30 settembre 2008

Un po’ di dignità, per Dio!

Mentre tutto il pianeta sta con il fiato sospeso per sapere se gli USA si trasformeranno nella URSA (Unione delle Repubbliche Socialiste Americane), ossia se verranno cacciati nel didietro degli americani 1.000 miliardi di dollari, le “perdite” delle banche americane e dei giochetti dei broker, si fa viva Infostrada/Wind.
Non compare nel fantasmagorico mondo delle animazioni tridimensionali, non ci sono la solita cosciotta nuda e le inflazionate tette al vento ad accompagnarla: si presenta in modo tradizionale, quasi in doppiopetto. Dalla normalissima buca delle lettere.
Lo fa per ricordarmi che devo loro 24,60 euro. Per il periodo 11/7-19/9 del 2008.
Ma, già nello scorso Marzo, avevo inviato disdetta del contratto con lettera raccomandata, sotto dettatura di una gentile vocina di un call centre, nella quale chiedevo la rescissione.
Errore di forma, non avevo indicato chiaramente “anche i servizi Internet”. Provo ad argomentare che l’errore di forma è stato loro, ma non c’è niente da fare.
La rabbia rode, ma facciamo finta che abbiano ragione. La prima volta pago e riscrivo il 9/6/2008:

“…chiedo che siano disattivati tutti i servizi (telefonia ed Internet) che Wind Telecomunicazioni s.p.a. mi ha fornito e fornisce, compreso Internet, abbonamenti vari, ecc. per il numero telefonico 0174/xxxxxxx. In altre parole: tutto.”

Adesso, dopo la raccomandata con ricevuta di ritorno, sembra che sia tutto a posto.
No, non è cambiato nulla: per loro, sei un clientes ad libitum, perpetuo, legato al carro per sempre. Paga 24,60 euro fino al giorno del Giudizio, e taci. Anche se hai dato disdetta un mese prima del periodo in oggetto!

Inutile parlare con i poveri ragazzi del call centre: «Ci auguriamo che riesca a risolvere i suoi problemi…»
Poveracci: li pagano un tanto a contratto – credete che non lo sappiamo? – e se ne “staccano” uno chissà cosa rischiano. Di stare in ginocchio sui ceci per sei mesi?
Negli uffici legali, invece, giovani avvocati con il sangue mescolato al veleno di vipera (probabilmente pagati un po’ di più dei loro colleghi dei call centre), s’inventano arzigogoli giuridici per incastrare la gente. Pecore da tosare, in barba al Diritto Romano ed all’Habeas Corpus.

Così, squallidi personaggi che copriranno con i loro visi “alla lampada” i rotocalchi, s’arricchiranno senza disturbo, senza nemmeno averne sentore. Ci pensa la gerarchia.
24 euro a me, 20 a te, 50 all’altro: che si chiamino Infostrada, Telecom, Tele2, Wind o chissà chi altro, se ne strabattono delle comuni regole del commercio. Ogni tanto pagano qualche misera multa all’Antitrust od all’Autorità per le Comunicazioni, ma sono quisquilie rispetto a quello che riescono a carpirci.

Sono gli stessi che il potere “richiama all’ordine” quando c’è da risolvere un problemucolo da nulla come Alitalia: gente! – tuonano dall’Empireo romano – vi concediamo ogni sorta di prebenda da riscuotere, vi lasciamo liberi di tosare gli italiani come meglio ritenete, vi diamo licenza d’interpretare le norme valicando le norme stesse. Ora, serrate i ranghi della centuria e portate il vostro obolo al signore, al Chigi del nostro tempo.
Ordinati, si mettono in fila – anzi, in cordata! – per eseguire gli ordini del signore di Nottingham. Che, per prenderci per i fondelli, emana decreti a nome di Robin Hood! In cambio, completa libertà di saccheggiare le campagne: un film già visto.
Oh, intendiamoci, per realizzare lo stesso piano “salvifico” di Bush: la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite, Alitalia o Lehman, poco cambia. I soldi li prendono a noi: anzi, siccome violano la legge, li rapinano.

E che dovremmo dire, allora, delle autostrade “private” e sempre più scassate, nelle quali il tributo si paga in egual modo, anche se su 200 km di percorso si viaggia per 50 km su un’unica corsia? A nessuno viene in mente che il servizio viene pagato – se è un servizio privato! – per l’intero percorso? E, quando, ci facessero percorrere 150 km ad una sola corsia? Oppure, l’incubo della tangenziale di Mestre, è una nostra fantasia?
Poi, i treni “fucilati” sul campo: “Si avvertono i passeggeri che il treno 1717 è stato soppresso. I viaggiatori potranno…”. Potranno attaccarsi al tram, se c’è. Perché il treno è stato soppresso, fucilato, impiccato: come Saddam.
Chi se ne frega dei lavoratori che torneranno a notte fonda, degli studenti che telefoneranno «Mamma, vieni a prendermi: hanno soppresso il treno…» Tutto normale: soppresso. Come un cane in fin di vita.
Se arriverete a casa a notte fonda, in ogni modo, potrete sempre seguire la puntata numero 9734 del processo di Cogne. Va in onda nell’Alveare 1.

Ora, tiriamo un po’ le somme: non sono certo ricco, ma 24 euro sono ancora alla portata del mio budget familiare.
Penso invece ai pensionati a 700 euro il mese (che sono i più a cascare in queste vere e proprie truffe legalizzate), ai disoccupati (+ 300.000 in un anno!), ai tanti lavoratori interinali che non sanno se il mese prossimo avranno ancora di che vivere. Ma anche agli operai che guadagnano 1.000 euro il mese, ai precari, agli stessi ragazzi dei call centre, che fanno un lavoro infame per 500 euro il mese.
Per molte di queste persone, 24 euro sono già un problema: non saranno la fame ma, la rinuncia ad una misera pizza con gli amici, sì. Lor signori, imperterriti, tosano tutti.

La gente di Chiaiano lotta ed affronta la militarizzazione “sudamericana” del suo territorio, per non far morire di cancro i suoi figli, quella di Vicenza si ribella all’imposizione – da parte di uno Stato estero che non ha manco più i soldi per mettersi le pezze al sedere – di una cementificazione selvaggia, per fare dei loro prati un nuovo strumento di morte da esportare nel pianeta.

I nostri politici – servili, collusi, corrotti, incapaci, imbelli, incompetenti – si piegano oramai a tutto e mostrano d’avere, al posto della colonna vertebrale, una lisca d’acciuga. Il Presidente, il Presidente… il Presidente tace: manco, più, “fuma la pipa”.
Potremo andare avanti a postare commenti qui a là, a “quotare” oppure no un articolo: l’unica risposa sarebbe creare una nuova formazione politica partendo da noi, dalle tanta persone che ancora sanno usare il cervello. Cosa facile a dirsi, un po’ meno a farsi, perché sarebbe proprio una traversata del deserto.
Possiamo postare commenti al vetriolo sul blog di Grillo – non m’interessa sapere chi è veramente Grillo e tutte le dietrologie che si trascina sul groppone – ma, alla fine, non sortiremo nessun effetto.

Allora, iniziamo da quel che abbiamo: il Web. E non si venga a dire che bloccheranno anche quello: non possono, perché l’economia, oggi, non può fare a meno di Internet.
In tempi lontani, avrebbero preferito sopprimere la stampa, ma non ci riuscirono. Galileo, per chi ricorda un po’ di Storia, chinò la testa ma inviò i suoi manoscritti ad Amsterdam per la pubblicazione, nelle Zeven Provinzen. “Libere” Province.

Abbiamo solo il Web? E, allora, per Dio: usiamolo!
Se abbiamo ancora un cuore, se abbiamo ancora dignità di noi stessi e ci riconosciamo nel tanto dolore degli altri, degli italiani che non trovano più voce, gridiamolo! Non precipitiamo noi stessi nel silenzio, non chiudiamoci nella viltà degli ignavi!
Gridiamo loro in faccia che c’è gente la quale non ha ancora perduto del tutto il cervello, che sa riconoscere una truffa: non tutti gli italiani sono fuggiti all’Isola dei Penosi!
Io, invierò lettera raccomandata a chi di dovere, ma facciamolo in tanti con un semplice gesto: per la nostra, residua dignità, per quella dei pensionati al minimo, per gli stessi lavoratori dei call centre, schiavi senza memoria, vocine vuote, paraventi – loro malgrado – di questo potere corrotto, del più basso impero che si possa immaginare. E tocca loro farlo per 500 euro il mese.

Chi desidera far sapere a lor signori che ci truffano a centinaia di migliaia, può inviare questo articolo alle due caselle di posta elettronica sotto indicate. Tanto per far loro capire che esistiamo ancora.
La procedura è questa:
Dal menu File di Explorer (se usata un altro browser ci sarà una procedura analoga), scegliete Invia, Pagina per Posta Elettronica, poi copiate la prima casella postale nella casella A: ed inviatelo. Ripetete l’operazione, se volete, con la seconda.
PS: intasate le loro caselle, non la mia!

Autorità per le Telecomunicazioni: info@agcom.it
Ministero delle Comunicazioni – Ufficio relazioni con il pubblico (c'è solo un sottosegretario con delega, non contiamo niente): urpcom@comunicazioni.it

23 settembre 2008

Il crepuscolo degli Dei

“…e gli uomini…
col sangue dei concittadini ingrossano le proprie sostanze
e avidi raddoppiano le ricchezze, accumulando strage su strage;
crudeli si rallegrano del triste funerale di un fratello…”

Lucrezio Caro, De rerum natura, Libro Terzo.

Che il vento stesse per cambiare, me lo raccontò il vento stesso: iniziò a spirare da Tramontana, freddo, tagliente, come per annunciare che il tempo dell’espiazione stava giungendo.
Sono pochi chilometri da casa a scuola, venti minuti di strada, ed è il momento della giornata nel quale i pensieri m’assalgono a frotte, mi subissano, disordinati.
Perché mai il vento sussurra ch’è tempo d’espiare?
Quando la barriera razionale nella mente pare insuperabile, meglio affidarsi alle parole, poiché le parole non sono soltanto pietre: sono anche petali, senza i quali non si giunge a racchiudere nessun fiore.
Potremmo nutrirci con il termine israelita salakh, ma dovremmo associargli – allora – il peccato: vale la pena, in una mattina di fine estate, d’impegolarsi con secoli di filosofia scolastica?
No, meglio lasciare Yom Kippur – con il suo bagaglio di terrori ed ossequi per un Dio patrigno – ed abbeverarci alla fonte greco-romana, laddove l’espiazione non era un processo penitente, bensì un atto positivo, per ingraziarsi una divinità e portarla al nostro fianco. In sostanza: non chiedere perdono, bensì aiuto, benevolenza.
E perché mai dovremmo farlo? A dire il vero non lo so con precisione: me lo ha sussurrato il vento e basta, proprio mentre aprivo la portiera dell’auto. Come la piuma di Forrest Gump.

La prima persona che incontro, nel tragitto, è un attacchino che gratta con il raschietto un manifesto pubblicitario: l’icona di una potente catena distributiva se ne va, scivola lentamente nel secchio dove galleggiano motti di carta, sopra l’acqua sporca di colla e solventi.
Sic transit gloria mundi…no, troppo semplice…però, il manifestarsi degli eventi non può trascendere i sensi…e l’impressione che ho colto è stata proprio quella dell’annullamento, dell’inarrestabile lisi.
Basta, Bertani, piantala con queste elucubrazioni da scemo: a quel messaggio se ne sostituirà un altro, l’attacchino tornerà con nuova carta, altra colla, e così per sempre, nei secoli dei secoli. A dire il vero, “in saecula saeculorum”, riferito al business pubblicitario, mi fa sorridere, ma c’è una rotonda da doppiare e devo stare attento a non sbattere. Istanti, altro che secoli.
In fin dei conti è solo economia: l’economia sancisce l’ascesa e la caduta di quei rettangoli di carta sulle piattaforme di metallo, e l’attacchino esegue e basta. Fine.

Già, ma il termine “economia” significava originariamente “conduzione della casa” e, se l’economia diventa un fatto planetario, essa assume il significato (per ora, solo etimologico) di “conduzione del pianeta”.
Fin troppo facile conclusione: per come lo stiamo “conducendo”…
La seconda, ed ultima icona che osservo prima di giungere a scuola, è il prato dell’antica tenuta che confina con l’altrettanto antico liceo: diligentemente, ai primi sentori d’Autunno, un contadino ha collocato, ad intervalli regolari, mucchi di letame per concimare il prato. Ovvio, terminata la fienagione, è tempo di preparare la terra per una nuova stagione di raccolti. In saecula saeculorum.
Ciascuno partecipa come può e come deve: Brahma, Vishnu e Shiva s’infondono nell’attacchino che incolla, controlla e poi stacca i manifesti. O nel contadino che concima, accarezza l’erba con il rastrello ed infine la falcia. Tutto ha un senso, economico.

Giunto a scuola, precipito nei riti d’inizio anno: dai giovani da conoscere ai “vecchi”, che ti vorrebbero far sentire giovane come loro e, invece, ti ricordano solo il peso di una nuova Primavera sulle spalle.
Ho però un’ora libera (evento oramai raro…) e leggo il giornale sul Web.
Credevo che la notizia di testa fosse Alitalia, che è invece scesa nella classifica: in alto, c’è la novità che Lehman Brothers è fallita. Mi chiedo cosa possa significare.
Si tratta di una banca: una banca che fallisce, vuol dire che non ha più soldi, altrimenti non fallirebbe. Lo raccontava già Mary Poppins…

La banca Lehman Brothers ha “bruciato in Borsa” 900 miliardi di dollari (Repubblica, 15/9/08): sembra una quantità impressionante di beni, se corrispondessero a qualcosa. 900 miliardi di dollari corrispondono, all’incirca, a 45 milioni d’autovetture di media cilindrata, a 900 milioni di computer, a 3 miliardi di sacchi di patate da un quintale.
Da oggi in avanti, “mancheranno” beni corrispondenti al mercato europeo dell’auto, a quello USA dei PC, a decine di navi cariche di patate?
Non sono un economista – e, per cos’è diventata l’economia, ringrazio il Cielo di non esserlo – ma non penso che, da oggi in poi, non ci saranno più auto in Europa e computer negli USA, ed ho anche la ragionevole speranza di non dovermi privare, dopodomani, delle amate patatine fritte.
Semplicemente perché, un contadino che ben conosco, continuerà a seminarle ed a rifornire il negozio sotto casa.

Poi, c’è la vicenda Alitalia. Ma, Alitalia – se non sbaglio – non è quella “cosa” composta da aerei, piloti, hostess e personale di terra che porta la gente a spasso per il cielo? Se, poniamo, domani o fra cinque anni, Alitalia si dovesse chiamare Alinostra, Alipizza od Alicozza, se avesse gli stessi dipendenti ed aerei e continuasse a fare il suo mestiere, non sarebbe la stessa cosa?
Ora, qualcuno più “furbetto” dirà che manca il piano industriale, ci sono i debiti, eccetera eccetera…
Qualunque sia il futuro dell’universale imputato oggi come “Alitalia”, scommettiamo che – dopodomani, oppure il mese prossimo – ci sarà gente che rileverà quegli aerei, farà nuovi contratti con il personale e porterà gli italiani in cielo? Chiariamo: è una scommessa da bar, mica roba seria, da Lehman Brothers.
In realtà, il problema non è il destino di Alitalia, ma solo del piatto di poker che i “cordatari” hanno deciso di giocare. Sulle spalle dei lavoratori? E dai, non fare il menagramo…chi se ne frega di quelli…rilancio di 20 milioni…

Il dilemma, cui pochi sembrano interessarsi perché siamo oramai subissati di cattiva informazione, è che un conto è l’economia reale, un altro quella virtuale. Le quali sono, attualmente, in rotta di collisione.
In lontani tempi storici, vi furono avvenimenti almeno un poco paragonabili, ma l’oggi è qualcosa di veramente diverso e nuovo: non dal punto di vista concettuale, bensì per le forze dei numeri in gioco.
I Romani, imposero all’Egitto la canalizzazione delle acque e di smetterla con il tradizionale allagamento che il Nilo operava sulla pianura egiziana: fu una presa di posizione ideologica e dogmatica, ed il crollo della produzione di cereali in Egitto fu uno dei prodromi della successiva caduta di Roma. Siamo però, ancora, nel mondo reale: meno navi di grano per Roma, meno legioni in giro per l’Europa.

Un altro esempio fu l’immissione dell’oro americano in Europa nel XVI secolo, che causò il primo “terremoto” nel prezzo delle derrate alimentari: le conseguenze furono forse (storicamente) meno traumatiche, ma si protrassero per molto tempo, e fu probabilmente il primo “campanello” d’allarme.
In sostanza: quando s’interviene con mezzi finanziari e monetari, non sono le perdite od i guadagni finanziari ad essere “interiorizzati” nella storia del pianeta, ma solo i riflessi sull’economia reale. I “grandi”, sembrano non imparare nulla dagli errori del passato: solo quando una devastante guerra od una carestia li obbliga – timorosi dei forconi dietro la porta dei poveracci – a prenderne coscienza della realtà, abbandonano per un istante i loro giochetti. Pronti, però, a riprenderli alla minima disattenzione del popolino: pronti a fare “orecchie da mercante”, appunto.

Cosa rappresentano, allora, quei 900 miliardi di dollari “lasciati sul terreno” da Lehman Brothers?
E’ bene dire “lasciati sul terreno” poiché – non trattandosi ovviamente del terreno di una battaglia – si tratta di un terreno di gioco. Una confraternita di banchieri e di loro lacché – i broker – decisero d’iniziare a giocare una partita a Monopoli, oppure – se preferite – come Robin Williams aprirono il più pericoloso Jumanji, e lanciarono i dadi. Dopo, non ci si può più ritirare.
Le regole del gioco sono complesse e variano continuamente, ma è soltanto un gioco: ci sono autorevoli esperti, sul Web, che lo spiegano compiutamente.
In sintesi, i giocatori che siedono al tavolo iniziano una catena di scommesse su tutto, dall’estrazione di petrolio al consumo di preservativi. Poi, assegnano un valore ad una scommessa e la rivendono ad altri – se si correrà di meno in macchina o si scoperà di più, oppure se si scoperà in macchina (nel caso, un mercato “incrociato”, più scommesse!) – scommettendo che il valore di quella scommessa lieviterà fra sei mesi, e via con la catena delle scommesse e dei cosiddetti “derivati”, o scommesse sulle scommesse delle scommesse.
Non si tratta, ovviamente, di una cosa seria: quando mai, il Totocalcio è stato ritenuto un fondamentale dell’economia? E’ solo una scommessa…un piccolo divertimento del sabato…

Tutto questo frullar per l’aria di timori, catastrofi imminenti, cassandre ed ottimisti – da quelli che considerano il pianeta oramai definitivamente fottuto a causa di Lehman Brothers e compagnia varia, a coloro i quali tranquillizzano, affermando che l’Europa è protetta da un preservativo di bronzo contro le avventure americane – nasconde e quasi mai affronta i problemi dell’economia reale.
Ad esempio, nessuno – di qua e di là dell’Atlantico – ha preso in seria considerazione gli effetti della produzione di biocarburanti.

I calcoli eseguiti dall’Università di Berkeley (Altieri) mostrano una realtà desolante: mettendo a coltura tutti i terreni coltivabili a soia e granturco degli USA, si giungerebbe a soddisfare l’attuale richiesta statunitense per il solo 12% della benzina e del 6% per il gasolio. Trasformando l’intero consumo di cereali europeo (e, dopo, cosa mangeremmo?), giungeremmo pressappoco a soddisfare la metà del fabbisogno energetico per autotrazione (Coldiretti). Nonostante gli avvertimenti di serissimi istituti, la “bufala” dei biocarburanti deve proseguire, giacché alcuni grandi petrolieri, uniti a potenti lobby agrarie ed ai produttori di sementi OGM, hanno decretato che domani si dovranno chiamare “bio-petrolieri”. “Fa fine”, e nuovi guadagni, sui quali intessere nuove scommesse.

Conosciamo da tempo la motivazione di queste scelte: trattandosi di un pianeta con dimensioni finite, le quantità prodotte sarebbero finite, come per gli idrocarburi, e quindi ci sarebbe un mercato finito sul quale giocare, per poi scommettere sulla scommessa…
Sull’infinito delle energie rinnovabili, chi potrebbe scommettere qualcosa?
Eppure, la perversa meretrice dei biocarburanti ha causato effetti nell’economia reale ben più gravi di cosa potranno combinare quattro miliardari che scommettono se, domani, avranno un miliardo in più od in meno.
Quanti poveracci sono già morti, o moriranno a breve, per l’aumento dei prezzi dei cereali? 75 milioni in più dello scorso anno (FAO, 17/9/2008), testimoniano che siamo diventati bravissimi nel prevedere addirittura quanti moriranno di fame nel breve, medio e lungo periodo. Chi va in giro per hard discount, avrà notato che, anche qui da noi, i pensionati a “pane e latte” non stanno tanto bene.
Ovviamente, qualche pretoriano statunitense della Lehman Brothers – un povero broker – tirerà fuori dal cassetto la Smith & Wesson, la accarezzerà, bacerà la foto con la moglie ed i figli e si sparerà un colpo alla tempia, per incassare per tempo il premio dell’assicurazione sulla vita. Per loro, non è Monopoli: è Jumanji.

D’altro canto, anche i pretoriani di Roma morirono a causa delle mancate inondazioni del Nilo, ma gli antichi erano più attenti nell’osservare la natura, i suoi cicli, le sue bizzarrie, i pericoli.
Avevano l’ossessione di conoscerla per comprenderla – pensiamo (soltanto) al De Rerum Natura di Lucrezio Caro ed ai mille commentari che ne sono discesi – e, quando decidevano di giocare d’azzardo, lo facevano allegramente alle terme, mica pretendevano di governare l’impero con un lancio di dadi!
I cinesi, a loro volta, furono i più raffinati scrutatori del cielo e redassero il più antico compendio – tuttora molto consultato – che cerca d’interpretare la natura mediante il calcolo binario, ossia l’I Ching.
Di là degli aspetti divinatori, la raffinatezza di un testo come l’I Ching ci pone di fronte ad una riflessione metodologica: quanto può essere benefico, per l’uomo, comprendere la natura nel suo sfaccettato mutare, oppure chiudersi in un microcosmo al trentesimo piano di un grattacielo, cercando d’interpretare – e di piegare! – la natura per delle semplici scommesse?
Inoltre, snobbare l’essenza della natura, ci conduce a non comprenderne i fondamentali aspetti ciclici: tutto, in natura, ha una fine ed un inizio. Ma, la fine, è un nuovo inizio, ed allora non c’è più nascita e morte, ma solo ri-nascita e ri-morte.
Come agiamo, invece, noi – esseri intrisi di certezze intonse – che non osserviamo più niente e pontifichiamo? Sotterriamo rifiuti, celandoli alla vista, e crediamo così che la nostra azione li sottragga al volgere naturale degli eventi. Solo dopo aver trovato diossina nelle mozzarelle ci domandiamo qualcosa, ma la domanda è spesso retorica, perché immediatamente ricoperta da una rinnovata glassa di certezze, sbobinate all’istante dal funambolico clown dell’informazione.
Possiamo dunque affermare, così come per la merda nascosta e dunque per noi inesistente, che il denaro possa impennarsi in un pazzo salire al cielo, per riflettersi in dorati echi di cornucopie, fino a divenire un’iperbole senza limiti? Dalla quale ricavare ricchezza infinita per sempre, per eoni, per interi universi?
Tutto ciò, per dirla in termini giudaico-cristiani, è “privo di peccato”?

Ciò che il vento tentava di narrarmi – il bisogno di un’espiazione – sorge forse dalla violenza che operiamo sulla natura e su noi stessi, perché abbiamo ridotto le nostre attività di creazione a lavoro parcellizzato e spersonalizzante. Per reggere questa primitiva violenza, siamo dovuti ricorrere ad una seconda mistificazione: “aggiustare” una serie di mediocri principi per costruire intorno ad essi una inconcludente teoria del valore, delle monete e delle merci, la quale ci ha condotti a considerare creazione di ricchezza una semplice serie di scommesse. Una partita ai dadi, un tempo semplice divertimento, ha rubato il proscenio alla riflessione analitica, ipnotizzando le platee con un perfido inganno.

Oggi, lo scenario tecnologico è rapidamente mutato e, per la prima volta nella nostra Storia, non siamo soltanto in grado d’assegnare a muscoli meccanici le attività più faticose, bensì possiamo anche contare su affidabili sistemi d’intelligenza artificiale.
Una nuova alba potrebbe quindi apparire all’orizzonte dell’umanità, ma si frappone ad un futuro – che potrebbe essere senz’altro migliore – la mistificazione, e finiamo sempre nei trabocchetti senza ritorno, negli angoli più oscuri di un orizzonte evanescente.
E’ possibile trovare soluzioni? Una nuova teoria del valore e, di conseguenza, forme di lavoro più appaganti e, soprattutto, più elastiche e meno affaticanti?
Non si tratta certo di un percorso facile: per questa ragione, ho introdotto la trattazione iniziando dal tema dell’espiazione. Senza rimuovere prima le macerie, è impossibile ricostruire.

Non saranno certo queste poche righe a modificare il maleodorante scenario che c’accompagna: è però altrettanto vero – per l’infallibile interdipendenza dei fenomeni – che qualsiasi azione (karman) gettata nell’evolversi degli eventi è destinata a modificare l’orizzonte degli stessi, ovvero la catena di cause ed effetti che ne discendono. Impercettibilmente, ma inesorabilmente.
Immaginiamo, per pochi attimi, d’aver espiato questo tempo della cancrena e dell’inganno – nel positivo approccio greco/romano, non come inconcludente “mea culpa” – ed osserviamo se possiamo almeno porre limitate basi.

Anzitutto, è del tutto evidente che una nuova teoria del valore deve tornare ad assegnare alle monete un valore che sia quanto meno coerente con la realtà: l’oro è oramai improponibile, le conchiglie nemmeno.
Il gruppo “Etleboro” – che già si occupò di questi problemi – ritiene che si potrebbe assegnare ad una futura moneta un valore reale, calcolato sulla base della ricchezza effettivamente prodotta in un’ora di lavoro da un lavoratore medio.
Il tentativo è lodevole, saltano però agli occhi alcune difficoltà che sembrano difficilmente superabili: “ricchezza” può dar adito a diverse interpretazioni, mentre “lavoratore” (per di più, “medio”…) sembra un universale troppo ampio, e quindi di laboriosa definizione.

Un secondo approccio potrebbe nascere dalle necessità primarie dell’uomo: la prima, è nutrirsi.
Una nuova moneta, potrebbe essere valutata partendo dall’alimento base prevalente nell’alimentazione umana, ossia i cereali (ovviamente, “depurati” dalla “bestemmia” di trasformarli in energia): una media fra i valori dei principali cereali, potrebbe condurre – questo vuol essere solo un semplice esempio – ad assegnare ad un ipotetico “Grano” il valore di un kg di frumento, oppure di 800 grammi di riso, orzo, sorgo, mais…utilizzando fattori di conversione su base scientifica, tratti dal potere nutrizionale, ecc.
Ovviamente, non si tratterebbe di un valore stabilissimo, poiché differenti annate agricole provocano diversi raccolti, ma – se consideriamo almeno il medio periodo – la produzione cerealicola è abbastanza costante, con un trend in leggera crescita, progressivo da molti anni.
Sarebbe una moneta forse un po’ “naif” – e vedo già qualcuno storcere il naso – ma il suo valore sarebbe ancorato a qualcosa di tangibile, reale e diffuso: non come l’oro che è raro, e dunque catalizzatore dei monopoli. Meno che mai, l’assurda credenza (dopo la fine di Bretton Wood) che il “metro” con il quale misuriamo gli scambi economici possa essere oggetto – anch’esso! – di scommesse. Scommettiamo che il metro di platino di Sèvres è più lungo di due centimetri? Che la mia bilancia, domani, peserà due etti in più della tua? Un po’ di serietà.

L’aumento costante della produzione cerealicola, che avviene da parecchi decenni, per mantenersi avrebbe bisogno di due presupposti: il primo, già citato, è la preclusione alla conversione energetica delle derrate alimentari. Il secondo – meno dibattuto – è la riconversione alle energie rinnovabili poiché, senza nuovi carburanti in grado di muovere le macchine agricole del futuro, non sarà possibile – quando il petrolio scarseggerà – mantenere l’attuale produttività in campo agricolo.
Inoltre, la variazione della massa monetaria, corrisponderebbe esattamente alla quantità del bene primario necessario alla sopravvivenza: non è certo la perfezione, ma è già qualcosa.
Può apparire una soluzione puerile, ma sarebbe una moneta più stabile (nonostante le variazioni della produttività agricola) di tutto il bailamme che ci ammansiscono come un compendio di “cose” e “valori” “stabili ed incontrovertibili”. Cosa c’è di più “serio”, fra un campo di frumento che occhieggia al sole ed una banca che vive di scommesse?

Se volessimo strafare, ossia compiere un volo pindarico, potremmo ipotizzare che l’aumento costante di produttività, generato dall’incremento tecnologico, vada a costituire parte del fondo per un reddito di cittadinanza, affidando la quantità di sopravvivenza di “Grano” a chi non desidera lavorare. Una seconda, importantissima fonte per redditi di cittadinanza, sarebbe lo smantellamento dell’inutile apparato di controllo burocratico: oggi, costa di più controllare se hai diritto ad un servizio piuttosto che fornire il servizio stesso. Mi viene alla mente quante persone devo interpellare – le quali devono a loro volta controllare! – per ottenere un’ecografia quando, l’atto in sé, si risolve in una decina di minuti.
La via verso il reddito di cittadinanza trova subito un ostacolo nel pensiero: oh, mio Dio, e tutta questa gente che non lavorerà più, chi la manterrà?

La perversione degli “scommettitori” istituzionali è accompagnata – grazie alla quisquilia che “occupano” le istituzioni ed i media – dal messaggio, palese o subliminale, che l’uomo sia un animale perverso, incapace d’evolvere le sue pulsioni in attività creative.
La Storia, c’insegna invece che gran parte del sapere (e dunque della conoscenza, della competenza, della tecnologia…) è stato conquistato da persone che non avevano nessun legame economico o finanziario con le attività che svolgevano: o erano benestanti perché nobili, oppure erano sorretti da qualche mecenate. Due esempi: Volta ed Edison.
L’inversione, catastrofica, avvenne intorno al 1930 quando – per la prima volta nella storia dell’umanità (J.D. Bernal, Storia della scienza) – gli investimenti per la ricerca militare superarono quelli per la ricerca civile: fu l’effetto del riarmo americano, tedesco, britannico, ecc.
Durante la guerra fredda, il rapporto giunse ad essere di dieci ad uno in favore delle armi, e non ci vengano a raccontare pretesi e felici “fall out” nel comparto civile, che esistono, ma sono briciole al confronto di quel che si spende per le armi.

Questo mondo oramai iper-militarizzato, ha condotto all’estinzione della figura del mecenate – sia esso un munifico protettore oppure lo Stato – prosciugando proprio le risorse per chi voleva semplicemente studiare per conoscere. E, dalla pura conoscenza, è nata l’interpretazione del mondo naturale. Sempre cicli che s’intersecano, in un solo, infinito logos.
Dimenticando il legame con il mondo naturale, non interiorizzando più i suoi messaggi, allontanando il piacere di conoscere semplicemente per curiosità, abbiamo costruito intorno a noi una gabbia nella quale, l’unico divertimento rimasto, sembra essere quello di scommettere su come si muoveranno delle montagne di biglietti di banca. Oltretutto, virtuali, poiché sono soltanto tracce elettroniche sui monitor: almeno, lo zio Paperone provava la gioia del tuffo nel famoso deposito! Noi, manco quella.
La tendenza ad ignorare il vero piacere della conoscenza – per come trattiamo la scuola appare evidente – non ci regala “tempo libero”: ci assegna solo un posto in una gabbia d’allevamento. E, tutte le istituzioni, sono lì apposta per ricordarcelo.
Possiamo trovare esempi spiccioli di questa miserrima tendenza negli impianti giuridici ed economici: la proibizione (UE) dei cosiddetti “aiuti di Stato” (e che la ricerca si fotta), oppure le potenti campagne (dis)informative attuate dalle influenti lobby dei combustibili fossili e dell’Uranio contro le energie rinnovabili. Possiamo spiegare altrimenti perché, nel Paese che ha inventato il solare termodinamico con Rubbia, non esiste una sola centrale?

Chi ha avuto la pazienza di seguirmi fino a questo punto, si chiederà quale sia la morale, la soluzione, la riscossa dopo tante chiacchiere. La risposta non può esistere, per ora, perché abbiamo scordato l’assioma di partenza: l’espiazione.
E’ già qualcosa, però, immaginare d’aver scapolato gli scogli dell’espiazione per gettare lo sguardo oltre l’ostacolo: per ora, solo per tracciare qualche timida ipotesi.
Senza le quali, però, rimarremo ancorati a cose serissime, come le scommesse delle banche, i piatti di poker chiamati Alitalia, le esternazioni senza contraddittorio di Berlusconi nell’alveare dell’Insetto, le sfiorite obiezioni di ex ministri veltroniani, le fiorettiste che affermano di “lasciarsi toccare”, le ministre che, invece…

A scelta: io, preferisco oramai ascoltare le rime del vento. Lui, non annoia mai.

18 settembre 2008

Duro scontro con la realtà

La vicenda di Alitalia ci porta a fare non una, bensì una serie di considerazioni che s’incrociano e s’accavallano, e si può quindi partire da uno dei tanti bandoli della matassa.
La prima considerazione è che la compagnia italiana, sola soletta in un pianeta dove le compagnie annaspano sempre di più, non aveva e non avrebbe avuto nessun futuro, CAI o non CAI. Se grandi compagnie come Lufthansa od Air France si fondono con altre, una ragione ci sarà pure.
Ad essere sinceri, ci sono più aspetti che rendono grottesca la vicenda: non solo l’assurda pretesa di mantenere “nazionale” la compagnia – una scelta che sa tanto d’autarchia vecchia e datata – ma anche quella, presuntuosa, di sdoppiare gli hub (Fiumicino e Malpensa) quando si stava a malapena a galla con uno.
Le responsabilità del governo ci sono quindi tutte, per non aver saputo prevedere un finale scontato: anche la piccola “Alitalia nazionale”, che sarebbe nata, non avrebbe avuto vita facile con i colossi dell’aria europei, ed il contribuente – di riffa o di raffa – avrebbe continuato a pagarne le carenze.
Nello svolgersi della vicenda, però, abbiamo annusato più “arie”: una, che ci porta dalle parti dei 16 “capitani coraggiosi”, sapeva tanto di una rinuncia annunciata. E qui ci spieghiamo.
La lunga e sofferta odissea che ha accompagnato la nascita della cosiddetta “cordata” – quel segreto che nascondeva trattative febbrili – sembra narrare un grande impegno di Berlusconi per un successo personale nella vicenda, al quale, però, non corrispondeva pari entusiasmo.
L’aria che pareva di respirare, più di un’avventura imprenditoriale, era quella di un “debito elettorale” che andava comunque pagato al Cavaliere, ed al quale i vari soggetti – per svariati motivi che non ci verranno mai a raccontare – sembravano dovere qualcosa. Della serie: “se prendo Alitalia mi hai fatto un piacere, se invece non me la devo prendere, me ne hai fatti due”.
Ciò spiegherebbe le strane “chiusure”, gli “aut aut”, la preclusione a sigle sindacali delle quali si sapeva benissimo che controllavano la gran parte del personale specializzato (piloti, ecc). Eppure, non potevano essere così fessi da non saperlo. Credo che, dalle parti della (ex) CAI, più di una persona, stasera, abbia stappato una bottiglia di champagne.
Una speciale attenzione merita – più che i sindacati autonomi – il comportamento della CGIL. Qualcuno potrebbe notare analogie con la rottura sindacale che avvenne con il “Piano per l’Italia” del precedente governo Berlusconi: a mio avviso, la questione è più complicata, perché fra i due eventi c’è stato il famoso “scippo” del 23 Luglio 2007, precariato e pensioni, il gran regalo di Damiano & soci alla finanza ed all’imprenditoria italiana.
Ci sarà stata senz’altro aria di rivalsa contro il Cavaliere – Epifanio è legato a filo doppio con le burocrazie del PD – ma qui c’entra forse più un pizzico di realismo.
Per come s’è svolta la vicenda – quel cedimento repentino delle altre sigle confederali, l’intransigenza di SdL e della altre sigle – la CGIL ha iniziato a temere di rischiare grosso. Della serie: posso rischiare il suicidio sindacale qualche volta – nei confronti dei governi “amici” – ma, alla lunga, i COBAS e tutti gli altri finiranno per accendermi il fuoco sulla coda. E se prendesse piede una sorta di Solidarnosc italiana? Nei luoghi di lavoro, ancora si ricorda la truffa del referendum sulle pensioni, con i “bonzi” sindacali che giravano tutto il giorno a votare in più sedi, mentre nelle sedi potenzialmente “ostili” (verificato di persona nella mia scuola), non si vide uno straccio di seggio.
Un atteggiamento più rigido, quindi, serviva alla CGIL per tentare di rifarsi una verginità perduta mentre, sul fronte della CAI, era tutta manna dal cielo per poter dire a Berlusconi: «Hai visto? Ci abbiamo provato…»
Infine, i lavoratori.
Bisogna onestamente riconoscere che i lavoratori di Alitalia hanno fornito una prova di dignità che da tempo non s’osservava in una lotta sindacale, al pari dei metalmeccanici FIOM di Rinaldini.
Sull’altro piatto della bilancia, però, i dipendenti Alitalia non sono salariati agricoli o tessili: sanno di far parte di una realtà imprenditoriale che è appetita. Anche se in Europa pare regnare il silenzio, c’è senz’altro già qualcuno che beve caffé e macina conti sul computer: il mercato italiano dell’aria è pur sempre un mercato che vale.
Una lotta sindacale portata avanti con fermezza e dignità – che ha condotto alla bruciante sconfitta i “rottami” della ex “triplice” sindacale, CISL ed UIL, più i parvenu dell’UGL – ma condotta sapendo che, dopo l’uscita di scena di CAI, si farà avanti qualcun altro che, bene o male, confermerà i loro redditi.
Vedremo se, i piloti e gli assistenti di volo, sapranno usare identica “nobiltà” quando ci sarà da contrattare per la plebe, ossia per il personale di terra, per il settore cargo, la manutenzione, i precari, ecc.
Ovviamente, il nuovo potenziale acquirente estero non accetterà più di farsi carico dei debiti di Alitalia (come nella precedente trattativa con Air France), e l’asticella sarà alzata di qualche tacca, a tutto discapito del contribuente italiano, che dovrà ancora una volta farsi carico dei debiti della compagnia.
La grande sconfitta, perché un vero sconfitto c’è, riguarda il governo e soprattutto l’immagine di Berlusconi, oramai offuscata. Come è arrivato a farsi buggerare in tal modo? Una spiegazione c’è.
Dopo la vittoria elettorale, il governo ha creduto d’aver vinto il Paese al Lotto: cosa che, a dire il vero, non sembrerebbe una gran vittoria, viste le condizioni economiche italiane. Ma tant’è: chi s’accontenta gode.
L’errore malsano è stato credere – come più esponenti del governo hanno affermato – che la “luna di miele” con gli italiani fosse imperitura, giacché sorretta (ed i meno sciocchi lo sanno) dal gran battage pubblicitario che Rai/Mediaset regala al Cavaliere.
Ora, un conto è usare gli strumenti di comunicazione come momento d’ipnosi collettiva – che può anche riuscire – un altro finire per rimanere auto-ipnotizzati. A sentire certe dichiarazioni di Brunetta, della Gelmini e d’altri (il Cavaliere non fa testo, è caduto nella pozione chiamata “mania di grandezza” da piccolo), sembra non si siano accorti d’essere finiti, scorrazzando qui e là, sotto la lente dell’ipnotizzatore.
Mai credere ai sogni che s’inventano per imbonire le masse – nemmeno Mussolini ci cascò – perché al primo manifestarsi della realtà per quel che è – propizia, nefasta, inconcludente, insignificante, tragica, esaltante – essa frantuma le bolle di sapone auto-create con tanto impegno. E ci si sveglia dai sogni.

11 settembre 2008

L’inutile Bucintoro

Il recente articolo di Antonella Randazzo, “Un cuore umano”, ha ben tratteggiato alcuni aspetti poco noti e che, spesso, nemmeno immaginiamo del mondo militare, talvolta presentato – a torto – come una legione assetata di sangue nemico.
Sulle prime – parlando di militari – molti pensano subito agli ufficiali infedeli quali De Lorenzo, Miceli, Maletti…e la gran compagnia che fece parte di Gladio, della P2 e dei cosiddetti “servizi deviati”: dimentichiamo che fra i militari c’è tanta gente onesta, che vorrebbe fare il suo mestiere nel rispetto della democrazia e della Costituzione.
A ben vedere, i primi a perderci qualcosa quando si devono usare le armi sono proprio i soldati: rischiano di perdere una cosetta da nulla, ossia la vita. La Randazzo ha quindi compiuto un lavoro encomiabile, perché la vicenda dei due aviatori dell’Esercito, che si sono rifiutati di sparare contro dei civili afgani, rende giustizia ad un mondo che, spesso, viene tenuto in disparte dal vivere comune, quasi una casta d’innominabili, come i macellai nella Lhasa buddista.
Inoltre, ha dimostrato che la piccola cannoniera del Web ha proiettili ben forgiati e sparati con precisione, a differenza delle terribili bordate delle corazzate di regime: potenti sì, ma sempre più imprecise e smascherabili.
In passato, ci sono già stati episodi del genere: ricordiamo, uno per tutti, il caso di un alto ufficiale di Marina italiano in comando nel Golfo il quale, durante la Guerra del Golfo del 1991, si lasciò andare, in un’intervista, a considerazioni non troppo in linea con il pensiero dominante. A quel tempo, era ancora possibile che simili faccende fossero rese note in TV: l’ufficiale, fu rimpatriato immediatamente e sollevato dal comando.

Se gli uomini hanno dei dubbi, molto dipende anche dai mezzi che hanno a disposizione; un elicottero Mangusta, con il suo cannone anticarro, razzi e missili non è certo l’arma più indicata per combattere in aree abitate da civili: la carneficina è inevitabile.
La pianificazione dello strumento militare dovrebbe quindi derivare dall’impostazione generale della Difesa, la quale è faccenda più politica che tecnica. Difatti, è il potere politico a decidere le collaborazioni internazionali, gli acquisti d’armi o la loro produzione in Patria. E, qui, ce n’è da raccontare.
Il potere politico non può prescindere dalla carta costituzionale la quale, all’art. 11, così recita:

L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla liberta degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Non staremo qui a discutere – per esigenze di tempo, null’altro – quante e quali volte la Costituzione è stata calpestata negli scorsi decenni, perché c’interessa di più dimostrare che lo strumento militare italiano è forgiato ed ottimizzato esattamente all’opposto rispetto ai dettami costituzionali.

Il problema della Difesa, oggi, non coincide più con la protezione dei confini, poiché quando forze aeree e navali assumono il controllo delle periferie, oramai, la sorte è segnata.
Oggi, si considera più coerente la “difesa d’area”, ossia la preclusione a potenziali assalitori d’entrare nello spazio aereo e marittimo nazionale, che non coincide precisamente con i confini stabiliti dai trattati.
In altre parole, può essere considerato ostile un velivolo che sta dirigendosi ad alta velocità verso lo spazio aereo nazionale quando è ancora in aree internazionali se è – facciamo un esempio – nel Canale di Sicilia: se, invece, lo stesso velivolo si trova nel golfo della Sirte, non può essere considerato ostile. Ciò non significa, però, che nel primo caso si spari immediatamente.
Per la difesa marittima, ovviamente (date le diverse velocità) questo margine si riduce, ma diventa assai più arduo definire ed individuare minacce nascoste (tipicamente, un sommergibile).
La carta costituzionale, però, non ammette operazioni di guerra all’esterno di tali confini (…strumento di offesa…), forse con una sola eccezione: la scorta dei convogli marittimi (che fa parte della difesa) in periodi di forte tensione internazionale o di guerra attuata/dichiarata da altro Paese. A margine, notiamo che nessun iracheno od afgano ha mai attentato allo spazio aereo o marittimo italiano: la Costituzione è la Costituzione, mica balle, e tutte le altre interpretazioni – la “difesa degli interessi nazionali anche a grande distanza” o panzane del genere – non reggono, se analizzate alla luce dell’art. 11.

Le forze terrestri richiedono un diverso approccio: è chiaro che, quando si perdono cieli e mari, la loro sorte è segnata. Per questa ragione si è passati dagli eserciti di leva a quelli professionali: i grandi numeri degli eserciti napoleonici non servono più, soprattutto nelle nazioni meno estese territorialmente.
Sul loro uso – sempre nell’ottica dell’art. 11 della Costituzione – oramai è chiaro che sono diventate forze mercenarie al servizio d’altri paesi: vorremmo che qualcuno ci spiegasse – cinicamente – quali sono stati e quali sono i vantaggi per l’Italia nelle missioni in Iraq ed Afghanistan.
I nostri principali fornitori d’energia sono la Russia, la Libia e l’Algeria: sotto Saddam, avevamo in gestione alcuni pozzi presso Nassirya, ma questo modesto “interesse” non giustifica il sangue versato. E in Afghanistan? Perché i nostri soldati devono sorreggere inutilmente (inglesi e russi ne sanno qualcosa di quel paese) gli sforzi americani per continuare nella “dottrina Brezinsky”, che prevedeva lo smembramento della Russia in tre parti, con quella centrale assegnata all’egemonia statunitense?
La vicenda di una Russia ripartita fra UE, USA e Cina/Giappone fa oramai parte dei sogni americani, e non serve a nulla continuare a rischiare la pelle dei nostri soldati nelle pietraie afgane.
Quando, nel 2006, fu chiesto all’Italia d’impegnarsi nella missione in Libano, si scoprì che non c’erano quasi effettivi disponibili: i militari italiani (considerando la rotazione dei reparti) erano quasi tutti all’estero! E cosa c’entra, tutto ciò, con il dettato costituzionale?

E, se qualcuno attentasse veramente allo spazio aereo e marittimo italiano, quali mezzi avremmo per difenderci?
La prima obiezione che si può porre è ovvia: l’Italia fa parte di un’alleanza, e quindi la difesa sarebbe garantita da…
Tutto vero, ma le Forze Armate italiane, con che cosa potrebbero partecipare alla difesa?

Ad oggi, gli aerei destinati alla nostra difesa sono 34 F-16, usati, presi in leasing dagli USA: 34 aerei per difendere lo spazio aereo del Mediterraneo centrale, del Tirreno e dell’Adriatico. Una bubbola.
Se visiterete i siti ufficiali dell’Aeronautica Militare, potrete essere contagiati dal fervore con il quale s’attende il prestigioso Eurofighter “Tifone” – i primi aerei sono stati consegnati a due reparti di volo – il quale nacque, come progetto, nel 1983. Sì, avete letto bene: venticinque anni fa. Direte: adesso è finito. Balle, osservate la scansione del programma:

Il programma, diviso in tre tranche, è così ripartito[1]:
1° Tranche: 148 aerei in produzione nel periodo 2003/2007
2° Tranche: 236 aerei in produzione nel periodo 2007/2012
3° Tranche:236 aerei in produzione nel periodo 2012/2017

L’Italia aveva preso l’impegno d’acquistare in tutto 121 velivoli ma, ad oggi, ne sono giunte solo poche unità. La ragione? Ritardi, problemi, compromessi difficilissimi (ed onerosi) fra le nazioni che hanno partecipato al programma – Gran Bretagna, Germania, Italia e Spagna (c’era anche la Francia ma, nel 1985, quando comprese l’andazzo, se ne andò e costruì da sola il Rafale) – e la frittata è compiuta. A complicare la faccenda, nel 2012 gli USA inizieranno le consegne dei primi F-35 (più moderni rispetto al Tifone), e negli stessi anni dovrebbe venire alla luce un nuovo caccia di V generazione, made in Russia con collaborazione indiana.
Di fatto, l’ultimo Tifone vedrà la luce quando da anni voleranno velivoli di V generazione, mentre il Tifone è ancora un aereo di IV generazione: forse con un “più”, ma sempre di quarta.
Per intenderci: il Tifone è un velivolo che se la potrà giocare ad armi quasi pari con F-16, F-15, Mig-29 e Su-27 nelle loro ultime versioni. Il problema è che i velivoli sopraccitati – russi o americani – entrarono in servizio proprio negli anni nel quale il Tifone veniva appena disegnato sulla carta: un ritardo epocale.
Difatti, sono già previsti (per gli aerei appena consegnati!) interventi di retrofit per ammodernarli: non dovrebbe essere roba nuovissima?
Il tutto al “modesto” costo di 100 milioni di euro il pezzo: fatevi due conti, quando il futuro F-35 ne costerà circa un terzo in meno.
Già nel 2004, la Corte dei Conti aveva “annusato” aria viziata in quel progetto, giungendo a relazionare[2]:

«sullo stato di avanzamento del Programma Efa/Eurofighter 2000, e sulle misure adottate dall'Amministrazione della Difesa per ovviare al ritardo nella sua esecuzione…difficoltà di vario genere (tecniche, dovute alla complessità e difficoltà del compito, ma soprattutto di ordine politico-finanziario, conseguenti al mutamento dello scenario nell'Europa dell'Est ed alla crisi economica generale dei primi anni '90) hanno, tuttavia, causato pesanti ritardi rispetto alle previsioni iniziali»

Anche dal punto di vista industriale, il programma si è rivelato poco convincente: circa 700 velivoli in previsione, contro i 5-6000 previsti dell’F-35[3]. Tutto ciò è comprensibile, se si crede di poter vendere impunemente un velivolo degli anni ’90 del XX secolo nel secondo decennio del XXI.

E, nel frattempo, chi difendeva i cieli italiani?
Un’accozzaglia d’aerei vecchissimi – gli F-104 nati negli anni ’50, più volte rimodernati, ma di fatto inutilizzabili – oppure bombardieri (velivoli da strike[4]) come il Tornado, adattati per fare il caccia quando erano stati progettati per tutt’altre missioni. Per capirci: adattare un Tornado per la caccia, è come installare un motore Porsche su un furgoncino e poi andare a correre a Monza[5].
Infine, la soluzione intermedia: prendere in leasing 34 F-16 ex Guardia Nazionale USA e tirare a campare. Sperando che appaia il Tifone (subito da aggiornare).

Se, per come hanno pianificato la difesa aerea, la classe politica ed i vertici militari potrebbero essere accusati d’attentato alla Costituzione (se la Costituzione prevede che qualcuno debba provvedere alla difesa nazionale, e poi non lo fa, qual è il reato?), molto hanno fatto in altri campi.
L’Italia è stata per decenni la “terra dei bombardieri”: non avevamo uno straccio d’aereo per difenderci, ma per andar a piazzar bombe lontano sì…ne avevamo di roba! Serbia ed Iraq ringraziano.

Si partì con il programma Tornado negli anni ’70, e venne alla luce un potente bimotore da strike, in grado di volare bassissimo ad elevata velocità, per “depositare” bombe, missili e razzi a centinaia di chilometri dalla propria base. Proprio quel che indica la Costituzione.
Siccome il Tornado era un po’ “pesantuccio” – e ‘sta mania delle bombe non demordeva – nacque l’esigenza d’avere un bombardiere più leggero e meno costoso (si fa per dire, 39 milioni di euro l’uno…[6]), e nacque l’AMX. Nacque male e, al primo collaudo, perse la vita il comandante Quarantelli – pilota collaudatore – all’aeroporto di Caselle (TO).
Il piccolo monoreattore – una joint venture italo-brasiliana – ha chiesto sangue, tanto sangue per volare: ad oggi, ci sono stati 700 (settecento!) incidenti di volo – più o meno gravi – che hanno condotto alla perdita di 12 velivoli (sui circa 130 in servizio, quasi il 10%!) e di cinque piloti (secondo l’AMI), di ben 15 piloti e 17 velivoli secondo altre fonti. La differenza nei dati si spiega se riflettiamo che, in Iraq, un militare USA viene considerato “ferito o ucciso in battaglia” soltanto se offeso direttamente dal fuoco nemico: se, invece, il suo mezzo si rovescia perché salta su una mina, viene considerato un “incidente stradale”. Per questa ragione citiamo questa differenza nei dati, che si spiega solo con il “basso stato” dell’informazione italiana, sulla quale è difficile fare affidamento, anche per la semplice conta dei morti e degli incidenti.

La ragione del fallimento appare chiara, se si analizzano le specifiche del velivolo.
Per prima cosa la scelta di un solo reattore: in panne quello, la sorte è segnata.
Per seconda la natura del reattore: il Rolls Royce Fiat Avio RB168-807 “Spey” è un propulsore civile, che ha equipaggiato per molti anni velivoli non militari. Perché installare un simile reattore su un aereo da guerra? Mistero. Mica troppo, però, conoscendo come vanno le cose quando girano tanti soldi.
La terza ragione è il peso del velivolo al decollo. Il peso a vuoto è di 6.700 kg, mentre quello massimo è di ben 13.000 kg: una differenza di 6300 kg!
Cosa significa tutto ciò?
Che abbiamo costruito un furgoncino poi, per risparmiare, lo abbiamo motorizzato con il propulsore di una cinquecento: infine, siccome le specifiche di progetto richiedevano un forte carico utile, lo abbiamo irrobustito per poter caricare anche un elefante. Ovvio che, alla prima “salita”, si “siede”. E cade.
Queste sono soltanto nostre elucubrazioni?
No! A più riprese, la Magistratura ha addirittura cercato di sequestrare gli aerei residui (oramai una settantina, fra incidenti mortali, incidenti non mortali e rotture non rimediabili) e lo ha anche fatto, temporaneamente (nel 2002): è l’unico caso nella storia e nell’intero pianeta di un velivolo militare sequestrato perché non sta in volo! Eppure, stanno facendo di tutto per salvare le apparenze.
L’ultimo magistrato a provarci è stato il Procuratore della Repubblica di Cagliari, Mauro Mura – il 5 Gennaio 2008 – dopo l’ennesimo incidente (per fortuna non mortale), dopo che l’AMX in questione era precipitato in un campo di carciofi. La giustificazione del magistrato fa rizzare i capelli[7]:

«Le indagini proseguono, per ora abbiamo chiesto solo il sequestro cautelativo per ottenere il fermo degli aerei: il presupposto dell'inchiesta, infatti, è la pericolosità di questi caccia e gli elementi raccolti finora ci portano in questa direzione…ci sono elementi per ritenere che i caccia AMX siano pericolosi, quindi non idonei al volo.»

“Non idonei al volo”! E’ una frase che fa rizzare i capelli, soprattutto se consideriamo che dei 135 velivoli iniziali ne sono rimasti 70, e che sul sito dell’AMI la scheda tecnica dell’AMX è in costante “aggiornamento”. Oppure in “demolizione”?
Si potrà obiettare che il rivolgimento causato dalla caduta del Muro di Berlino abbia causato difficoltà di programmazione: certo, non avere un velivolo da caccia per decenni, però, ci sembra un po’ troppo, ma vediamo cos’ha fatto la Marina, prima e dopo il Muro.

Prima della caduta dell’URSS (anni ’70), la Marina iniziò a progettare un “incrociatore portaelicotteri” il quale, in fase di completamento del progetto, fu dotato di sky-jump per il decollo di aerei come il Sea Harrier (modalità STOVL).
Perché la Marina non poteva dire a chiare lettere che voleva costruire una piccola portaerei?
Poiché è tuttora in vigore la normativa (di Italo Balbo!) che assegna alla sola Aeronautica la gestione del cielo, e quindi la Marina non può avere aerei e piloti. Soprattutto, non aveva mezzi per addestrare i piloti.
La querelle durò parecchi anni: finalmente risolta con un compromesso, nel 1983 scendeva in mare la “Garibaldi”, che prendeva servizio nel 1985 (con i soli elicotteri, però).
La Garibaldi, se consideriamo che l’Italia deve provvedere alla scorta dei convogli marittimi, ha un senso anche alla luce dell’art. 11. Si tratta di una nave che può imbarcare 18 velivoli (un mix di Sea Harrier e di elicotteri) ed è dotata d’armamento antiaereo ed antinave.
Il dislocamento è modesto – 13.370 t – se paragonato ai compiti che la nave deve affrontare: tutto sommato, un progetto ben riuscito.

La scorta dei convogli mercantili richiede due tipi di naviglio: corvette e fregate per la scorta diretta, ossia le navi che navigano nei pressi del convoglio, e la scorta d’altura (che comprende, tipicamente, una portaerei) per la difesa a distanza da minacce (soprattutto) aeree. Insomma, la scorta d’altura ha il compito di “ripulire” la rotta del convoglio, mentre la scorta diretta deve verificare se tutto è stato ben “ripulito”.
Nave Garibaldi, in questo contesto, fu una buona realizzazione: l’unico problema è che era una sola e, con una sola nave (e quando è ai lavori di manutenzione?), si fa poco.

Detto fatto, fu progettata la “gemella” Cavour (varata nel 2004, non ancora in servizio), che è evidentemente una gemella eterozigote, poiché non le assomiglia per niente[8].
Il dislocamento a pieno carico passa da 13.370 t a 27.100: quasi il doppio! L’enorme aumento del dislocamento e delle dimensioni, a cosa serve?
Il numero dei velivoli imbarcati incrementa sì, ma da 18 a 20: per aumentare la componente di volo di due miseri aerei, era necessario raddoppiare il dislocamento?
No, perché – dalla scheda tecnica – si evince che Nave Cavour potrà imbarcare anche 24 carri armati Ariete da 60 tonnellate, più i marines del Reggimento “San Marco” ed altre facezie del genere.
In definitiva, il “passaggio” dalla Garibaldi alla Cavour segna un’inversione di 180 gradi: non più una nave utile alla scorta dei convogli (e, quindi, più segnata da un’ottica difensiva), bensì una nave d’assalto anfibio, che serve soltanto se si devono sbarcare (con un po’ di fortuna, se è sola…) marines su una spiaggia nemica. Il che, rientra appieno nel dettato costituzionale, ovvio.

Non deve sfuggire che la portaerei Cavour è stata pensata in un diverso periodo storico, il che – se teniamo presente il dettato costituzionale – conduce ad un paradosso.
Quando c’era il Patto di Varsavia, costruivamo navi per la difesa dei convogli – ben sapendo che sarebbe stato difficile, con quel poco, sfuggire ai sottomarini russi – mentre quando quello spettro si è volatilizzato costruiamo una nave per l’assalto anfibio!
Cosa significa?
Vuol dire, semplicemente, che la nave sarà integrata in una delle tante task force euro-americane che dovranno far rispettare l’ordine neocoloniale nel pianeta: altro che Costituzione, siamo tornati alle avventure delle “quarte sponde”!
In altre parole, forniremo agli USA (e non solo, visto che siamo presenti in gran copia in Libano, ma sotto comando francese) la “carne da cannone” necessaria per le agognate “avventure” del grande “amico” Bush (domani, del suo successore)!

E la Costituzione? Che ci va a fare, per i mari, una nave italiana che ha come compito precipuo quello di sbarcare tank su una spiaggia “nemica”?
E la difesa delle acque italiane?
Quella è affidata soprattutto ai sommergibili (sui mezzi aerei, abbiamo già “dato”), ma i sommergibili italiani non sono in grado di lanciare missili, nemmeno i più moderni classe U-212. Perché? Non si sa, è così e basta.
La differenza non è di poco conto: un missile colpisce a 50-100 chilometri di distanza, un siluro ad una decina o poco più, esponendo il battello a notevoli rischi.
Il nome dei battelli – quel “U”[9] – richiama l’origine tedesca dei sommergibili: difatti, si tratta di una collaborazione italo-tedesca.
Nemmeno i più recenti battelli della classe U-212 saranno dotati di missili, mentre la piccola Grecia ha optato per i tipi U-214, che hanno questa possibilità.

Vorremmo sfatare subito una perplessità: chi scrive, ritiene che non dovremmo spendere nemmeno un centesimo in armi, se il mondo non fosse quel che è.
Anche nazioni dichiaratamente o praticamente neutrali – Svizzera, Austria, Svezia, ecc – mantengono forze armate, modeste, ma efficienti.
Cercando d’essere realisti, possedere uno strumento militare modesto, ma efficiente e moderno, allontana e non avvicina i rischi di un conflitto. Proprio quello che i costituzionalisti italiani intendevano affermare: siamo pronti a difenderci (e, aggiungo, meglio si è pronti e più decrescono i rischi), ma non consideriamo la guerra un mezzo per la soluzione dei problemi internazionali. L’esatto opposto delle note tesi “anni ‘30”, sulla “prosecuzione” della politica estera con la guerra.
Per questa ragione, la piccola Grecia si comporta come una nazione che intende difendersi e nulla più: volete rischiare? Sappiate che possiamo colpirvi a distanza con i nostri sommergibili.
Uno strumento militare enormemente più costoso, ma meno efficiente come quello italiano, invece, conduce a spendere tanto per poi dover sempre rimanere all’ombra di qualche “santo protettore”. Il quale, in cambio, chiederà sempre di sorreggerlo nelle sue mire imperiali. La Grecia (paese NATO), durante la guerra del Kosovo, si permise il lusso di negare agli USA il porto di Patrasso, e non partecipò in alcun modo alle operazioni.

Chi afferma che l’Italia è tuttora una nazione colonizzata, quindi, ha elementi per confermarlo anche sul piano squisitamente “tecnico” (che, poi, solo tecnico non è), poiché le scelte sopraccitate, nell’ottica di soddisfare i requisiti costituzionali in ambito di difesa, sono semplicemente sciagurate ed anticostituzionali.
Costituzione calpestata, spese inconcludenti e sudditanza totale alle scelte di potenti paesi esteri: è quello che accade da decenni.

[1] Fonte: Pagine di Difesa, 18 dicembre 2004. Ovviamente, i numeri sono riferiti a tutte le aeronautiche europee (e non) interessate al velivolo.
[2] Fonte: Giovanni Scafuro, La denuncia della Corte dei Conti dall'86 a oggi per l'Eurofighter ritardi sprechi e altri aerei in affitto – Rete italiana per il disarmo – 27 settembre 2004. La relazione della Corte dei Conti fu pubblicata su Avvenire il 25 settembre 2004.
[3] Fonte: Saverio Zuccotti – Pagine Difesa – 8 gennaio 2007.
[4] Gli aerei da strike, sono la ri-proposizione odierna dei vecchi “bombardieri leggeri”. Sono, praticamente, velivoli più grandi dei comuni caccia, che possono portare parecchio peso (armamento di lancio) a grande distanza e ad elevata velocità. Ovviamente, non hanno l’agilità dei caccia ed hanno una diversa impostazione della piattaforma di combattimento.
[5] I Tornado F3 della RAF, erano concepiti come velivoli a lunga autonomia per pattugliare le aree settentrionali dell’Atlantico. La minaccia che dovevano contrastare erano i bombardieri supersonici Tu-22 russi, non aerei da caccia: in un combattimento manovrato con un caccia (F-16 o Mig-29, ad esempio), il Tornado F3 ha scarse probabilità di sopravvivenza.
[6] Fonte: Commissione Difesa Senato, 17/02/2000.
[7] Fonte: Controlarmi, rete italiana per il disarmo.
[8] Per una più completa comparazione fra le due portaerei, vedi: http://digilander.libero.it/shinano/Italia/Conte%20di%20Cavour/confronti/Garibaldi.htm.
[9] Unterseeboot, sottomarino in tedesco.

02 settembre 2008

La nave dei folli

Devo ammettere che premo assai di rado il tasto del telecomando, e quasi sempre lo faccio – la Domenica – per leggere i risultati delle partite di calcio. Mi rifiuto di fare abbonamenti vari per guardare le partite, ed i talk show serali del pallone mi disgustano: forse perché figlio di un calciatore, sono abituato ad osservare più il gioco, che gli “acuti” di qualche miliardario che corre dietro al pallone. Perciò, mi reco ogni tanto a vedere una partita vera: quelle delle giovanili di provincia, dove ancora il pallone è qualcosa che suscita sogni estetici per un assist o per uno stop eseguito a perfezione.

Appena compaiono le prime immagini, però, mi rendo conto che l’argomento “calcio” inizia da una stazione, nella quale sciami di giovani corrono all’impazzata intonando canti e slogan belluini. Poi prendono d’assalto un treno, menano quattro agenti e le Ferrovie “consigliano” ai viaggiatori “comuni” di scendere: l’assalto alla diligenza è compiuto.
Giunti a destinazione, non contenti, ripetono l’identico copione, fino a sera.
L’estatica giornalista del TG definisce gli incidenti “non gravi”, perché c’è “solo” stato un ferito lieve per una coltellata. Forse, la “scaletta” è questa: una dozzina di teste fracassate al Pronto Soccorso porta il livello ad incidenti “seri”, mentre per quelli “gravi” ci deve scappare il morto. Altrimenti, la notizia scivola via fra un servizio e l’altro.
Cosa volete che siano poche ore di guerriglia urbana, qualche macchina fracassata, un treno devastato…in fondo sono “bravi ragazzi”…sì…solo un po’ “tifosi”…

La notte porta consiglio, e dimentico presto la solita gazzarra domenicale nella quale – in pieno stile panem et circenses – tutto deve essere tollerato: addirittura che, chi ha acquistato regolarmente un biglietto ferroviario per recarsi a Roma – per futili motivi, ovvio, mica per una partita di calcio – sia obbligato a scendere poiché il treno è stato assaltato.
La politica? Chi era costui – ripetono centinaia d’insignificanti don Abbondio – cosa c’entra il calcio con la politica? Basta che non scassino i maroni a noi: se se la prendono con un treno, o sfasciano tutto allo stadio, non passerà mai loro per la mente di venire a Montecitorio!

La mattina seguente c’è il solito rito d’inizio anno scolastico…il primo collegio docenti, le assegnazioni alle classi e compagnia varia…nel quale, l’unico aspetto interessante è incontrare qualche collega con il quale si hanno rapporti d’amicizia e di stima.
Come sempre, il Preside (oggi Dirigente Scolastico) non può glissare totalmente sugli sfasci che la classe politica sta realizzando nella scuola. I “risparmi” del D.M. 112 (divenuto, nel frattempo, legge n. 133), che qualcuno s’ostina a definire tali, sono in realtà il requiem per la scuola pubblica: tanto è vero che solo il 30% dei “risparmi” sarà reinvestito nella scuola, mentre il restante 70% “saranno resi disponibili in gestione con decreto del Ministero dell'economia e delle finanze[1].
Quindi, il piano che taglierà circa il 10% fra docenti e personale ATA (addirittura il 17% fra gli ATA!) e che condurrà ad un “risparmio” di quasi 8 miliardi di euro, servirà a finanziare la contabilità generale dello Stato, non altro. Magari, per iniziare a pagare – da Gennaio – la salatissima “multa” europea per la permanenza di Rete4 in chiaro e non confinarla sul satellite, laddove la giurisprudenza europea aveva definito che dovesse migrare.

Ad una diretta domanda dello scrivente – ovvero se la retribuzione professionale docenti facesse parte del salario accessorio – il preside non ha potuto glissare: sì – quindi – per ogni giorno di malattia, un docente lascerà nelle casse dello Stato circa 10 euro.
Siccome la media delle assenze per malattia nella scuola è di 9,66 giorni/anno[2], lo Stato farà una “cresta” di un centinaio di euro a lavoratore: beninteso, su chi si ammala, che deve anche – visto che la Sanità pubblica è oramai una bubbola – provvedere di tasca propria per medicine e ticket.
Tutto questo fa parte di una campagna mediatica ben congegnata, che partì con la pubblicazione su il “Sole 24 ore” – giornale di Confindustria – di dati palesemente e sfacciatamente falsi sulle assenze nel pubblico impiego.

Della stessa campagna, fanno parte gli attuali provvedimenti sulla scuola: tutti tesi a fornire un’immagine d’efficienza e di sereno amore materno nei confronti dei nostri piccini. Una pura e semplice vicenda d’immagine.
Vogliamo re-introdurre il grembiulino per la scuola elementare? Benissimo, almeno non si sporcheranno con i colori, ma il ricco continuerà a sfoggiare scarpe da 100 euro, il povero dovrà acquistare, in più, il grembiulino.

La gran parte degli italiani gradisce che si torni a valutare la condotta nel computo del profitto complessivo, credendo – con questa bella trovata – di liberarsi degli scomodi video che compaiono su Youtube, vera ossessione del precedente Ministro.
Qualcuno, però, riflette su chi sono i ragazzi che compiono queste pessime azioni?
Appartengono ai ceti meno abbienti, tanto è vero che il comportamento è un problema gravissimo soprattutto negli istituti Professionali, poi nei Tecnici, mentre decresce nei Licei. Inoltre, decresce dalla grande città al piccolo centro. Qualcuno si è chiesto il perché?
Questi giovani – probabilmente gli stessi che prendono d’assalto i treni – sono le nostre banlieue, le periferie disastrate dove ragazzi che sanno di non avere un futuro – che non parteciperanno mai alla distribuzione della ricchezza[3] – inviano un segnale. Violento, disgustoso, ma non irricevibile, poiché non “riceverlo” sarebbe come nascondere la testa sotto la sabbia.

Se Maria Stella Gelmini ha preferito l’icona della “Maestrina della Penna Rossa”, di deamicisiana memoria – una scelta ovviamente dettata dai creatori d’immagine della politica/spettacolo/spazzatura – potremmo ricordare che la nostra società non assomiglia molto al libro “Cuore”. Si legga, piuttosto, “L’elogio di Franti” di Umberto Eco[4], laddove il “monello” – decretato archetipo di tutte le nefandezze giovanili – si rivela per quel che è: un giovane dell’epoca che non approva l'ideologia militaristica e nazionalistica espressa da De Amicis.
Se, i termini della non accettazione della scuola e delle sue regole, derivano da un precedente e più radicato sentimento di rivalsa per l’ingiustizia sociale, se questi giovani – assaltando un treno – urlano in realtà la loro rabbia d’esclusi, pensiamo veramente che un 5 in condotta li spaventerà? Oppure radicherà ancor più la loro percezione d’esclusi?

Infine, la “chicca” tanto agognata, preannunciata da un noto pedagogista (!) – Vittorio Feltri, direttore di “Libero” – in un’intervista televisiva: il ritorno al “maestro unico” nella scuola elementare. Rammento che quella sera, in TV, c’erano almeno un altro paio di noti ed “esperti” pedagogisti: se ben ricordo, Tremonti e Fini.
Nessuno può affermare che la scuola elementare non possa funzionare come 50 anni fa, con il maestro unico dalla prima alla quinta: tanti sono “sopravvissuti” a quell’impostazione, me compreso, senza mostrare evidenti danni cerebrali.
C’è, però, in tutta la querelle, un dato curioso: s’interviene più pesantemente nel “segmento” scolastico che meglio funziona – le periodiche rilevazioni internazionali lo confermano, la nostra Scuola Elementare è fra le migliori in Europa – mentre si tace sul resto, ovvero su una Scuola Media che ha smarrito il suo senso d’esistere ed una Superiore che mostra ogni giorno che passa il peso degli anni.
Ricordiamo che l’attuale struttura della nostra Scuola Superiore è ancora quella di Gentile del 1923 (che riformò la precedente “Casati” del 1859) il quale, pur essendo egli stesso filosofo e pedagogista, ritenne di chiedere aiuto e consiglio a Giuseppe Lombardo Radice, insigne pedagogista dell’epoca.
Siamo quindi passati dai Gentile, Lombardo Radice – ma anche dai Tullio De Mauro, stimato linguista e pedagogista – alla “nouvelle pédagogie” della Gelmini, dei Pizza, Tremonti, Feltri e Bossi. Andèm bèn, per dirla in padano.

Purtroppo, molti lettori di quotidiani e di Internet conoscono poco i problemi della scuola e ne sottovalutano l’importanza: chi ci è già passato pensa “l’ho scampata”, chi la frequenta legge poco e s’interessa (giustamente, per l’età) ad altro, chi ci vive è oramai annichilito dall’insipienza delle recenti riforme e controriforme, le quali – altro non sono – che un pasticciato pour parler sul nulla. Un esempio?
Si giubila sul ritorno al voto numerico: qualcuno potrebbe spiegarmi la differenza che c’è fra un “più che sufficiente” ed un 6 più? Oppure fra un “ampiamente sufficiente” ed un sei e mezzo? Ancora: un “quasi buono” ed un 7 meno?
Eppure, la valutazione – ne sanno qualcosa gli studenti che in questi giorni affrontano i rinnovati esami di riparazione – è un problema spinoso: non per la scala di valori che si usa per valutare – numeri, giudizi od altro – ma per i parametri di valutazione, che sono il vero problema.
Si deve valutare per conoscenze o per competenze? Come armonizzare l’omogeneità del giudizio con le inevitabili differenze – culturali, caratteriali, professionali – dei docenti? Quale finalità assegnare alla scuola, la preparazione “operativa” destinata al lavoro o quella più “generalista”, di stampo educativo? Entrambe? E in quale misura? E come valutare le due componenti?
Scommetto mezzo cosiddetto che, se interpellassimo questi signori che blaterano proposte pedagogiche, non saprebbero nemmeno identificare di cosa si sta parlando. Non la risposta: almeno capire la domanda.

Tutto ciò avviene – scuola o treni sfasciati, poco importa – poiché non solo la politica (questo l’abbiamo capito da tempo), bensì l’approccio culturale e metodologico ai problemi – sociali, economici, culturali, ecc – nel Bel Paese è profondamente malato. E, quando non si riesce più ad interpretare la realtà, le uniche vie d’uscita sono la disinformazione (prassi oramai comune in TV), la “Reductio ad Hitlerum[5] per chi propone soluzioni rivoluzionarie, oppure la pura e semplice repressione, modello Genova o voto in condotta.
La situazione italiana è quindi – metaforicamente – quella di una barca in mediocri condizioni che naviga su un mare di m…e, pur sapendo che dovrà prima o dopo fare i conti con il “liquido”, se ne astiene, tira a campare e finge che la m…sia acqua di rose.

Ogni settore della vita pubblica lo dimostra: l’assurdo approccio al problema energetico – centrali nucleari quando nessuno o quasi dei paesi industrializzati ne costruisce – l’istruzione carente e, quindi – visto che è “carente” – meglio l’eutanasia. Il lavoro che non c’è, perché manca la ricerca e la classe imprenditoriale non muove foglia se non sa d’avere a disposizione le prebende dello Stato? De-rubrichiamo il lavoro ad occupazione saltuaria, diamo loro ogni tanto quattro soldi, finché dura. Le risorse mancano? Portiamo l’età della pensione a 70 anni.
Gli esempi si moltiplicano e quasi s’accavallano. Mandano l’Esercito nelle città: nel frattempo, avvengono (proprio nelle città!) eventi drammatici, gravi violenze a danno di turisti stranieri. Risultato? Mandiamo ancor più soldati nelle strade! Scopriamo che la corruzione è ancor più diffusa rispetto ai tempi di Mani Pulite? Prendiamo la Forleo e De Magistris e li cacciamo.

Tutto è semplice, parola di Vittorio Feltri, Renato Brunetta e Giulio Tremonti: gli altri, son lì per figura. Fin quando non s’aprirà una falla e la pompa di sentina andrà in tilt: chissà se, in quel momento, con il “liquido” che arriverà oramai alla falchetta, qualcuno inizierà a distinguere la m…dall’acqua di rose?


[1] Fonte: Altalex, D.M. n. 112, art. 64, comma 9.
[2] Fonte: CGIA di Mestre, su dati ufficiali forniti dalla Ragioneria Generale dello Stato.
[3] Parecchie fonti di dati statistici (ISTAT; EURISPES, ecc) indicano che il 10% circa della popolazione italiana possiede il 45% circa della ricchezza nazionale. Questi dati sono spesso confermati dagli indici dei consumi sui beni di lusso, sulla spesa per le vacanze, ecc.
[4] Umberto Eco – Diario Minimo – Fabbri Editore, 1963.
[5] La “Reductio ad Hitlerum” è una perversa e fallace pratica usata nella lotta politica, creata e sostanziata da Leo Strass negli anni ’50. Compiendo un errato sillogismo fra un aspetto (anche secondario) del dittatore tedesco e la persona in questione – ed utilizzando a dovere il potere mediatico – si giunge a confutare tutte le posizioni politiche della persona presa di mira senza doverle, in definitiva, discutere ed affrontare.