il pateracchio sindacale di Luglio, ed il testo della legge 124/99, ritengono più chiaro il secondo.
Così la pensa anche la Corte di Cassazione, che inizia ad emanare le prime sentenze definitive, che danno tutte ragione ai lavoratori.
Da notare che moltissime cause vengono promosse dalla stessa CGIL – che ha sostenuto l’accordo capestro! – che, quindi, ricorre contro se stessa! Ma, ricordiamo, sta governando il centro destra ed ogni sgambetto è lecito.

La situazione allarma Berlusconi e Tremonti, i quali s’affrettano – nella legge finanziaria per il 2006 – ad inserire un comma nel quale forniscono “l’interpretazione autentica” della legge del 1999! Non potrebbero abolirla – altrimenti quella gente tornerebbe sotto Province e Comuni! – e allora “s’interpreta”. Sei anni dopo.
Il comma della Finanziaria è una vera “perla” del Diritto: in pratica, recepisce in pieno la “temporizzazione” firmata dalla CGIL! Aggiunge però una nota “partenopea” – giacché, nel frattempo, alcune sentenze sono diventate definitive ed a vantaggio dei lavoratori – ossia “E' fatta salva l'esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge”. Traduzione: “Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammoce ‘o passato, salutamm’e paisà”. Chi ce l’ha fatta, buon per lui: gli altri, corrano.

Qualcuno, s’accorge che questa è una “porcata” al quadrato e firma un ordine del giorno al Senato. Sono i senatori: Acciarini (DS), Soliani (DS), Cortina (Verdi), Manieri (SDI), Betta (Margherita), Franco V. (Ulivo), Modica (DS), Tessitore (Ulivo), Zavoli (DS), D’Andrea (Margherita), Monticane (Margherita), Togni (RC). (Ordine del giorno atto Senato 3613-b). Affermano:

Il Senato, considerato che: con un emendamento per la finanziaria 2006 approvato dalla Camera il Governo taglia le retribuzioni dei lavoratori Ata e Itp della scuola provenienti dagli EE.LL., inventandosi una interpretazione “autentica” che stravolge l’art’8 della legge 124/99 e mira a disconoscere i diritti dei lavoratori stessi e a cancellare tutti i provvedimenti pendenti;
La Corte di Cassazione ha ripetutamente riconosciuto il diritto ad una giusta retribuzione per il servizio prestato e che in base a sentenze favorevoli dello stesso organo della magistratura centinaia di lavoratori hanno ottenuto uno stipendio corrispondente all’attività lavorativa prestata;
altre decine di migliaia di lavoratori nella stessa situazione giuridica, ma il cui procedimento di fronte alla Corte di Cassazione è ancora pendente, vedrebbero così negata ogni loro prospettiva con una perdita salariale annua stimabile in alcune migliaia di euro.
Impegna il Governo:
a ripristinare il diritto al riconoscimento del servizio stabilito da ripetute sentenze della Cassazione ed adottare immediatamente i provvedimenti necessari per evitare situazioni di disparità tra lavoratori, vessatorie e profondamente ingiuste.

La cosa incredibile è che l’Ordine del Giorno viene approvato all’unanimità dal Senato, anche da quelli che avevano appena votato a favore dell’emendamento-capestro!
La coscienza, in qualche modo, bisogna pur lavarsela: d’altro canto, lo stesso estensore della nuova legge elettorale non avrà remore a definirla una “porcata”. Oramai, non fanno altro.
Fra l’altro, le migliaia di procedimenti persi dal Ministero dell’Istruzione, non sono a “costo zero”: l’ultima sentenza che è stata emanata (2008), prevede il pagamento di 2.000 euro di spese processuali da parte dello Stato! Insomma, si spende per le sole spese processuali probabilmente la metà del contenzioso! Il PIL, però, aumenta.

Nell’antro della CGIL, mentre Berlusconi impera, si studiano le contromisure: bisogna a tutti i costi contribuire alla causa che ha regalato a Cofferati la poltrona di sindaco di Bologna (e, in futuro, altre poltrone per noi). Si prova con la Corte Costituzionale: non sarà mica ritenuto costituzionale un comma che discrimina, fra chi ha completato l’iter giudiziario e chi invece è ancora in corsa e, soprattutto, che introduce un principio di retroattività del Diritto!
Dimenticano d’esser stati loro stessi, nel 2000, a dare “inizio alle danze” contro i lavoratori.
E vai con i Grandi Costituzionalisti!
C’è subito un intoppo. Anzi, più d’uno.
Il primo è gravissimo: nell’Aprile del 2006 è tornato in sella Romano Prodi. Adesso, che si fa? Si rischia di metterlo nello “stoppino” al “governo amico”?
C’è però “in corsa” una riforma della giustizia che abolisce la precedente riforma Castelli – non molto gradita alla magistratura, soprattutto ai piani alti – e forse qualcosa si può fare.

Così, la memoria dell’Avvocatura dello Stato che deve sostenere il comma voluto da Berlusconi (e scritto a suo tempo dalla CGIL!) porta, in calce, la firma di Romano Prodi! Uniti nella lotta.
E i signori: Acciarini, Soliani, Cortiana, Manieri, Betta, Franco V., Modica, Tessitore, Zavoli, D’Andrea, Monticone, Togni, che s’erano così generosamente e coraggiosamente impegnati? Dov’erano? E il Senato che aveva approvato all’unanimità? Ah, saperlo…
La Corte Costituzionale – non sappiamo se per ringraziare l’allora Guardasigilli Mastella – s’inventa una mostruosità tale per cui tutto può essere retroattivo, e le normative europee in materia di lavoro non vanno interpretate così come sono. Eh no, siamo nel Bel Paese. Soltanto quando comoda: Europa7 insegna.
La Corte di Cassazione si deve adeguare: pur tuttavia, qualche coraggioso magistrato continua ancora oggi a considerare un mostro il pronunciamento della Corte Costituzionale, ed a dare ragione ai lavoratori! Temo per loro: il collaudato metodo “Forleo-De Magistris” incombe.
I COBAS giungono a definire la vicenda una storia di “mobbing di Stato”, e non sono lontani dalla realtà.

Dopo le “adunate oceaniche” – oggi – la CGIL chiede umilmente al ministro Fioroni almeno la “rateizzazione” del “maltolto”, ossia dei soldi che i lavoratori avevano ricevuto dopo le sentenze di primo e/o secondo grado! Il grande sindacato italiano – quello che ci ha regalato un anno in più di lavoro rispetto alla riforma Maroni, ed ha sancito la liceità di tutti i contratti a termine che taglieggiano i giovani – si prostra di fronte a Sua Eminenza il Fiorone, il peggior Ministro dell’Istruzione che abbia occupato la poltrona di viale Trastevere dai tempi della Jervolino. Avessero, almeno, un po’ di dignità: quella dignità che i lavoratori hanno, e che i sindacalisti venduti calpestano.

Dopo questa illuminante storiella, chi vorreste votare? Storac-Berluscon-Veltron-Casin-Bertinotti?
Questa vicenda non viene da Marte: i nostri grandi “costituzionalisti” sono riusciti a concepire un tale mostro giuridico, grazie al quale ci saranno tre diversi tipi di bidelli con medesima anzianità. Uno, proviene dagli Enti Locali ed è riuscito a rientrare nell’emendamento “partenopeo” – sentenza passata in giudicato, scurdammoce o’ passat’e – mentre un secondo è da sempre dipendente statale e non rientra nel problema. Un terzo, che spazza 1/3 del corridoio come gli altri, prende meno soldi perché è intervenuta dapprima la CGIL nel 2000, che poi ha passato la palla a Berlusconi nel 2005: infine, l’assist finale di Prodi ed il goal.
Questa è l’interpretazione “autentica” dei nostri costituzionalisti, i quali non riescono nemmeno più a considerare l’elementare principio d’eguaglianza di fronte alla legge.

Questa vicenda dimostra inequivocabilmente che c’è stata commistione e, anzi, addirittura collaborazione contro un diritto elementare dei lavoratori. Mica un’iperbole del diritto: semplicemente, riconoscere che due persone che svolgono la stessa mansione, nella stessa struttura, con identici compiti ed uguale anzianità percepiscono la stessa retribuzione.
Ma, di là di questa vicenda, avete notato qualche contrapposizione per argomenti che stanno a cuore agli italiani – la vicenda dei truffati Parmalat, dei bond argentini, la benzina che non fa che salire e nessuno fa nulla, la scuola che va a catafascio, la malasanità, ecc – oppure le contrapposizioni si limitano alla gestione dei ruoli? Tu giocavi con quello! No, non è vero: gli ho passato una sola volta la palla ma per sbaglio! No, vi ho visti mangiare il gelato insieme! Questo è il livello.

Vi prego, il giorno delle elezioni risparmiatevi almeno il sangue gramo, perché la Nazionale italiana dei Politici è coesa e gioca con una strategia ben oliata e funzionale. Giocano con un modulo vecchio – il cosiddetto WM – perché, se scatta un fuorigioco, emanano immediatamente un Decreto Legge che lo annulla. Anche retroattivamente.
Dalle ultime anticipazioni, che siamo riusciti ad avere dai vari ritiri, pare che la formazione sarà questa:

Portiere: Guglielmo Epifani. E’ collaudato difensore per qualsiasi situazione rischiosa, anche quando si lotta per anni contro il precariato e poi, per ordini superiori di poltrone & affini, bisogna rimangiarsi tutto. Affidabile al 100%, para i rigori e, se per caso una palla va in rete, s’appella subito alla concertazione, all’unità sindacale e fa annullare tutto.

Terzino destro: Raffaele Bonanni. Difensore arcigno, di vecchio stampo, capace di “mordere i garretti” anche all’attaccante più scaltro. Le voci che circolano sul suo conto, ossia che avesse a che fare con il malaffare del calcio-scommesse, sono ovviamente infondate. E’ soprannominato “Don Raffaé”.

Terzino sinistro: Luigi Angeletti. Uomo più di spinta che di copertura. Si lancia spesso in avanti sulla fascia, corre e porta acqua a tutti i mulini, senza distinzione, dai no-global a Confindustria. Lascia un po’ a desiderare sulla continuità: pare, a volte, che giunto a metà campo abbia già esaurito il fiato. Purtroppo, non sono più i tempi del “cinese”.

Mediano destro: Piero Fassino. Noto per la sua interpretazione, insieme a Luciano Ligabue, della versione “live” del noto brano “Una vita da mediano”. Difficile dire oggi fin quando riuscirà a tessere abilmente le trame di centrocampo: in particolare, senza perdere mezza squadra ogni volta che avanza.

Centromediano: Pierferdinando Casini. Giocatore eclettico, dalle mille risorse. Capace di difendere i valori cattolici della famiglia, anche se più d’una, come la sua. Per il futuro spera di continuare a rivestire il ruolo di cerniera di centrocampo, nel quale eccelle, soprattutto dopo che Clemente Mastella – suo outsider – ha appeso le scarpette al chiodo.

Mediano sinistro: Roberto Maroni. Dopo il grave infortunio che ha chiuso la carriera di Umberto Bossi, il ruolo d’inventare qualcosa di nuovo al centrocampo gli è giunto per censo. Abile nello scompaginare le difese avversarie con improbabili secessioni: in fin dei conti, è stato preferito al coriaceo Calderoli per la maggior affidabilità, ossia la disponibilità a votare qualsiasi “porcata” gli chiedano. Senza, però, urlarlo dopo ai quattro venti.

Ala destra: Giulio Tremonti. E’ la grande speranza del calcio italiano, inutile nasconderlo. Capace di tuonare contro Bruxelles e la Cina, d’imbonire i grandi banchieri e di scrivere libri da no-global. Un eclettismo indomabile: performance da grande campione, inutile nasconderlo. Pecca, purtroppo, sulla continuità, laddove – in passato – fu colto da “saudade” e dovette essere sostituito a metà gara. Un’incognita da non sottovalutare.

Mezzala destra: Letta, Gianni ed Enrico. Purtroppo, le inique regole del calcio non consentono di farli giocare insieme, poiché i due non sono in antagonismo, bensì sono la naturale continuità l’uno dell’altro. Come Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane. Nell’attesa che si riescano finalmente a riformare gli ingiusti regolamenti UEFA – e l’Italia possa finalmente dimostrare d’aver buon diritto, a differenza d’altri, a giocare in 12 – sarà praticamente una staffetta. Questo è uno dei ruoli che non riserverà sorprese, per continuità ed affidabilità.

Centravanti: Silvio Berlusconi. Il vecchio bomber è una delle certezze di questa Nazionale. Sicuro ed esperto, il vecchio “puntero” può preoccupare soltanto per le sue condizioni fisiche, che durante alcuni passati match non sono sembrate ottimali. Ha promesso che, all’esordio in campionato, sfoggerà una capigliatura alla George Best.

Mezzala sinistra: Walter Veltroni. La scelta del “leggero” Veltroni per sostenere le punte è stata obbligata, giacché il grande regista della Nazionale – Romano Prodi – ha deciso di chiudere con il calcio. Abile nel dribblare anche le evidenze più acclarate, ha come difetto quello di voler sempre “correre da solo”, una caratteristica che mal si sposa con la necessità del gioco di squadra. Speriamo che la lunga esperienza maturata nella Stella Rossa, nella Dinamo e nel Partizan gli sia d’aiuto, anche se oggi pare guardare con più attenzione ai Chicago Rangers.

Ala sinistra: Fini/D’Alema. Questo ruolo è il vero cruccio del coach – Giulio Andreotti – poiché i due sono molto simili, ma dotati di forte carattere e decisi a non lasciarsi soffiare il posto. Entrambi, affermano d’avere idee chiarissime, addirittura “da quando sono N.A.T.O.”. Il loro affiatamento con il bomber Berlusconi è fuor di discussione – anni di gioco di squadra lo confermano – ma le troppo spiccate doti caratteriali e l’ambizione sfrenata potrebbero giocare loro brutti scherzi. Si prospetta l’eterna staffetta “Rivera-Mazzola”.

Veniamo alle riserve. Svanita la convocazione di Rutelli – il centrocampista ha dichiarato di “voler concludere la carriera nella Roma” – i ruoli di centrocampo sono forse i più difficili da coprire. Ma partiamo con ordine:

Portiere: Renata Polverini è il naturale successore di Epifani. Partita come ala destra, si è scoperta estremo difensore. Eclettismo del calcio.

Difesa: a parte alcuni vecchi “senatori” della difesa – Bindi, Turco, Bertinotti, Matteoli – si fanno i nomi di Cicchitto e di Alemanno. Il primo, purtroppo, ebbe problemi con il “calcio scommesse” e la Procura Milanese, ed anche la sua lunga militanza nel Castiglion Fibocchi suscita qualche perplessità. Sul secondo s’appuntano più speranze, anche se un po’ “leggero”, privo del necessario “physique du rôle”.

Centrocampo: è il reparto dove più scarseggiano gli eventuali sostituti. Abbandonata l’ipotesi Calderoli – troppe “porcate” e cartellini rossi – l’unica alternativa sembra essere Rocco Bottiglione, che però prende ordini solo dal cappellano della squadra. Come cursore sembra che stia salendo la quotazione di Mussi ma, a parte correre, sembra che non sappia fare altro.

Attacco: nel ruolo di “bomber” si fa largo il nome di Fiamma Nirenstein, che ha avuto una lunga militanza nel Maccabi, ma proprio questa sua abitudine di voler sempre e solo attaccare lascia qualche perplessità. Nel gioco europeo, un attaccante deve a volte saper rientrare: anche alcune “frizioni” interne, con un massaggiatore – un tal Ciarrapico – destano qualche preoccupazione. Michela Vittoria Brambilla ha invece rifiutato il ruolo, vista l’impossibilità di giocare con le calze autoreggenti. In alternativa, è sempre pronto Diliberto, abile nella corsa e nel palleggio ma poco abituato ad inquadrare la porta: non segna dal 1972.


Come potrete notare, la squadra è ben disposta in campo: manca, purtroppo, la squadra avversaria.
Siamo noi i destinatari di tanto clamore, sotto la duplice veste di pubblico plaudente e destinatario di tutte le loro nequizie. Sono disposti a fare i circenses a vita, basta che il pane sia razionato per noi ed abbondante per loro.
Tutto l’apparato gioca sempre e soltanto contro i nostri interessi, fin quando non saremo in grado di mettere in campo anche noi una squadra: qualcosa di reale, non proclami e fumo negli occhi.
C’è, allora, da scompigliarsi i capelli per il 13 Aprile?
Io non so ancora cosa farò: dipenderà anche dal tempo e dalle possibili alternative, mare o qualche gita. Se troverò il tempo e la voglia d’andare al seggio, ricorderò un famoso italiano che – decenni or sono – fu grande interprete dei tanti Pasquini che da sempre sbeffeggiano il potere. Credo che lo voterò: Vota Antonio!

07 marzo 2008

Ma…lo sono o lo fanno?

Ieri sera ho guardato Anno Zero: erano mesi che non lo facevo più, e che risparmiavo d’incazzarmi. Peggio per me.
Quello che mi ha fatto trasalire è stata la nonchalance con la quale hanno sorvolato – tutti – d’approfondire l’immonda questione del petrolio lucano. Non so se ne ha parlato Travaglio in apertura, perché quando ho acceso il televisore il programma era già iniziato.
Si viene così a sapere che i lucani ricevono soltanto il 7% dei proventi petroliferi: qui, San Toro afferma che “nessuno paga il petrolio così poco”. Il che, è vero solo in parte. Qualcuno potrebbe pensare che il 7% sia poco…magari il 10% no…insomma: la maggioranza degli italiani conosce poco la ripartizione dei proventi petroliferi e, un programma serio, su un aspetto così importante non doveva sorvolare.
Soprattutto, perché c’è un precedente che sarebbe stato giusto raccontare. Lo farò io.

Siamo nell’Iran del primo dopoguerra: il giovane Scià Reza Phalavi è più dedito alla joie de vivre ed alle belle donne che alle cure dello Stato, d’altro canto può ben fidarsi del suo Primo Ministro, Mohammad Mossadeq.
Mossadeq fa parte dell’intellighenzia iraniana: è un avvocato che ha studiato in Svizzera, un liberale, ma anche un nazionalista nel senso migliore del termine, ossia una persona attenta ai bisogni della nazione.
Il suo problema è la compagnia d’estrazione petrolifera nazionale che – di veramente nazionale – ha ben poco, visto che si chiama Anglo-Iranian Oil Company. Lo strano connubio si spiega subito citando la ripartizione dei proventi petroliferi: il 6% alla parte “Iranian” ed il rimanente 94% alla “Anglo”.

Mossadeq chiede più volte agli inglesi di rivedere gli accordi – vorrebbe che le paghe degli operai iraniani fossero aumentate, e che da quel 94% uscissero fondi per sanità ed istruzione – ma gli inglesi rispondono picche.
Come si può notare, non è un pericoloso castrista a chiederlo, ma un signore composto, profondamente religioso e misurato nei gesti e nelle parole.
Le persone poco appariscenti sono a volte le più decise: all’ennesimo rifiuto inglese, nell’Ottobre del 1951 Mossadeq nazionalizza la compagnia petrolifera e manda i britannici a quel paese.
Gli inglesi, ovviamente, non la prendono molto bene, ma possono fare ben poco: la potenza britannica è in declino e, pochi anni dopo, si sarebbe ritirata definitivamente dai mari “ad est di Suez”. Finito? Ma per carità…

Quando non ci arriva Londra, ecco che giungono in aiuto i “cugini” americani, con i quali – decenni dopo – pattuglieranno le strade della Mesopotamia per rapinare il petrolio iracheno.
Eisenhower, dapprima, sottovaluta la situazione e ritiene che basti rivolgersi ad alcuni ufficiali della Guardia Imperiale (addestrati negli USA) per “sistemare” la faccenda. Ha sottovalutato Mossadeq e, soprattutto, la sua “sintonia” con le gerarchie dell’islam sciita.
L’ayatollah Kashani – suprema guida degli sciiti iraniani all’epoca – riesce a conoscere anzitempo il piano del colpo di stato, ed avverte Mossadeq: il golpe fallisce.
In quel periodo, lo schivo Mossadeq viene ricevuto al Cairo in pompa magna, come gran difensore dei diritti dei poveracci che siedono sui giacimenti petroliferi. Ne trovassero uno in Lucania.
Per Washington, la misura è colma e non si può tollerare un simile affronto: nel 1953, viene inviato in Iran il generale Norman Schwarzkopf – che aveva curato l’addestramento della Guardia Imperiale Iraniana – il quale giunge a Teheran – come ricorda Igor Man in un’intervista – “con parecchi sacchi di dollari”.
Nell’Agosto del 1953, per Mossadeq non c’è scampo: grazie ad un provvidenziale avviso, ricevuto ancora una volta dall’ayatollah Kashani, riesce a fuggire nella sua città natia ed a ritirarsi a vita privata. Gli “imperiali” non osano “recapitargli” a domicilio quel che era previsto a Teheran, ossia una “visita” al suo ufficio con raffiche di mitragliatrice e bombe a mano per toglierlo di mezzo.

Si torna così all’antico, al “94 a me e 6 a te, e stai ben zitto”: la soluzione, in definitiva, sarà una delle ragioni della caduta dello Scià. Con scarsi introiti, ed una casta militare sempre più corrotta e famelica da accontentare, Khomeini ne avrà ragione nel 1979.
Subito dopo la rivoluzione del 1979, in ogni modo, uno dei primi atti pubblici del nuovo governo sarà una colossale processione – circa un milione di persone – alla tomba di Mossadeq (che, nel frattempo, era morto di cancro), per testimoniare un legame che trascendeva i decenni, ossia la difesa di un bene iraniano dalla protervia occidentale.

Se qualcuno rimembrasse per caso un altro Norman Schwarzkopf, ed avesse ingenerato una sorta di caos temporale, ricordiamo che il “macellaio” dell’operazione “Desert Storm” del 1991 fu Norman Schwarzkopf II, ossia il figlio di cotanto padre. In definitiva, dopo Bush I Il Vecchio e Bush II Il Giovane, non c’è da stupirsi: buon sangue non mente.
In effetti, l’unico che – in modo assolutamente inconsapevole ma appropriato – ha centrato l’argomento è stato Vauro in una sua vignetta, nella quale il dialogo recitava: “Sai che c’è il petrolio in Basilicata?” “Non dirlo agli americani, altrimenti ci portano la democrazia”. E’ proprio vero che è il gran momento dei comici.

E torniamo in Basilicata, dove l’ENI si “sbraga” nel concedere un misero 1% in più rispetto a quello che accordavano gli inglesi agli iraniani nel 1950. Grazie, Scaroni: ci prosterniamo, eternamente riconoscenti.
Peccato che un tuo augusto predecessore – Enrico Mattei – sostenesse che i proventi petroliferi vanno divisi a metà fra paese produttore e compagnia petrolifera.
Mattei sbagliava, perché il 50% in mano alle compagnie è ancora troppo: forse, se avessero ricevuto solo il 7%, non avrebbero trovato i denari per comprare la bomba che lo fece fuori.
In realtà, la situazione lucana è ancora peggiore, perché a gestire quel misero 6% – nell’Iran del 1950 – c’era un onesto servitore dello Stato come Mossadeq, mentre oggi quel 7% viene “devoluto” ai politici locali, che lo utilizzano – ovviamente – a “fin di bene”. Usandolo per raccogliere voti e consensi, nelle mille camarille politiche locali.

Mi fa specie che nessuno abbia citato questo illustre precedente, perché avrebbe illuminato di giusta luce la vicenda: cari lucani, l’ENI e lo Stato vi considerano né più e né meno che ascari, truppe coloniali, alle quali elargire il “soldo”. Se fate i bravi. Se vi mettete a protestare, è pronto il “modello TAV” dei manganelli, oppure vi affameranno come sono abilissimi a fare i nostri politici, di destra e di sinistra.
Pazienza che non lo sapesse l’operaio della Thyssen, che sarà solo lo specchietto per le allodole nel nuovo PD, oppure il “nobil rampollo” Colaninno, in altre faccende affaccendato, ma c’erano in studio un noto sindacalista, attualmente Presidente della Camera dei Deputati ed un docente d’Economia, che è stato più volte Ministro della Repubblica.
Possibile che Bertinotti e Tremonti non sapessero nulla? Che non saltasse loro agli occhi che i lucani, oggi in Italia, sono trattati peggio degli iraniani dalle compagnie coloniali inglesi del 1950? Comprendiamo che la vicenda non sia proprio conosciuta da tutti, ma a quei livelli non si può ammettere una simile mancanza d’istruzione, perché getta le basi per nuovi tradimenti. O ignoranti o reticenti: scegliere.

Non saprei quale delle due ipotesi sia quella giusta, però so per certo che – proprio in questi giorni – il Ministero dell’Economia incamererà i dividendi per le azioni in suo possesso di ENI ed ENEL. Sono circa 3 miliardi di euro, approssimativamente 2 da ENI ed uno da ENEL. Qui, i due non devono scegliere: basta incassare.
Anche i lucani hanno una sola scelta: si possono incazzare.

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01 marzo 2008

Se giri la chiavetta paghi, altrimenti…paghi lo stesso!

Leggevo, nei giorni scorsi, che “Mister Prezzi” (ma se le inventano proprio tutte…) ha convocato l’ANIA – l’associazione che riunisce le compagnie d’assicurazione – per tirare loro le orecchie. Prezzi sempre troppo alti. Se dovessero tirargliele per davvero, ne uscirebbero come tanti ciuchi.
La seconda cosa che mi è saltata in mente è una questione che riguarda le unità di misura. Come si misura la distanza? Metri, oppure chilometri. Il tempo? Secondi, oppure ore, mesi ed anni.
Mi sono quindi chiesto cos’è un’autovettura. Risposta: un bene destinato a percorrere spazi.
Come si paga il premio (non ho mai compreso perché una “coltellata” come l’assicurazione dobbiamo chiamarla “premio”, non capisco…) assicurativo per una vettura? In anni, o mesi. Strana incongruenza, che un bene per il quale si misura tutto in Km percorsi – i tagliandi di garanzia, i cambi dell’olio, i pneumatici, le distanze da percorrere, ecc – sia valutato mediante il tempo dalle assicurazioni.

Altra deduzione: la possibilità che una vettura provochi incidenti, deriva dal tempo che trascorre in strada?
Se la tengo parcheggiata regolarmente sotto casa per un anno intero (ammesso di non sospendere l’assicurazione), quale probabilità ha di causare un incidente? Zero. Potrà subire un incidente, ma in quel caso la responsabilità sarà d’altri.
Senza estremizzare il concetto, hanno la stessa probabilità di causare incidenti, due automobilisti che percorrono rispettivamente 10.000 e 100.000 chilometri l’anno? Dipenderà certo dalla prudenza, dalla bravura – anche dalla fortuna – ma, se ammettiamo statisticamente che abbiano le stesse capacità e siano nelle medesime condizioni, il primo pagherà dieci volte tanto la probabilità di causare un incidente rispetto al secondo.
In parte c’è la compensazione della clausola “bonus malus”, ma – in definitiva – chi percorre 10.000 Km avrà un decimo di probabilità di causare un incidente rispetto all’altro. Quindi, ha più senso agganciare la probabilità di causare un incidente alle percorrenze, piuttosto che al tempo.

Gli assicuratori sono bravi ad eludere il problema, affermando che gli automobilisti che percorrono pochi chilometri l’anno sono quelli meno avvezzi alla guida. Oppure che, a percorrere pochi chilometri, sono i giovani, i quali sono inesperti e causano più incidenti.
Sono argomentazioni fatue: nessuno può affermare che chi guida poco sia meno preparato alla guida di chi fa 100.000 chilometri l’anno. Al contrario, si potrebbe obiettare che chi guida molto è più soggetto alla stanchezza. Oppure, che le persone anziane sono più prudenti, che i giovani – alle prese con il “giocattolino” nuovo – passino molto tempo alla guida, ecc.
Senza fornire approfondite analisi sulla casistica degli incidenti stradali, sostenere queste tesi è un vacuo pour parler: rimane il fatto – inoppugnabile – che più si guida e maggiori sono le probabilità d’incorrere in un incidente.

Alcune compagnie hanno iniziato a fornire un servizio di assicurazione a percorrenza ma, se proverete ad inserire i vostri dati, scoprirete che sarà conveniente solo per percorrenze inferiori ai 10.000 Km annui (praticamente, sui 5.000, se vorrete avere una discreta convenienza), quando il dato più comunemente accettato (Fonte: Eurispes) per la percorrenza media è di circa 15.000 Km annui. Inoltre, le compagnie chiedono l’installazione del GPS ed i relativi costi, che ammontano a qualche centinaio di euro l’anno, secondo la compagnia: il che, rende la proposta praticamente inattuabile.
Questa differenza di 5.000 Km (10.000-15.000), rappresenta lo “spartiacque” fra coloro che usano solo saltuariamente l’auto e chi – comunemente – l’adopera per recarsi al lavoro e per qualche breve viaggio. A volte – fortunatamente – si riescono ad acquistare automobili che hanno sì 5 o 6 anni, ma che hanno percorso meno di 50.000 Km: sono le vetture di chi guida poco.
Ci sono poi coloro che percorrono più strada, ma in quei casi – molto spesso – l’automobile è un mezzo di lavoro, che deve essere considerata un costo vivo e rientrate quindi nel novero delle spese per l’attività svolta.

Perché all’automobile si applicano due distinti sistemi di valutazione, ossia chilometri per l’usura e la manutenzione del veicolo, e tempo per bollo ed assicurazione? Anche le revisioni, cicliche ogni due anni dopo i primi 4 anni di vita dell’auto, non hanno molto senso. Potremmo avere automobili che, al fatidico quarto anno di vita, sono ancora pressoché nuove, mentre altre potrebbero avere “sulla schiena” 300.000 chilometri.
Dal punto di vista della sicurezza, notiamo che le attuali norme non prevedono controlli calcolati sulla percorrenza e, un’auto che ha percorso 300.000 chilometri, è oramai poco di più che un rottame.
Se fosse possibile pagare soltanto i chilometri percorsi (e senza le solite truffe mascherate, come l’installazione del GPS, quando basterebbe un comune contatore collegato alla rete GSM) ciascuno di noi potrebbe scegliere più consapevolmente se usare l’auto. Della serie: vado al bar in bici, e non spendo proprio nulla. Oppure: ma sì, prendo l’auto, tanto bollo e assicurazione li pago lo stesso…

Tutto ciò, apre degli scenari interessanti sotto il profilo del risparmio energetico.
Nonostante l’ostracismo delle grandi case automobilistiche, stanno per arrivare vetture di piccolissima cilindrata, spartane, parche nei consumi e nel prezzo. Ne è un esempio la piccola TATA “Nano”, di soli 623 cm3, che raggiunge una velocità massima di 80 Km/h. L’auto sarà messa in vendita (per ora) solo nel mercato indiano, poiché ritenuta troppo “spartana” per i mercati europei. 60 anni or sono, era la Francia ad inventare la sua “nana”, la Citroen 2 CV. Pensata dal direttore generale della casa francese, Pierre Boulanger, per “portare due contadini in zoccoli e cinquanta chili di patate a una velocità massima di 60 km/h e con un consumo di tre litri per 100 chilometri”, la popolarissima 2 CV fece epoca.

La caratteristica precipua di queste auto era (e torna ad essere) quella di dimezzare i consumi, che si aggirano intorno ai 30 Km per litro.
Se la “Nano” è una vettura per 4-5 persone, un’auto per due sole persone, con una cilindrata intorno ai 300-400 cm3 ed una velocità massima inferiore ai 100 Km/h, sarebbe l’optimum per i nostri mercati: scarso ingombro, contenutissimo costo d’acquisto, consumi bassissimi.
Cosa impedisce di viaggiare su simili auto, per risparmiare intere superpetroliere di benzina? Le assicurazioni.
La “Nano” costa, in India, 1.700 euro. Sì, avete capito bene: da noi non si compra manco uno scooter.
Sarà pure un’auto spartana ma, per recarsi al lavoro oppure al supermercato, basta ed avanza. Quando non serve? Quando dobbiamo compiere medie e lunghe percorrenze, per le quali è senz’altro meglio avere una media cilindrata.

Una media cilindrata è una scatola di metallo che pesa circa 900 Kg, la quale trasporta un carico utile (la maggior parte delle auto, circola con il solo conducente) di 70 Kg. Facciamo due? Va bene: 140 Kg.
Quel tipo di auto è stata progettata per viaggiare comodamente in autostrada in cinque persone più 80 Kg di carico: in quel caso, diventa abbastanza conveniente anche dal punto di vista energetico. Nella gran maggioranza delle situazioni, non lo è.
Dal punto di vista energetico, sarebbe conveniente circolare sulle brevi tratte (urbane ed extraurbane) con automobili come la “Nano”: oltretutto, costando poco, sarebbero alla portata di quasi tutte le tasche.
C’è però un problema: se desiderate mantenere entrambe le vetture, dovrete pagare due assicurazioni (e due bolli).

Ora, immaginando di pagare 600 euro d’assicurazione per la media cilindrata e 300 per la piccola, il vostro risparmio sul carburante va a farsi benedire. C’è però un particolare che viene taciuto: nessuno che io conosca riesce a guidare due automobili contemporaneamente.
Se, invece di pagare l’assicurazione basandosi sul tempo – cosa assai curiosa, visto che l’auto è un bene destinato a spostarsi nello spazio – misurassimo il “premio” assicurativo in base alla percorrenza?
In fin dei conti, sarebbe come la ricarica di un qualsiasi cellulare: pago per 10.000 chilometri e, quando m’accorgo d’esser giunto a 9.500, faccio una ricarica.

Frodi? Impensabile, poiché basterebbe un semplice contatore piombato (modello gas o acqua, ma di modestissime dimensioni) ed una pena severa per chi si scordasse di “ricaricare” l’assicurazione oppure, peggio, tentasse di manomettere il congegno. Sei mesi di vera ed irrevocabile sospensione della patente sarebbero un ottimo deterrente. Un apparecchio elettronico potrebbe inviare un segnale acustico quando il “credito” sta per esaurirsi, ed un parallelo segnale sulla rete GSM alla compagnia assicuratrice.
A quel punto, potremmo usare l’auto a bassissimo consumo per gli usi comuni, e riservare l’altra per le lunghe percorrenze: ad esempio, 10.000 Km l’anno con la “piccola” e 5.000 con la “grande”. L’altra auto, ferma, non costerebbe nulla.
10.000 Km, percorsi con un’auto che fa 30 Km con un litro, corrispondono a 333 litri di benzina che, a 1,40 euro il litro, sono 466 euro. La stessa percorrenza, con una media cilindrata, richiederebbe esattamente il doppio, ossia 666 litri e 936 euro di spesa: risparmio, 466 euro l’anno. Ovviamente, se dovessimo pagare due assicurazioni (e due bolli) tutto ciò non avrebbe senso.

Non è questa la sede per parlare del mercato dell’automobile, bensì per chiederci se ha senso pagare la stessa copertura assicurativa se si percorrono tratte diverse. Un concetto, limpido come l’acqua.
Nel caso indicato, invece, l’auto ferma non costerebbe nulla (se anche per il bollo si usasse identico metodo) e si pagherebbe solo il “consumo di sicurezza”, ovvero quando si circola.

Sulla questione del bollo auto, dobbiamo ricordare che fu introdotto come corrispettivo per la manutenzione della rete viaria: in quel contesto, aveva un senso. Difatti, se l’auto non circolava e sostava in un luogo privato, non s’era obbligati a pagarlo. Poi venne la “riforma”, che lo trasformò in una “tassa sul possesso”: un retaggio medievale!

Riflettiamo che l’Occidente capitalista ha una ben strana idea dell’economia: liberismo sfrenato nei confronti dei lavoratori – prendi quel che ti do e stai zitto, per il tempo che mi servirai e basta, altrimenti vattene – e gabelle “sul possesso” di stampo medievale. Tassa sul possesso dell’auto, della moto, della barca, persino del televisore.
Ci sono, però, delle eccezioni: la tassa “sul lusso”, voluta dalla Regione Sardegna sugli immobili d’altissimo valore, è stata recentemente ritenuta incostituzionale, mentre nessuno ci spiega perché dobbiamo pagare una tassa per avere in casa un televisore. Perché, se chiederete di non pagare più il canone, è sul possesso fisico dell’apparecchio che verterà la discussione, sorvolando sul fatto che potreste voler ricevere solo Tele Andalusia.
Di questo passo, una tassa sullo schiaccianoci o sul frullino sarebbe identica cosa, perché un televisore è un bene mobile non registrato. Le ville di lusso, invece – beni immobili registrati – non rientrano: parola della Corte Costituzionale.
A fronte di una vera economia liberale – pago per quel che consumo – in Italia si preferisce tornare alla gabella, di destra e di sinistra, al “fiorino” per passare sotto le mura del castello.
Non meravigliamoci allora se soluzioni praticabili per il risparmio energetico non trovano orecchie che ascoltano: se potessero, tasserebbero anche le lampadine, senza preoccuparsi se sono a basso consumo.

Tornando alle nostre auto, si potrà obiettare che nelle aree urbane più automobili aumenterebbe la congestione del traffico, soprattutto la scarsità di parcheggi: verissimo, ma le aree urbane possono risolvere i problemi di traffico solo con efficienti e rapidi servizi pubblici, dal metrò al taxi collettivo.
C’è però l’Italia dei “10.000 campanili”, dove non ci sono problemi di parcheggio, mentre i mezzi pubblici sono così scarsi e scadenti che obbligano ad usare l’auto: anche molte medie cittadine possono avere situazioni simili.
Qual è l’intoppo?
Molto semplice: su quel parco di auto ferme che osserviamo ogni giorno, la assicurazioni ci campano allegramente. Non a caso, eminenti dirigenti politici (come il senatore a vita Merzagora e le Generali) sono stati al vertice dei gruppi assicurativi: il conflitto d’interessi, non è nato ieri.
Mi rendo conto che la situazione è più complessa (il computo degli incidenti viene effettuato sull’intero parco auto, ecc) però, sapere che si paga soltanto se si circola, sarebbe un buon impulso di “consapevolezza” nell’uso dell’automobile.
In altre parole, sarebbe un intervento non solo economico ed ambientale (risparmio di carburante), ma un piccolo passo verso la decrescita, perché indurrebbe una riflessione cosciente: appena giro la chiavetta, spendo, altrimenti, nulla.

Invece, la pubblicità ci bombarda con i SUV, le automobili più assurde che possano esistere: inutili, costose e divoratrici di risorse.
Abito in luoghi dove nevica tanto, sull’Appennino ligure-piemontese, eppure – in tanti anni – non ho mai avvertito l’esigenza d’avere un SUV per le intemperie: due gomme antineve, bastano ed avanzano.
Possiamo comprendere chi deve svolgere un servizio di pubblica utilità (i medici, ad esempio), ma le ASL forniscono, al massimo, una Panda 4x4!

Cos’è, allora, che non rende possibile il risparmio energetico?
Sono i 3 miliardi di euro che lo Stato incasserà, a breve, dai dividendi delle azioni ENI ed ENEL in suo possesso: una situazione nella quale è lo Stato stesso che finisce per essere in un plateale conflitto d’interessi quando, da un lato, propugna il risparmio energetico mentre, dall’altro, sarebbe la sua rovina.
C’è da stupirsi, allora, se non possiamo “ricaricare” l’assicurazione come un cellulare?
Assicurazioni, dividendi delle industrie energetiche, fabbricanti d’auto e quant’altro, concorrono tutti insieme all’erezione del mitico PIL, il sancta sanctorum di una civiltà che ha perso il senso della realtà. Un lingam elettronico, indicato soltanto dai numeri che scorrono sui monitor.

Oggi costruisco un fabbricato – e il PIL cresce – domani lo demolisco – e si sommano al PIL i costi di demolizione – infine, si dovrà bonificare il sito e si spenderanno altri soldi per ripristinare il prato primigenio.
Risultato pratico: nulla. Risultato per i PILiferi? 3 volte PIL.
Non stupiamoci se simili provvedimenti non rientrano nelle campagne elettorali dei “venditori di coscette” (vedi il mio articolo “Coscette e mezzadri”), perché questo sarebbe vero liberalismo, ossia libertà per il consumatore di scegliere. Viaggio poco? Pago solo il consumo. Viaggio molto? Scelgo la tariffa “flat”, ossia l’assicurazione tradizionale. Ci sarebbe un mondo di situazioni simili da riformare, ma in senso liberale: a favore dei più, e non dei pochi.
E, allora, vai “Mister Prezzi”! La risposta – a coloro che ci vogliono ammansire con nuove “liberalizzazioni” e fantasmagoriche promesse – può essere soltanto il classico “Vota Antonio La Trippa”. Con i fagioli.

P.S. Non sarebbe male, per le prossime elezioni, lanciare una campagna per il “Vota Antonio”. Tanto per far capire loro il bassissimo indice di gradimento che hanno raggiunto.