19 agosto 2008

E adesso?

Ci siamo addormentati con ancora negli occhi la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi – trionfo di suoni e colori della millenaria Cina – e ci siamo risvegliati fra le montagne del Caucaso, nella polvere sporca, macinata dai cingoli dei tank.
Subito dopo, è partito il coro delle lamentazioni da parte del cosiddetto Occidente, e delle affermazioni da parte russa. Il risultato: fiumi di parole avvelenate, sentor di tradimenti nell’aria, rivolgimenti delle cancellerie europee ed una sola, nitida realtà.
Sopra il clamore delle minacce velate ed esplicite, rimangono quei carri armati russi placidamente adagiati nei pressi della città di Stalin, quei posti di blocco a poche decine di chilometri dalla capitale, Tblisi, gestiti da giovani soldati russi che sembrano quasi partecipare ad un’esercitazione.

Ce ne dobbiamo andare? – sembrano raccontare i loro visi – sì, forse…anzi no, ce ne andremo…ma il colonnello non ha ancora dato l’ordine, i generali ammiccano, i grandi capi esternano…
Intanto, i tank continuano ad osservare la calura dell’estate georgiana dai sistemi di puntamento dei loro cannoni, i soldati dall’ombra di qualche rachitico arbusto, forse qualche pilota dall’abitacolo del suo Mig.
La realtà, che il cosiddetto Occidente sembra non comprendere, è che i russi – per la prima volta dopo il 1945 – sono usciti dai loro confini per attaccare forze armate a loro nemiche e le hanno annientate.
Che una faccenda chiamata “Saakashvili” non potesse continuare così all’infinito – era iniziata con un presidente regolarmente eletto spintonato fuori dal Parlamento – c’era da aspettarselo: oggi un campo d’addestramento in Kosovo, domani qualche radar sui confini russi, dopodomani rampe di missili nell’Europa orientale, al termine hanno fatto tracimare la pazienza dei russi.

Così, l’Occidente, scopre un giorno d’estate d’essere impegolato in una faccenda molto seria – che rammenta la crucialità storica del Caucaso, il delicato crocevia che rappresenta – senza avere un gran che da dire.
A parole, certo: fiumi di parole, centinaia di dichiarazioni, migliaia “d’avvertimenti” alla riottosa Russia, la quale mostra di non voler capire che noi siamo i più forti e, di conseguenza, usiamo il diritto internazionale come tutte le altre carte. Anche igienica, all’occorrenza, quando si tratta di lanciare un attacco notturno sulla popolazione civile a suon di cannoni e lanciarazzi.
Terminate le minacce e gli “avvertimenti”, però, rimane la realtà di quei carri placidamente adagiati nei campi, e gli ospedali georgiani zeppi di feriti, quasi tutti piagati – nel corpo e nello spirito – dall’inferno scatenato dagli aerei russi.
Perché, la realtà poco evidenziata, è che i russi non hanno poi fatto molto: hanno semplicemente scatenato l’aviazione su un esercito raccogliticcio, mal armato ed equipaggiato, privo di copertura aerea, che s’era immaginato di scorrazzare per l’Ossezia come gli aggradava, aizzato dal “patriottismo” di una sorta di Noriega caucasico, finanziato ed addestrato direttamente a Washington.
Si possono fare molte ipotesi sui retroscena politici che hanno condotto Saakashvili ad osare, su chi lo abbia convinto che sarebbe stato supportato, su chi gli abbia fornito “notizie certe” che i russi sarebbero rimasti alla finestra: oggi, poco importa, tutto è sopravanzato dagli eventi. Senza accorgercene, siamo già al domani.Quale?

Le ipotesi che circolano sono per lo più improntate al catastrofismo: tutti stanno già correndo a riaprire arsenali e si preparano alla guerra totale, magari atomica. Gli oleodotti dettano l’agenda politica e militare: domani – è ovvio – s’andrà a morire per Tblisi.
L’edizione che va per la maggiore è che, un Occidente ricco ed armato, farà un sol boccone di una Russia con le pezze al sedere, piazzando qualche portaerei di fronte al porto di Poti, qualche centinaio di jet negli aeroporti georgiani e qualche migliaio di super-addestrati fantaccini a ridosso dell’Ossezia e dell’Abkazia. Tutto da copione, come in Kosovo.
La Georgia entrerà nella NATO e nell’UE, si convertirà all’euro, “darà una mano” alla Turchia per la questione curda ed a Washington per quella irachena, e tutti vivranno felici e contenti. I russi, ovviamente, si dovranno accontentare della solita pippa.
L’unica nota stonata sono quei carri armati nella calura georgiana…che non dovrebbero essere lì, dovrebbero stare tutti ben riuniti nelle loro caserme per essere diligentemente bombardati dai nostri stealth…perché i russi con capiscono? O, forse, sono altri a non capire?

La prima cosa che l’Occidente dovrebbe cercare di capire – se mai sono ancora capaci di un minimo d’analisi – è che in Kosovo le cose non andarono proprio in quel modo. L’Occidente, non vinse nulla: bombardò per 78 giorni la Serbia ed il Montenegro – talvolta il Kosovo – giungendo, con lo strapotere dei suoi mezzi aerei, a distruggere circa il 40% dell’aeronautica serba ed una ventina di mezzi corazzati e blindati.
Nessun “g-man” super tecnologico mise piede nel Kosovo: lo fecero soltanto quando la Terza Armata serba s’era ritirata oltre Mitrovitza.
Quella guerra fu vinta – se così si può dire – sui cieli di Belgrado, di Nis e di Novi Sad, a colpi di bombe da 250 libbre sganciate – quasi “seminate”, verrebbe da dire – su tutto quello che si poteva colpire, civili o militari che fossero: la solita teoria di far cedere il “fronte interno”. Prima delle elezioni europee, ovviamente, costi quel che costi.
Se qualcuno ancora ritiene quella guerra una “fattiva” e “volonterosa” collaborazione fra 19 forze armate nazionali, dovrà spiegare perché i francesi – piccati per non essere stati avvertiti del bombardamento dell’ambasciata cinese – pensarono bene di “passare” ai serbi i piani di volo. Nessuna “gola profonda” né documenti super-segreti: ammissioni dei piloti statunitensi di fronte alle telecamere[1]: «O non trovavamo niente, o trovavamo “troppo” ad attenderci».

Il petrolio, però, metterà tutti d’accordo: Tblisi val bene una messa!
L’Occidente, però, non ha buona memoria: dimentica quel 90% delle concessioni petrolifere irachene – in mano a Francia e Russia – che passarono, appena abbattuto Saddam, alle compagnie statunitensi. Francia e Russia sbraitarono non poco e – sarà un caso – ma Sarkozy è volato a Mosca per far firmare ai russi un semplice “cessate il fuoco” che al Cremlino hanno subito accettato, tanto era loro favorevole. Sarà un caso che Saakashvili è giunto a mangiarsi la cravatta dalla rabbia?[2]
E’ dovuta scendere dal cielo Santa Condoleeza degli Affranti, per far digerire a Tblisi un cessate il fuoco che assomiglia tanto ad una resa. Arbusto da Crawford tuonava che “la pazienza aveva un limite”: intanto, i tank russi continuavano a sudare nella calura e le noccioline, probabilmente, ad andargli di traverso.
Dopo altri giorni[3], il ministro degli esteri francese Kouchner continua ad affermare che “senza dialogo, non vi sono possibilità di fermare il conflitto tra Georgia e Russia”: insomma, se qualcuno aveva tolto la sicura alla pistola, s’affretti a rimetterla.

Madame Merkel da Amburgo – ma laureata a Lipsia, nella DDR – intanto, assicurava che la Georgia sarebbe entrata nella NATO: prima o poi, ovviamente. Vorremmo sapere se l’ingresso della Georgia nella NATO coinciderà con l’inaugurazione del nuovo gasdotto – società mista russo-tedesca ed ex premier germanico Schroeder chiamato a dirigerla – che dovrebbe avvenire nel 2010. Un paio d’anni al massimo.
Quel gasdotto taglierà fuori completamente Ucraina, Polonia e Bielorussia dal percorso del gas siberiano, trasformando la faccenda in un affare quasi privato fra Russia e Germania. Sicura, frau Merkel, di non voler precisare meglio la sua posizione?
Perché, vede, ci torna alla mente che russi e cinesi hanno recentemente stilato un accordo per stendere definitivamente la carta dei loro confini in Asia – scontri nei pressi dell’Amur e dell’Ussuri, ricorda? Eravamo ragazzi… – e fa parte dell’accordo, ovviamente, la fornitura di gas russo.
Ora, metaforicamente, se Vladimir Putin è seduto nei pressi di due rubinetti del metano, uno con scritto “Europa” e l’altro “Cina” – e può aprirli e chiuderli a piacimento per il prossimo mezzo secolo – …abbiamo capito…era stata fraintesa.

La nuova geopolitica del gasdotto baltico – più che qualche intercettore[4] in Polonia – sembra scuotere parecchio le classi dirigenti dell’Europa orientale, “arancioni” e non.
Nella “arancione” Ucraina, il premier Yushenko ha pensato bene d’accusare di “alto tradimento” – una personale interpretazione del diritto – Julia Tymoschenko, l’eterna alleata/rivale, perché – a suo dire – stava facendo pappa e ciccia con i russi. Molto probabile, visto che l’Ucraina è in una situazione delicata: all’est, regione mineraria ed industriale, la maggior parte della popolazione è di etnia e lingua russa, e tantissimi hanno un passaporto russo in tasca.
Cosa succederebbe, se Kiev decidesse d’entrare nella NATO? Una scissione, oppure scenari ancora peggiori: forse, la Tymoschenko ha messo a frutto il suo intuito femminile, e s’è messa “al vento”. O, forse, ha buona memoria e non ha scordato i “discreti” movimenti di corazzati russi in concomitanza di quella che fu definita la “guerra del gas” fra Mosca e Kiev, negli ultimi giorni del 2005: ho sempre ritenuto che le donne siano dotate di maggior buon senso rispetto agli uomini.
Novità sorprendenti anche dalla “fedelissima” Bielorussia, dove l’inossidabile Lukachenko ha deciso di liberare il capo dell’opposizione, Vintsuk Vyachorka, così, per le ferie d’Agosto. Un desiderio di Mosca (facciamo vedere che siamo democratici…)? Oppure un avvertimento al Cremlino, poiché i tank russi e gli oleodotti che ti tagliano fuori non piacciono proprio a nessuno?

E veniamo al grande monolite europeo, quello che dovrebbe reggere lo scontro con l’orso russo.
Cementata dal Trattato di Lisbona – che le popolazioni hanno acclamato con feste di piazza e referendum confermativi dai risultati “bulgari” (!) – la Grande Europa s’appresta a varcare i confini orientali, per definire finalmente chi comanda in questo pezzo di pianeta.
Sì…qualcuno s’è lanciato così avanti da proporre addirittura l’invio di una ventina di “caschi blu” – rigorosamente sotto l’egida dell’ONU – ma solo venti, perché al ventunesimo scatterebbe il veto di Mosca.
Non ci sembra d’udire assordanti tintinnii di baionette, da Lisbona a Berlino: forse a Varsavia ed a Vilnius, ma ci sembrano baionette spuntate ed un po’ rugginose. E, ad onor del vero, sono “baionette” che in sede europea hanno più volte irritato Parigi e Berlino, con una serie di bastoni fra le ruote che fanno pensare più a dei “Quisling” statunitensi in terra europea.
Addirittura, si paventano ritorsioni di natura nucleare: città russe cancellate da una vampa atomica, nel perfetto copione di Hiroshima. Ovviamente, Tblisi vale tutto ciò, ossia Francoforte, Berlino, Parigi, Roma…rese in cenere dagli ICBM di Mosca. Uno scenario veramente da crederci. Ad occhi chiusi, appunto.

Su tutto, la grande “regia” americana che tutto puote, con l’importante ausilio della finanza e dell’intelligence israeliana. Qui, non mettiamo in dubbio le intenzioni, ma George W. Bush (ed accoliti vari) dovrebbe per prima cosa ristudiare due argomenti: i verbi al condizionale (potrebbe, vorrebbe, sarebbe…) e la costituzione americana. Perché?
Poiché, se il suo ardire è quello di condurre la nazione in guerra per avere un terzo mandato, dovrebbe ricordare che siamo alla fine d’Agosto e gli rimane poco tempo per agire: il Congresso potrebbe concederglielo, ma a fronte di una vera guerra – dichiarata e di notevole importanza – non certo per qualche “pasticcio” di peacekeeping, “polizia internazionale” o roba del genere. Ci sembra, francamente, fuori tempo e fuori luogo: per il futuro, stia piuttosto attento alle noccioline di traverso.

Tutto sembra quindi rinviato al prossimo inquilino della Casa Bianca, il quale dovrà per prima cosa cercare di far scemare il numero degli americani che sono oramai ridotti all’elemosina, dare una casa a quelli che vivono nei camper, poi d’uscire dal pantano iracheno (magari con una re-distribuzione delle concessioni petrolifere) e cercare non nuovi scenari di scontro, bensì accordi per salvare il salvabile. La situazione economia americana, non consente più di rimandare oltre.
Libano, Iran, adesso la Georgia…è tutto un fiorire di roboanti affermazioni, bilanciate – però – da altrettanti fiaschi militari e strategici. Obama va a lezione da Brezinsky? Bene, ma dovrà stare attento, perché il vecchio marpione non s’è mostrato quell’aquila che si credeva: c’è riuscito in Afghanistan, ma quella era un’altra epoca…
Mc Cain vuole portare i marines in Georgia? Benissimo: e dove li trova? Ha anch’egli le armate di terracotta cinesi? Perché, ci sembra, che non trovino nemmeno sufficienti effettivi da inviare in Iraq: la Russia ha ancora la coscrizione obbligatoria, gli USA ne parlano, ne parlano e basta, appunto.

Mosca si ritirerà dalla Georgia – con tutto comodo, ovviamente – perché ogni giorno che passa dimostra che, pur non avendo più il “pedigree” di potenza “planetaria”, è sufficientemente coesa ed ha forze in grado d’impedire simili avventure ad un passo dai suoi confini.
I georgiani scorderanno presto l’Ossezia del Sud e l’Abkazia: del resto, hanno spumanti di produzione nazionale che possono, alla bisogna, aiutarli nell’oblio.
Bush andrà a brindare con loro, ricordando i vecchi tempi. Condoleeza, finalmente, convolerà a nozze con qualche ex pugile od ex agente CIA. Il gas fluirà potente sotto il Baltico ed i missili rimarranno inoperosi – come lo sono da decenni – nei loro silos.
Il resto? Parole, parole, parole…Tblisi: chi era costui?

[1] Dichiarazioni filmate proposte a tardissima ora da Canale5, intorno al 19 Marzo del 2000, per “fare il punto” ad un anno di distanza dal conflitto.
[2] Youtube ha pubblicato un divertente filmato al riguardo.
[3] La Repubblica, 19 Agosto 2008.
[4] La rotta dei missili balistici fra Russia ed USA è una rotta artica: di conseguenza, gli eventuali missili in Polonia avrebbero più che altro valore di pura propaganda. A meno di pensare che una decina di missili intercettori potrebbero arrestare un attacco missilistico sull’Europa, con una dozzina di veicoli di rientro per missile. Molti analisti sollevano dubbi sulla reale efficacia del sistema statunitense.

08 agosto 2008

Attenzione: il giocattolo sta per rompersi!

Nella calura agostana, verrebbe la voglia d’abbandonarsi a buoni romanzi o stuzzicanti saggi, al fresco di un pino o al riparo dell’ombrellone. Già, perché Agosto è una sorta di sospensione del tempo, per tutti.
Per chi è in vacanza, che – al mare, ai monti o semplicemente nella quiete di casa – cerca refrigerio e si domanda “come sarà” la ripresa dell’attività a Settembre e per la classe politica, la quale ha terminato il duro “tour de force” di Luglio, e s’appresta a lasciare alle “seconde linee” i palazzi del potere per la gestione della “normale amministrazione”.

Riflettiamo che, oramai, i “frutti” della politica prendono forma soltanto a Luglio – centro destra o centro sinistra, PD +/– L – perché è il momento nel quale possono contare sul maggior disinteresse degli italiani.
Non è certo un caso che la controriforma Damiano sulle pensioni sia stata varata il 23 Luglio del 2007, o che il parossistico DM 112 del 2008 sia stato emanato pressappoco nello stesso periodo. La presentazione della manovra economica triennale il 6 di Agosto del 2008 – nella nuova deontologia del politico italiano – è praticamente perfetta.
Lor signori hanno a disposizione fior di sondaggisti, sociologi, analisti, pennivendoli e quant’altro, i quali hanno un solo e preciso obiettivo: sapere per tempo quale sarà il momento nel quale coglieranno gli italiani con le mutande abbassate. Luglio e Agosto, con il caldo e le vacanze, sono perfetti.
Dopo, tutto diventa uno scherzetto e si può tirare il fiato per un altro anno, nel quale i fancazzisti al potere, mascherati da indefessi lavoratori (ricordiamo che Brunetta è stato uno dei più assenteisti parlamentari europei italiani…), si divertiranno con le solite passeggiate sui loro media, sui loro panfili, nelle discrete “case” di coca & “veline”. Sarebbe meglio stendere un pietoso velario sulla loro pochezza, se i frutti delle loro inconsulte ed irragionevoli azioni non precipitassero nella realtà, in questa realtà – la nostra – che nemmeno conoscono e che pretendono di governare.
Perciò, ho chiuso il bel romanzo che stavo leggendo e mi sono proiettato nel futuro: nel 200…chissà quando?
No, al prossimo Settembre: basta ed avanza.

Questo andazzo a dir poco schizoide – per il quale, oramai, in Europa ci considerano dei fessi o degli ignavi – va avanti perché milioni d’italiani, nonostante il malaugurio che ci precipitano addosso, tentano, provano, continuano a credere che le cose possano andare avanti applicando il vecchio buon senso. Ossia, cercano ancora di metterci una pezza, e si mettono pure d’impegno. Fino a quando ce la faranno?
Da dieci anni a questa parte – almeno per la scuola, che un po’ conosco – siamo precipitati in un tourbillon di riforme gattopardesche, circolari che negavano quanto affermato l’anno prima, innovazioni ed abrogazioni assurde e repentine: il tutto, ha il liquido sapore del nulla. Perché?
Mi torna allora alla mente che si pecca in pensieri, parole, opere ed omissioni: ora, sulle prime tre, non penso che ci siano dubbi. In ogni modo, qualche esempio è necessario segnalarlo.

Il “pensiero” che il “nano” Alitalia – se messo a confronto con le grandi compagnie planetarie – potesse permettersi il lusso di due “hub”, Fiumicino e Malpensa, è stato alla base del tracollo della compagnia, inutile girarci attorno. Proprio un bel “pensiero”.
Mentre le altre compagnie cercano di ridurre i costi utilizzando magari lo stesso, grande aeroporto, Alitalia – per soddisfare interessi di bottega “padani” – si è svenata con la duplicazione delle strutture. Una “pensata” da Pico della Mirandola. Difatti, oggi sono nella m…e non sanno come cavarsela. Ci salverà ALIgresti.

Le “parole” di Maria Stella Gelmini – che “90 Conservatori, in Italia, sono davvero troppi” – sono un’esternazione che riteniamo solo frutto di un colpo di sole: perciò, non ne faremo colpa alla ragazza. Si sa: i ragazzi vanno alla spiaggia con la gran voglia di un tuffo ristoratore, e dimenticano il cappellino di paglia a casa. Comprendiamo.
90 Conservatori sono, in media, meno di uno per Provincia: già seguire le lezioni – riflettiamo che la stragrande maggioranza degli allievi frequenta in parallelo un istituto superiore – avendo il Conservatorio a decine di chilometri, non è uno scherzo. Qualora le decine iniziassero a superare il centinaio, addio violinisti e clarinettisti. Nel Paese della musica, che ha come prima fonte di reddito il turismo, non tutti abitano nei pressi di Santa Cecilia.
Nella pianificazione “organica” delle varie riforme e controriforme, qualcuno aveva pensato di far iniziare il percorso musicale dopo la maturità: bellissima idea. A 19 anni, s’inizia a studiare pianoforte o trombone, così in 3-6 anni tutto è concluso e li mettiamo in orchestra. Insomma, come all’Università, oppure – se hai i soldi – studia privatamente.
Chissà perché, invece, generazioni di pedagogisti e musicisti avevano pianificato – da decenni se non da secoli – un percorso più consono all’età degli studenti, i quali iniziano spesso presto perché attratti dalla passione per la musica, per uno strumento musicale. Non sappiamo cosa risponda Maria Stella: forse, non ci aveva mai pensato, oppure ci sta meditando adesso, che ha finalmente trovato il cappellino.
E veniamo infine alle opere.

Le “opere” sono in gran parte contenute nel DM 112 – chi s’aspetta il “ritorno” del Tremonti “gran giustiziere di poveri e derelitti” può, a mio avviso, darsi appuntamento alle calende greche – perché questo decreto è la vera Finanziaria in pectore.
Lo ha ammesso anche il Gran Capo del PD + L, e solo qualche sparuto leghista lobotomizzato s’ostina ancora a credere alla Robin Tax, giacché anche gli allievi delle Elementari hanno compreso che si tratta di una penosa partita di giro: da ENEL ed ENI, a forte partecipazione statale, di nuovo allo Stato. Il solito trucco di Tremonti.
E poi: lo “spezzatino” di precedenti leggi e decreti di spesa (tipico il caso dell’edilizia), con lo scopo di non prevedere un euro in più di quanto già c’era, ma di presentarlo sulle reti nazionali con la novità eccelsa. E, gli italiani, la bevono.
In quel decreto, non ci sono soltanto gli arresti domiciliari per i pubblici dipendenti malati, i pre-pensionamenti ad personam (cosa sono, un “premio fedeltà” elettorale?), le ampie previsioni di spesa per nuove “consulenze” (per gli “amici degli amici”, ovvio), l’esercito nelle strade (a fare che?!? Siamo diventati la Colombia? Ma allora ditelo…), la sottrazione al giudice del lavoro della potestà di decidere se un dipendente, dopo le innumerevoli “forche caudine” della legge Biagi/30, abbia finalmente diritto ad un lavoro stabile…in quel decreto c’è di più.

C’è la sostanziale affermazione, da parte di un ceto politico, di voler sopravvivere a se stesso, costi quel che costi: non importa se Atene cadrà in rovina, ciò che conta è che non si metta in dubbio la sua oligarchia.

Ciò che invece manca completamente – ecco il peccato d’omissione – è l’analisi della situazione italiana per quello che è, e qualche timida – per carità, di più non potremmo aspettarci dai +/- L – proposta. Suggeriremmo, a fronte della comunicazione del Presidente del Consiglio che il “gettito IVA è calato del 7%”, di prender atto di cosa significa questo dato.
Vuol dire che, proprio nel periodo delle vacanze estive, gli italiani consumano soltanto più lo stretto necessario, come la maggior parte delle famiglie sta attuando, con aumenti dell’inflazione che iniziano a farci temere una deriva Argentina. Presto arriveranno i “conti” della stagione turistica e saranno – come avviene da anni – muri del pianto: Spagna e Croazia ringraziano.
L’aumento dell’inflazione in presenza di un calo dei consumi ha un nome: stagflazione, la tanto temuta “bestia nera” degli economisti. Significa che l’aumento dei prezzi non è più legato alla domanda, bensì sopravviene per altre cause: energia, ma anche improduttività/irrazionalità degli apparati produttivi e fatiscenza delle amministrazioni (e della classe politica).

La stagflazione è un fenomeno che non si governa più con le alchimie finanziarie – siano esse i pessimi decreti o le “rassicurazioni” della BCE – poiché significa che il male non è più limitato ai corollari dell’economia, bensì si è sostanziato – come un’aggressiva metastasi – nel corpo sociale.
D’altro canto, la pessima “pezza” degli accordi salariali del 1993 – la bella trovata della cosiddetta “inflazione programmata” – che consentirono al duopolio classe politica/imprenditoriale di gestire l’aumento dell’inflazione come più loro aggradava, sta esalando il “canto del cigno”.
Se l’inflazione ufficiale sale oltre il 4%, se quella “percepita” – che non è il frutto di una anomala “percezione”, bensì è l’inflazione calcolata sui beni di prima necessità – raggiunge e supera oramai il 6%, come si possono rinnovare dei contratti (e le pensioni) con valori intorno al 2%?
Il risultato è ovvio: contrazione dei consumi e maggior povertà. Quello che “preoccupava” Berlusconi prima della partenza per l’amata Sardegna: meno male che lui si “preoccupa” per noi. E, finite le “angustie”, cosa farà? Ah, saperlo…

Per venire a capo di una tale situazione, servirebbero riforme che lor signori definiscono “strutturali” ma che – guarda a caso – nel loro lessico significano ancor più “tagli” nei confronti degli italiani e maggiori prebende per loro, +/- L che siano. Le quali, produrranno solo maggior povertà per noi.
Se, da almeno 15 anni, non si fa che spostare ricchezza dal lavoro alla finanza, se, per sostenere questa perversione è necessario avere un ceto politico/imprenditoriale ed un’informazione completamente affidabile, se, per garantire la fedeltà assoluta bisogna concedere ampi privilegi a questi ceti, dove prendere le risorse?
Impoverendo tutti i lavoratori, siano essi pubblici o privati: uno alla volta, secondo se governa un +/- L, oppure seguendo le opportunità del momento.
Vogliamo raccontarci, fuori dei denti, qual è il macigno che pesa sull’economia italiana? E’ un macigno “bifronte”, come il dio Giano dell’antichità.

La faccia più facilmente percepibile è quella di una società stanca e demotivata – tante volte emersa dalle analisi dell’ISTAT, dell’EURISPES, del CENSIS, ecc – ossia di un corpo sociale frammentato da anni di continue, insulse riforme del nulla, le quali altro non sono state che privazioni di diritti. Salvo per i pochi che continuano ad incrementare il mercato di Ferrari e Lamborghini: il 10% della popolazione italiana, possiede il 45% della ricchezza nazionale. Siamo diventati un popolo di mezzadri.
La frammentazione nasce da decenni d’addestramento mediatico, nel quale ciascuno è stato messo di fronte a quella che propagandavano come l’unica soluzione praticabile: essere tutti contro tutti, ovvero avrai di più solo se troveremo il modo di toglierlo a qualcun altro.
In questo modo, hanno fregato per bene i lavoratori dipendenti additandoli come privilegiati, mentre gli autonomi sono stati “messi in riga” con gli studi di settore. Quindi, la bagarre delle categorie: tassisti da “liberalizzare”, notai da “inutilizzare”, dipendenti pubblici “fannulloni”, autonomi “evasori”, ecc. Un gioco al massacro.

Poi, le menzogne: la vera “emergenza” è la criminalità, di qui la soluzione “di facciata” d’inviare l’esercito nelle strade, senza riflettere che i militari non sono certo addestrati per quei compiti. Una modesta “pensata” post-elettorale di La Russa: niente di serio, verrebbe da pensare. La decisione di Alemanno d’armare i Vigili Urbani (che, peraltro, in gran parte già lo sono) va nella stessa direzione: solo “pensate” post elettorali, o il tentativo di militarizzare l’Italia per prevenire proteste e disordini? Un colpo di stato strisciante e non dichiarato?
Riflettiamo che, con l’approvazione “elitaria” del trattato di Lisbona, potranno sparare in caso di “sommossa”. E chi definisce cos’è una “sommossa”? Un corteo che protesta? Se non avessimo già visto i pessimi risultati della Legge Reale, potremmo anche fidarci, ma c’è chi non ha memoria corta, e ricorda le centinaia di morti ammazzati dalle “Forze dell’Ordine” nelle piazze italiane. Gente che non aveva nulla a che fare con il terrorismo, sia chiaro.

Se c’è un’emergenza, in Italia, è quella degli infortuni sul lavoro: perché abbiamo centinaia di morti l’anno in più di Francia e Germania? Se gli incidenti sul lavoro superano – per numero – le vittime della criminalità, perché solo questa è da ritenere un pericolo? Poiché, in questo modo, si fa credere che il “nemico” sia un altro, non la protervia dei ritmi ossessivi della produzione. Confindustria ringrazia, ed invia un fiore ai soldatini nelle strade: per i “normali”, rimane il dubbio di sapere non a che ora si torna dal lavoro, bensì se si torna.

Anni di questo pessimo andazzo ci hanno ridotti ad una pletora di penosi tele-dipendenti, curiosi solo di sapere qual è stata l’ultima “velina” approdata sul divano del potente di turno. Intanto, ci portavano via anche le mutande.
Oggi, questa umanità dolente non fa che guardarsi in cagnesco: al Nord sperano in una riforma federale che li arricchisca a scapito del Sud, mentre il Sud s’affida sempre di più ai circuiti del malaffare controllati dalla criminalità organizzata, in un perfido gioco del “tanto peggio, tanto meglio.”
Sgombriamo anche il campo da salvezze “federali”, poiché uno spostamento di ricchezza del 10% circa, dal Sud verso il Nord (conforme al PIL delle varie aree), non sarebbe tollerabile e scatenerebbe scenari balcanici. Questi non sono “miraggi” agostani: quando il sen. Miglio prefigurò una soluzione del genere, gli fu risposto che “l’esercito italiano è composto in larga parte da meridionali”. Perciò, la Lega s’accontenterà del solito piatto di lenticchie: ben “venduto” sui media, ovviamente.
Riflettiamo, però, che appena un anno prima della “disgrazia” che s’abbatté sui Balcani, la gente continuava a non credere possibile quello che sarebbe avvenuto: a Sarajevo e Mostar la vita procedeva come sempre, solo con sempre meno soldi in tasca. Particolare agghiacciante.

La faccia nascosta del macigno – che si guardano bene dall’evidenziare – è che la struttura politico/amministrativa italiana è fra le più costose del pianeta; se si tocca questo tasto, hanno già pronta la contromisura: “qualunquismo”.
Non è qualunquismo e nemmeno anti-politica chiedere conto dei costi di una struttura inutilmente replicata su ben cinque livelli – Stato, Regioni, Province, Comuni, Comunità Montane/Circoscrizioni – più tutti gli apparatcik collegati, i “consulenti”, i “gestori” degli enti, i propinqui, ecc: questa, signori miei, è soltanto politica. Quella vera.
Perché siamo fra i pochi ad avere un sistema bicamerale? Non ce l’hanno la Francia, la Spagna e la Germania. Ce l’hanno Gran Bretagna, USA e Russia, ma con altri numeri, compensi e finalità rispetto alla perfetta duplicazione dei compiti del Parlamento italiano. Non potrebbe bastare la sola Camera?
Abbiamo poi 20 “parlamentini” regionali e circa 110 provinciali: quanto costano? Qui, le cifre sono difficili da valutare: sono molto bravi a stendere bilanci, soprattutto se ricchi di “pieghe”.
I “parlamentari” regionali hanno stipendi di poco inferiori a quelli nazionali, ma sono almeno un altro migliaio. Quelli provinciali guadagnano un po’ di meno, ma sono ancor più. Cosa ci danno in cambio, di reale, Regioni e Province? E’ migliorata o peggiorata la situazione con la riforma regionale del 1970?
Esistono oramai Comuni con 200 o meno abitanti, ma anche i comuni sotto i 2000 abitanti hanno poco senso: non sarebbe meglio accorpare queste realtà per dotarle di una struttura più “esile”, e di maggiori mezzi per le esigenze della popolazione?
Qui, bisogna fare un distinguo.

La rabbia, contro l’incongruità dell’apparato amministrativo, finisce spesso per accomunare dipendenti e politici: è pur vero che esistono sacche di nepotismo, ma è altrettanto vero che negli uffici giudiziari e negli ospedali c’è scarsità di personale. E chi ha gonfiato a dismisura gli apparati amministrativi, a scapito di quelli tecnico/operativi? Sempre loro, che dovevano piazzare qualcuno in cambio del voto: si vedano, ad esempio, i “cognomi” dei dipendenti RAI. Adesso, ai loro accoliti, regalano anche 5 anni di prepensionamento.

Non serve sparare nel mucchio, come fa Brunetta, per mera audience (non è un mistero che si tratta oramai di una guerra aperta contro Tremonti, per soffiargli domani il posto): se si vuole iniziare a risistemare l’apparato dello Stato e delle autonomie locali, è da loro che bisogna partire, non dai bidelli o dagli uscieri.
Aggiungendo al danno la beffa di definire “fannulloni” persone che lavorano, mica fancazzisti come loro.
Se le sole comunità montane costano – un semplice calcolo effettuato sulle imposte che le finanziano, ossia quelle sull’acqua potabile – all’incirca 200-300 milioni di euro l’anno, a quanto ammonta il “prelievo” di grandi enti come le Regioni? Miliardi di euro l’anno?
Per la sola sanità “regionale” si stimano circa 100 miliardi di euro: se è credibile (e molte, recenti inchieste lo confermano) il noto “teorema di Craxi” – ovvero il 30% in tangenti – a quanto ammonta il fiume carsico che inghiottono? Vogliamo ricordare gli strapuntini colmi di lingotti d’oro – frutto di tangenti – trovati a casa di Duilio Poggiolini, direttore generale del servizio farmaceutico nazionale del Ministero della Sanità?
Poi, attenzione, si “fanno le unghie” con le riforme pensionistiche che risparmiano un miliardo l’anno, strombazzando ai quattro venti la non “ineludibilità” dei provvedimenti – con il risultato di mantenere i vecchietti al lavoro ed i giovani a casa – ma nessuno ricorda che si tratta pressappoco della cifra che ogni anno elargiscono alla stampa, da loro sovvenzionata e controllata.

E’ inutile continuare a fare mille ipotesi sulla “specificità” italiana, sul perché abbiamo un debito pubblico colossale: ci saranno pure le truffe sulla moneta, ma senza una cura da cavallo – questa volta per lor signori – non se ne esce.
Dobbiamo smetterla di litigare come i polli di Renzo fra chi dispone di 1000 e chi di 2000 euro, per scatenare inutili rabbie che sollazzano lor signori, i quali se la ridono di noi che litighiamo e ci tosano ancor più: dobbiamo tornare a scoprire i nostri legami comunitari, ed affermare che non si può campare con meno di 2000 euro a famiglia. Se c’è da dimagrire, che dimagriscano loro.

C’è poco da sperare anche dalla cosiddetta “economia reale”, poiché abbiamo già perso chimica ed elettronica (Gardini e De Benedetti) e, con la vendita di STET (controllata Telecom, Tronchetti Provera) a Lehman Brother, siamo fuori anche dal settore dei satelliti commerciali quando, agli albori di quel mondo, l’Italia era dietro solo ad USA ed URSS: oggi, hanno satelliti commerciali quasi tutti, Egitto e Turchia compresi[1].
Nel settore delle nuove tecnologie energetiche non siamo mai entrati: ci dilettiamo con l’antiquariato e le cavolate che spara Scajola, ovvero le centrali nucleari.
Il calo della produzione industriale del 4,4% su base annua, e la crescita zero del recente trimestre, confermano in pieno la crisi: produciamo sempre di meno beni innovativi, richiesti sui mercati internazionali.
Qualcuno non scambi il dato per una auspicabile decrescita: siamo semplicemente un Paese che si sta fermando, senza menti pensanti in cabina di regia. Non un treno che decide, scientemente, di rallentare per viaggiar meglio, bensì un convoglio che s’arresta in piena campagna.
Fuori da tutti i settori tecnologici che contano, con la ricerca dimenticata – ricordiamo la penosa nomina come sottosegretario (non bastava la “ragazzina” Gelmini) di un certo Pizza all’Istruzione, Università e Ricerca, ossia di un uomo che ha avuto il solo merito di mettere nel cassetto il simbolo della DC e di regalarlo a Berlusconi – non ci rimarrà che far concorrenza al Bangladesh sui beni di “largo consumo”. Una battaglia persa in partenza: ci consoleremo con ‘sta “Pizza”.

A Settembre, apriremo gli occhi su una nuova realtà: iniziamo a considerare tassi d’inflazione superiori al 5% e governi che, non potendo negare le oligarchie, dovranno ulteriormente tagliare servizi e stipendi, oppure aumentare la pressione fiscale. Di là delle opportunità di facciata, perseguiranno entrambe le vie, +/- L che siano, ma s’inizierà ad incidere nella carne, non sulla pelle: l’Argentina è vicina.
Noi – di là delle opportunità di facciata – dovremo tirare ancor più la cinghia: +/- un altro buco, fin quando non decideremo di spararli tutti su Marte (tanto, c’è acqua, afferma la NASA!) con un calcio ben assestato.
Alternative, non ne esistono: o iniziamo a riflettere sul come organizzarci – smettendo le inutili gazzarre che ci oppongono strumentalmente gli uni agli altri – oppure un futuro da “cartoneros” attende i nostri figli.

[1] Fonte: Repubblica, 30 Luglio 2008.