31 gennaio 2009

Organi allo sbando

Devo riconoscere che, quando ho letto – stamani – che il ministro Maroni sosteneva l’esistenza di un traffico d’organi per i trapianti, ho trasalito. La replica – giunta a stretto giro di posta da Passarelli, presidente dell’AIDO – mia ha invece infastidito. Perché?
Perché, il tutto, mi è parso un dialogo fra pazzi.
Anzitutto, un ministro della Repubblica – va beh, sappiamo che l’Italia è oramai giunta in “basso stato”, ma pur sempre di un ministro si tratta – non dovrebbe affrontare così, alla leggera, un argomento così serio e complesso.
Il “colpo di teatro” di Maroni pare appunto questo e basta, altrimenti il ministro sarebbe dovuto intervenire in ben altro modo: indicando, ad esempio, la data nella quale avrebbe esposto il problema al Parlamento o alla commissione di riferimento. Insomma, fatti così gravi non si “gettano” così nel circuito mediatico, senza citare fonti, indagini, riferimenti.
La risposta dell’AIDO è stata speculare per inesattezze e tentativi d’insabbiare, invece, un problema esistente. Inoltre, Passarelli non comunica dati e circostanze che dovrebbe ben conoscere.
Insomma, fra l’uno e l’altro, ci sembra un discreto pudding di pressappochismo da apprendisti stregoni, dell’informazione e della materia che vorrebbero trattare.

La leggerezza di Maroni può celare semplicemente un tentativo, da leggere esclusivamente in senso mediatico, di porre la classica “sparata” al centro dell’attenzione per nasconderne altre. Viste le contraddizioni sull’eventuale riforma delle pensioni fra Tremonti e Sacconi, più la consapevolezza che la crisi economica è agli inizi e che il governo non sa che pesci pigliare, tutto torna utile quando non gioca la Nazionale.
Un secondo motivo potrebbe essere quello di dare un “giro di vite” ai vari CPT, utilizzando come spauracchio il traffico d’organi.
Sapremo presto come sono andate le cose: se Maroni citerà le fonti ed i fatti, l’allarme era giustificato. Altrimenti, se tutto finirà a tarallucci e vino, vorrà dire che se n’era inventata una nuova, tanto per tenere occupati gli italiani. Con l’Olindo e la Rosa in carcere, si stenta a trovare argomenti per smuovere un po’ le viscere, sempre assetate di nuove vicende a tinte fosche.

Siccome sono stato il primo a scrivere un libro[1], in italiano, sul traffico d’organi, vorrei fornire qualche riferimento ai lettori, del tutto disinteressato (non scrivo più per Malatempora e non percepisco diritti d’autore sul testo), sulla vicenda.
Le affermazioni di Maroni devono essere accompagnate da riscontri, altrimenti è solo terrorismo mediatico, perché in Italia non ci sono state, finora, sentenze che abbiano provato tale, turpe mercato.
Il documento più esaustivo in materia è la relazione sui Migranti stesa nel 2001 da Tana de Zulueta ed approvata all’unanimità dalla relativa commissione parlamentare, con molti complimenti (da entrambe le parti) per il lavoro svolto.
Nella relazione sono evidenziate e descritte con abbondanti riscontri le violente pratiche del mondo dei Migranti: le violenze, le sopraffazioni, i ricatti. Sul traffico d’organi, la De Zulueta cita soltanto un sospetto – non suffragato da prove (sentenze) – su un presunto traffico di giovani ritardati mentali dall’ex Jugoslavia.
Se nel 2001 c’era solo qualche sospetto, pare che così non fosse per tutti: nel centro-destra qualcuno sapeva ed ha taciuto, oppure ha fatto finta di niente e s’è dileguato. Partiamo dal principio.

Su ”Il Giornale” del 4 settembre 1995, l’ex ministro per la Famiglia del primo governo Berlusconi, Antonio Guidi, dichiarava:

«Il fenomeno è mondiale. Ma l’Italia, così com’è stata ed è un luogo di passaggio delle droghe, adesso è un punto di transito di bambini a rischio... Arrivano dai Paesi in guerra dell’Est, da quelli poveri dell’Africa. Parecchi di loro - chi può individuarne il numero? - sono destinati ad essere carne di riserva per i ricchi. Piccoli depositi di organi per i figli di chi ha denaro». Guidi, alla domanda se alcuni di questi bambini venivano mutilati per conseguenti trapianti in Italia, aveva risposto: «In Italia no, è impossibile. Ma attraversano le nostre terre come uccelli migratori, il cui destino è di essere abbattuti»

Quindi, Guidi (che è medico) sapeva qualcosa ma non volle andare oltre, proprio come fa oggi Maroni: sembrerebbero, entrambe, più dei “pizzini” che dichiarazioni di ministri.

Chi invece tace, e invece qualcosa sa, è l’attuale ministro degli esteri Frattini, poiché fu coinvolto in una vicenda che non si può certo dimenticare così, in un batter d’ali.
Tutto partì da un’inchiesta compiuta da Lorenzo Sani, giornalista de “Il Giorno”, che fu inviato in Africa per aiutare un missionario italiano dei Servi di Maria, padre Claudio Avallone, a dipanare una matassa piuttosto ingarbugliata. Sani scrisse una serie d’articoli, sul suo giornale, nella primavera del 2004: lo stesso materiale fu pubblicato sul Notiziario missionario dei Servi di Maria, pressappoco nello stesso periodo.

Presso Nampula – seconda città del Mozambico – vennero ritrovati molti cadaveri privi d’organi, malamente sepolti nei pressi di un ex aeroporto portoghese (il Mozambico era una loro colonia) ch’era stato affittato ad un sudafricano d’origine irlandese – tale Gary O’ Connor, detto ‘O Branco (Il Bianco) dalla popolazione – ufficialmente per allevare polli.
Nessuno, in quegli anni, nota un solo pollo o del mangime: in compenso, O’ Connor riattiva una pista del vecchio aeroporto e, da lì, partono voli notturni per destinazioni ignote. La vicenda è complessa e coinvolge, da un lato, ‘O Branco e la sua polizia privata (uno scenario da film di Bud Spencer e Terence Hill) e dall’altro le organizzazioni missionarie e la popolazione locale, stufa di ritrovare i corpi dei congiunti nelle boscaglie.
Come affermavo, la vicenda è complessa e ci ho dedicato un libro perché lo meritava: si sappia solo che le intimidazioni degli uomini del sudafricano giunsero all’omicidio di una missionaria luterana brasiliana.
Dopo il feroce omicidio, qualcuno iniziò ad interessarsi alla vicenda e si giunse – proprio in Italia – ad un’audizione parlamentare che si svolse nel Novembre del 2004.

Erano presenti: Gennaro Malgieri (AN), Alberto Michelini (FI), Marco Zacchera (AN), Valerio Calzolaio (DS-Ulivo) e Claudio Azzolini (FI). Era presente anche il sottosegretario Mario Baccini ed il vicepresidente (con funzioni di presidente) Dario Rivolta (che, però, non intervenne nella discussione). (Verbale n°7-00495 della III Commissione Permanente, Affari Esteri e Comunitari).
Per i missionari erano presenti Padre Benito Fusco e Suor Juliana Maria Calvo Arino, che era giunta appositamente dal Mozambico.
Sarebbe troppo lungo ripercorrere l’audizione, che dovrebbe essere reperibile nel sito della Camera: io, comunque, ne ho conservato copia e da qualche parte dovrei averla. I lettori potranno cercarla con i riferimenti che ho fornito.
Un fatto saliente, è l’impegno dell’allora (ed attuale) ministro degli Esteri Frattini ad inviare gli uomini del noto “RIS” di Parma per eseguire analisi scientifiche sui cadaveri, che altri sostenevano essere invece i resti di sanguinari riti animisti. In ogni modo, non se ne fece nulla ed il RIS rimase a Parma: qualcosa, però, Frattini dovrebbe ricordare.

Fin qui le incongruenze ed i “pizzini” di Guidi e Maroni con, in aggiunta, il silenzio dei componenti di una commissione parlamentare e di un ministro degli Esteri.
Ma, se i politici nicchiano, l’AIDO mica scherza.
Ecco cosa dichiara Passarelli, direttore dell’AIDO; il 30 gennaio 2009:

Sotto questa definizione si riunisce tutta una serie di miti, timori ancestrali, false notizie, illazioni senza conferme, falsità manifeste, Una baraonda di orrori uno peggio dell’altro che senza alcun dubbio hanno fatto presa sull’opinione pubblica ed hanno creato una situazione di allarme generalizzato che non favorisce proprio per niente la donazione altruistica.

La denuncia che viene ripetuta con maggior frequenza è quella del rapimento di bambini sacrificati o uccisi. Provengono generalmente dai paesi Latino – Americani e la loro destinazione, sottolineata con un dito accusatore,sono i paesi dell’Europa e gli Stati Uniti.

Quello che è certo e che queste denuncie cadono su un terreno propizio che gli attribuisce una certa credibilità. Centinaia di migliaia di bambini in tutto il mondo spariscono o vengono sottratti alle loro famiglie in maniera violenta o semplicemente “comprati” per essere poi venduti in adozione (i più fortunati), sfruttati sul lavoro o sessualmente o semplicemente vengono eliminati nelle vie del Brasile o della Colombia perché rappresentano un potenziale pericolo sociale.

Comunque in nessun posto al mondo è stato possibile dimostrare nemmeno un solo caso esemplificativo del problema che stiamo trattando.

In riferimento all’ultimo capoverso mi spiace smentirla, dott. Passarelli, perché i riscontri e le prove ci sono: basterebbe prestare ascolto ed informarsi.

Il primo riscontro lo troviamo in Sudafrica (quello di Mandela) negli ultimi mesi del 2003, quando la magistratura sudafricana ordina alla polizia d’entrare nel Saint Augustin Hospital di Durban, una struttura privata, per verificare la nazionalità dei malati ed il tipo d’intervento per il quale sono stati ricoverati.
Nelle corsie c’è un pudding internazionale: brasiliani, europei, israeliani…e sono tutti nell’attesa di ricevere un organo per il trapianto. E, ci teniamo a precisarlo, non solo reni. Da dove provengono gli organi?

In uno studio presentato il 18 aprile 2002 da due ricercatori dell'ISS, l'Istituto di Studi per la Sicurezza, al seminario sul crimine organizzato e la corruzione nell'area meridionale dell'Africa svoltosi a Pretoria, un capitolo è dedicato appunto al traffico di organi umani.
Secondo i ricercatori, Peter Gastrow e Marcelo Mosse, in Mozambico operano «almeno dieci bande criminali, composte da uomini e donne con contatti anche nei Paesi vicini, che si dedicano alla tratta più macabra e raccapricciante che si possa immaginare.[2]»

Il secondo è la testimonianza del dott. Michael Friedlaender – primario di nefrologia all'Hadassah University Hospital di Gerusalemme – il quale afferma tranquillamente che «circa il 25% dei pazienti ha acquistato all'estero i reni trapiantati.[3]»

Il fatto più eclatante, però, quello che smentisce definitivamente le affermazioni di Passarelli, è frutto del lavoro di un bravo giornalista della TV turca, Mehmet Alì Onel, il quale, nel 1998, si finse alla ricerca di un rene e percorse tutta la “trafila” del traffico clandestino, per rivelare la sua identità soltanto quando stava per ricevere l’anestesia.
In precedenza, c’era stata addirittura la protesta ufficiale della Romania, poiché i turchi “battevano” i paesi dell’est alla ricerca di reni, soprattutto la Moldavia.
La scoperta di Onel, condusse alla radiazione dalla sanità pubblica turca dei dott. Sonmez e Shapira, che trovarono però subito “anime pietose”, le quali misero loro a disposizione numerose cliniche private[4].

Insomma, Passarelli, qui c’è addirittura un provvedimento ufficiale della sanità turca, una radiazione…ma…cos’altro manca?
Se vuole, ci sono anche i dettagliati resoconti dei traffici cinesi, indiani, afgani…la trascrizione di un’audizione parlamentare redatta niente meno che da Al Gore (al tempo parlamentare), il quale mette alle strette un rispettabile medico che aveva inventato un curioso espediente per il traffico clandestino. I “donatori”, entravano negli USA per “viaggi premio” e con visti turistici. E tanto altro, come il dibattito avvenuto all’interno della sanità britannica per tentare di legittimare il traffico.

Insomma, cari signori che avete inscenato sulla stampa italiana questo insipido “duetto” – non sappiamo per quali scopi di bottega – cercate almeno di salvare le apparenze. Leggete qualcosa, informatevi, non fate più queste brutte figure. Oppure, se non siete in grado di farlo, andatevene e lasciate i vostri posti a persone più degne di rappresentare l’Italia. Ne avremmo un gran bisogno.

[1] Carlo Bertani – Ladri di Organi – Malatempora – Roma – 2005.
[2] Fonte: L. Sani, C. Avallone, Notiziario missionario dei Servi di Maria.
[3] Fonte: Marina Jimenéz, National Canadian Post, 2004.
[4] Fonte: Marina Jimenéz, op. cit.

25 gennaio 2009

Pierrot

“Siamo circondati da immagini consumate, e ce ne meritiamo di nuove.”
Werner Herzog

Sovente, nell’osservare la drammatica rovina del Partito Democratico (8 punti in meno rispetto al risultato elettorale), ci siamo chiesti quale sia l’utilità politica di Piero Fassino.
La parallela domanda, che spesso aleggia più come battuta che come serio dilemma scientifico, sembra in simmetria con l’utilità della zanzara. Molti comici l’hanno sfruttata, giungendo a chiedersi il senso della sua esistenza.
Non ho una risposta scientifica da offrire, e nemmeno la cerco, perché ci sarà senz’altro: “distribuendo” dosi di sangue da un animale all’altro, ad esempio, la zanzara coopererà anch’essa alla selezione. Ce ne saranno senza dubbio delle altre, riguardanti specifiche nicchie ecologiche.

Su Piero Fassino, invece, per quanto mi scervelli non riesco a trovarne una che soddisfi: D’Alema sarà il più furbo, Parisi il più rompicoglioni, Rutelli il più voltagabbana. Almeno, si riesce a trovare un aggettivo.
La tristezza di uno scrittore nasce quando non riesce a trovare aggettivi poiché, nel costruire una frase, se i sostantivi ed i verbi rappresentano il tratto a matita originario sulla tela, gli aggettivi sono il colore. Senza aggettivi, non potremmo scrivere: sarà per questa ragione che pochi s’interessano a Piero Fassino?
Il problema è che, quando s’inizia a scrivere qualcosa su Fassino, nella Gestalt della mente svanisce il colore: ogni tratto appare diafano, come se la tavolozza fosse inutilizzabile e rimanesse il solo carboncino. Essenziale – va beh, direte voi – ma Michelangelo, con il carboncino, sarebbe riuscito al più a tratteggiare un girone infernale, mica la Sistina!
Sicché, il povero Travèt torinese rimane spesso ai margini, poiché emana un alone in gradazioni di grigio: non è azzardato immaginare l’Insetto – avvertito del suo arrivo – chiedere agli scenografi d’improvvisare qualche spruzzo di colore…che so…d’invitare una bella ragazza in giallo/rosso e calze verdi, oppure indossa egli stesso una cravatta sgargiante. Altrimenti, lo scarno studio di “Porta a porta” si trasfigura in un’asettica camera operatoria per tracimare infine, quando il nostro Pierrot inizia a parlare, in una sala autoptica. L’umore degli ascoltatori precipita, e l’audience va a farsi benedire.

Riconosciamo che non è del tutto colpa sua: il grigiore dei casermoni FIAT, unito al nero dello Juvarra, non devono aver certo aiutato il piccolo Piero – infante e giovanetto – nel suo avvicinarsi al colore. Anche quando lo riprendono, nel suo studio per un’intervista, compaiono dietro l’enorme camiciona bianca sfilze di libri dai colori neutri. Al massimo, qualche copertina color ocra: questo, però, avviene solo quando è in vena d’appassionate esternazioni.
Sicché, nel mondo oramai tridimensionale dell’immagine a tutto tondo e delle animazioni fantasmagoriche, tale fenomeno, nitidamente antistorico, rende il Fassin da Torino una sorta di dinosauro mai contabilizzato dai paleontologi, e ci sovviene il dubbio che quando passerà a miglior vita – il più tardi possibile, ovviamente – prenderà nuova incarnazione in tal senso. Dopo il mostro del Loch Ness, quello del Lago d’Avigliana.

I politologi s’arruffano per comprendere l’amara ruina del Partito Democratico – che, da sola, conta milioni di cause, più le sottospecie – ma nel caso di Fassino basta il vecchio responso che ogni gineceo ben conosce: lo specchio. Potremmo consigliare di registrare i suoi interventi televisivi e d’osservarli, successivamente, con sguardo critico: l’umore non ci guadagnerebbe di certo, ma la consapevolezza sì.
Conscio del pericolo d’esser scritturato da ameni registi hollywoodiani per ruoli improponibili – film muti, tragedie in bianco e nero, pubblicità con “sconti famiglia” per le aziende di pompe funebri – quando ha saputo che Herzog s’interessava a lui per rimpiazzare l’estinto Klaus Kinski, ha valicato il Rubicone e s’è tinto d’azzurro.
Non vorremmo, qui, che qualcuno azzardasse un’improvvisa conversione a Forza Italia – regno dell’azzurro – poiché d’altro si tratta: il casermone berlusconiano, per il monachello torinese, è luogo troppo chiassoso.
Abbiamo scoperto per caso la vicenda, il suo viraggio ad uno stinto azzurro, cliccando semplicemente su un collegamento web. E ne siamo rimasti stupiti; non per la faccenda in sé: per il colore, ovviamente.

Piero Fassino (insieme a Furio Colombo ed Emanuele Fiano) è il fondatore di “Sinistra per Israele”[1], sorta nel 2005 dalle ceneri di una precedente associazione, nata subito dopo la guerra dei Sei Giorni (1967) per “spiegare” (!) alla sinistra italiana le ragioni d’Israele. Così, Pierrot, con aureola azzurra a sei punte e kippà sulla crapa, è il cantore, l’aedo che vaga spillando dal suo striminzito torace canzoni yiddish per la gloria di Tzahal. Il suo talento è pari a quello di Assurancetourix, il quale allieta le notti del placido villaggio di Asterix, e finisce per prendere sempre una mano di botte. Qualcosa li accomuna.

Leggiamo, sempre sul sito di “Sinistra per Israele”, che la loro proposta per la Palestina è quella, trita e ritrita, dei “due popoli e due stati”, che non ha mai generato nient’altro che due, distinti focolai d’odio. In seconda battuta, si cita anche la “Road Map”, vale a dire la proposta di quella banda d’ubriaconi sessuofobi che hanno regnato per due presidenze USA, i neocon.
Dietro a questo paravento, baluginano ombre che narrano di tentativi svaniti all’ultimo istante, di “buonevoglie” amareggiate, d’omicidi giunti – sventure che il Fato distribuisce ai mortali – per seppellire i loro volonterosi tentativi. Come “l’assassinio” di Rabin e la “malattia” di Arafat.
Questo è il modo per presentare la vulgata del cosiddetto “processo di pace”, al quale Pierrot non si sottrae: ipnotizzato? Incapace d’elaborazione? Connivente? Agnostico? Ecco, l’eterna difficoltà di trovare aggettivi per dipingere Piero Fassino!

Se, invece, vogliamo partire dagli atti, allora il panorama si rischiara per mostrare una landa infinita, sconsolatamente deserta.
Non c’è un solo impegno ufficiale, di parte israeliana, che certifichi la presentazione alla controparte di una proposta. Sfidiamo chiunque a presentarlo[2].
Gli israeliani si trincerano dietro la “generosa offerta” fatta da Barak ad Arafat nel 2000, ovvero “Gaza più il 97% della Cisgiordania”. Mai giunta, con i necessari crismi e con precisi confini, dal governo di Tel Aviv.
A parte il fatto che, le risoluzioni 242 e 338 dell’ONU (tuttora in vigore, e che Pierrot probabilmente avrà letto, visto che si sente “vocato” agli Esteri), assegnano totalmente quei territori allo stato palestinese, quel numero – “97”, che fa effetto – è una pia presa in giro. Perché?
Vediamo un esempio comprensibile per noi italiani.

Spicchiamo un salto nella fantastoria ed immaginiamo un ipotetico “movimento per la liberazione etrusca”, il quale chieda allo Stato italiano la cessione della Maremma e del Lazio.
Il Governo Italiano potrebbe concedere ai “rinnovelli Etruschi” il 97% del Lazio e l’intera Maremma, pressappoco la provincia di Grosseto, ponendo però alcuni “paletti”. In primis, vorrebbe mantenere il completo controllo delle frontiere aeree, marittime e terrestri della nuova “Etruria”.
In seconda battuta, concederebbe sì il Lazio, salvo la città di Roma, i porti di Civitavecchia e di Ostia, gli aeroporti, le linee ferroviarie, le autostrade e le vie consolari. Inoltre, tutte le strutture legate alla produzione ed alla distribuzione dell’energia, quelle per le telecomunicazioni ed i siti militari.
Operando un bruto calcolo percentuale, probabilmente la nuova “Etruria” riceverebbe il 97% dell’intero territorio: potrebbero, i nuovi “Etruschi”, ritenersi soddisfatti del risultato?

Questo è un paragone abbastanza calzante, poiché indica la situazione di Gaza e della Cisgiordania, quest’ultima infarcita di colonie israeliane, con relative installazioni militari.
Il problema della suddivisione del territorio non è tecnico – poiché il nuovo stato palestinese dovrebbe avere continuità fra Gaza e la Cisgiordania, ma con una semplice autostrada (e relativi sottopassi) sia Israele, sia lo stato palestinese potrebbero avere continuità, Israele verso il Neghev e Gaza essere collegata a Ramallah. I nodi sono, in realtà, politici: dopo Wye Plantation, si susseguirono gli incontri a tre (Clinton, Barak ed Arafat) e si narra che Clinton, all’ultimo round prima di lasciare la presidenza, consumò un’intera Parker disegnando possibili mappe. Alla fine, spaccò il tecnigrafo.
C’è poi la questione di Gerusalemme.

Gerusalemme è divisa in una parte antica, ad est, ed in una nuova ad ovest. Le “teorie” dei due stati hanno sempre previsto la parte est ai palestinesi e quella ovest agli israeliani: ovviamente, entrambi vorrebbero l’intero il boccone.
La differenza, però, è che mentre i palestinesi non sembrano così interessati alla parte moderna della città, gli israeliani non vogliono cedere la parte antica, nella quale sorgono i ruderi del Tempio di Salomone, distrutto dai Romani nel 70 d C. per sopprimere il nazionalismo giudeo.
Ora, i più volenterosi potranno affermare: non sarebbe possibile suddividere la città in modo che il muro del Tempio rimanga agli israeliani e la Moschea di Al-Aqsa (terzo luogo sacro dell’Islam) ai palestinesi?
Cosa non semplice da attuare, giacché la Moschea di Al-Aqsa fu costruita, successivamente, proprio sui ruderi del Tempio di Salomone, tanto che alcuni gruppi estremisti israeliani avrebbero desiderato farla saltare con l’esplosivo[3].

Un grave problema, che non molti conoscono, è rappresentato dalla “memoria della pietra”. Come ben sanno gli archeologi, le ultime vestigia a scomparire di una civiltà sono proprio le pietre, intese come blocchi lavorati dall’uomo.
La distruzione del Tempio di Salomone comportò, ovviamente, la creazione di un bel mucchio di macerie, con le quali – a quel tempo non si sprecava nulla! – furono costruite (nel periodo aureo musulmano) molte case nella città vecchia.
Nel tempo, gli archeologi israeliani sono riusciti a ricostruire la provenienza di quelle pietre – disseminate nelle viuzze e nei muri della città – e le hanno catalogate: non hanno certo perso tempo e fede gli ebrei più ortodossi, che le considerano sacre (Salomone) e si recano di fronte ad esse per pregare. Chiunque sia stato a Gerusalemme est – la parte araba – avrà notato gli ebrei ortodossi in spolverino nero (con quel caldo…) che dondolano salmodiando: ecco, un ulteriore e serio ostacolo alla suddivisione della città, poiché quelle persone votano, e voteranno sempre chi difenderà (per la causa sionista) quelle pietre.
La soluzione della divisione del territorio, quindi, ci pare una pia presa per i fondelli, giacché non sarà mai trovato un accordo praticabile. A meno che, si consideri “praticabile” una sorta di “Bantustan”, con istituzioni “democratiche” sul modello Kosovo e piantonato all’infinito dalla Nato o da chi per essa.
Gli israeliani affermano – e “Sinistra per Israele” con loro – che manca una credibile classe dirigente palestinese. Non si può – affermano – sono solo straccioni esaltati…

Spesso, sentiamo accusare le dirigenze arabe dei movimenti insurrezionali di sciovinismo, un mix di nazionalismo e valori religiosi fuorviati, ai quali non corrisponde – per contrappeso – un’organizzazione politica in grado d’assumere la reale gestione d’entità politiche e statuali.
In primis, riflettiamo che – con un simile “treno sempre in corsa” di guerre, attentati, ritorsioni, ecc – è ben difficile che un’organizzazione sul territorio riesca a crescere fino a diventare un valido interlocutore. Gli israeliani, di certo, non hanno nessun interesse affinché questo percorso si compia.
Esiste però il caso di Hezbollah: partito politico, movimento popolare e milizia territoriale.

Hezbollah non nasce casualmente dal mondo sciita (anche se, come partito politico, non comprende solo sciiti) poiché l’Islam sciita è quello che, tradizionalmente, possiede una gerarchia religiosa, della quale è invece privo quello sunnita.
Tutti gli ayatollah di fede sciita, siano essi iracheni od iraniani, hanno studiato a Qom, che è la “città universitaria” religiosa dell’Iran: una sorta di “Università Lateranense” del mondo sciita, se mi si passa il paragone (con le dovute, ovvie differenze).
Il mondo sunnita è invece privo di strutture gerarchiche – il che sembrerebbe concedere maggiori spazi interpretativi della dottrina (il discorso, qui, sarebbe veramente complesso[4]) – ma, per contrappeso, non esistono autorità riconosciute erga omnes.
Un Imam può divenire famoso – nel senso di molto ascoltato come persona saggia e colta – ma non avrà mai nessun crisma ufficiale: un ayatollah, invece, occupa un preciso spazio in una gerarchia.

La tradizione sciita, quindi, “entra” nell’universo politico portandosi appresso l’impostazione religiosa: difatti, Hezbollah è un movimento che assegna molta importanza all’organizzazione interna.
Hamas, pur vivendo in una realtà sunnita, ne ha ricalcato l’esempio: nacque principalmente come struttura di supporto sanitario e sociale per i palestinesi, e – anche se ricevette a suo tempo finanziamenti sauditi, provenienti dalle istituzioni caritatevoli islamiche da essi controllate – oggi se n’è distanziato e guarda più all’Iran.
La creazione della struttura politica, e poi militare, avvenne parecchi anni dopo la nascita di Hamas come associazione di supporto sociale, e questo fu il “grimaldello” che scardinò il potere della corrotta Fatah[5] fra i palestinesi. Nel penoso welfare dei Territori, era il medico di Hamas a salvarti la pelle.
Hamas sembra avere nel suo DNA più l’impostazione organizzata di Hezbollah, piuttosto che la prassi “spontaneista” degli altri movimenti palestinesi.

Gli altri movimenti palestinesi di derivazione marxista-leninista, nella regione, sono entrati spesso in contrasto gli uni con gli altri, chi oggi schiavo di un “padrone” estero, domani di un altro: spesso, la corruzione ha guidato molte mani.
Vorremmo avvertire il lettore che la semantica delle lingue europee non può dipingere con precisione il mondo arabo, poiché la lingua vive un rapporto dialettico con i mutamenti sociali, e le vicende della sponda Nord e di quella Sud del Mediterraneo hanno vissuto stagioni storiche assai diverse. Dovremmo, ad esempio, approfondire l’approccio arabo al marxismo: Nasser, Assad, Hussein, ecc…e sarebbe necessario un trattato, non un articolo.
Ciò che appare evidente è la ferma risoluzione israeliana di contrapporsi – subendo, come nel recente caso di Gaza, danni d’immagine considerevoli – proprio a quegli Stati ed a quei movimenti che potrebbero diventare interlocutori credibili.

Vorremmo chiedere, allora, alla “sinistra” (ovviamente, italiana) “per Israele” di spiegarci perché la dirigenza israeliana demonizza proprio le forze politiche più organizzate (che potrebbero essere interlocutori validi) e preferisce loro quelle più “spontaneiste” e difficilmente controllabili (o corrotte), le quali possono trasformarsi rapidamente in “schegge impazzite” di matrice terrorista.
Per una volta, teniamo fuori dal “conto” missili, ritorsioni, sangue e morti: se finiamo in questo budello, sappiamo che ce n’è per tutti. La nostra domanda alla “Sinistra per Israele” è chiara: perché Israele tenta da anni, regolarmente, la distruzione di forme politiche organizzate nei Territori? Per lamentarsi, dopo, di non trovare validi interlocutori?

Che ha da rispondere, “Sinistra per Israele”, per la sistematica disinformazione compiuta sui discorsi del presidente iraniano Ahmedinejad – si scoprì che le traduzioni erano commissionate a strutture “contigue” ai neocon americani[6] – così si continua a far credere che l’Iran lavori per la distruzione d’Israele. Il che, se si leggono le traduzioni ufficiali dell’ONU (non sto parlando di quelle iraniane) appare falso, poiché Ahmedinejad sostiene la lotta contro il sionismo, ossia l’espansione d’Israele in Oriente. E, riguardo alla sopravvivenza d’Israele, ha sempre affermato che è la dirigenza israeliana stessa a metterla in pericolo, come oramai sostengono anche insospettabili media occidentali[7]. Infine, ricordiamo che in Iran vive la più numerosa comunità ebraica del Medio Oriente.

Non menzioniamo nemmeno la penosa querelle del nucleare iraniano – che è civile, e che per diventare militare necessiterebbe almeno di un decennio – ricordando che nessun trattato internazionale proibisce la costruzione di una centrale elettro-nucleare. E nemmeno, a rigor di logica, le nazioni “nucleari” hanno titolo giuridico per opporsi al riarmo altrui.
Sull’altro piatto della bilancia, ci domandiamo perché Israele non batté ciglio quando i sauditi – pochi anni or sono – ristrutturarono il loro apparato missilistico (ufficialmente “convenzionale”) con massicci acquisti in Cina e shelter corazzati per la protezione degli ordigni. I quali, si presume che siano dotati – oltre alle solite testate esplosive – di quelle chimiche e batteriologice, che non è possibile affermare (nessuno le ha mai lanciate) se siano più o meno distruttive (per i danni causati alle popolazioni) di quelle nucleari.
Invece, pare che le armi più pericolose siano i missili Qassam – perché sono vicini? – ma allora non si comprende perché lo siano gli Shahab 3 iraniani (che sono lontani). Dobbiamo scandalizzarci, poiché una nazione che non ha mai firmato protocolli d’intesa sulla limitazione delle armi nucleari (per forza: ufficialmente, non le ha!), si lamenta se un’altra nazione produce missili che possono raggiungerla? Non dobbiamo? Chiediamo allora a Pierrot: chi ha il monopolio dell’armamento balistico? E l’atomica pakistana? Israele non sapeva nulla? Gli USA nemmeno?
Siamo certi che Fassino si trova in buona compagnia con questa bizzarra impostazione: senz’altro, Kissinger e Churchill (come perfetti rappresentanti dell’imperialismo e del colonialismo occidentale) approverebbero.

Ciò che più c’interessa sapere da Fassino, nella sua veste di fondatore di “Sinistra per Israele” – lasciamo fuori gli israeliani, i loro siti di informazione/disinformazione e la prevedibile “offensiva” sui blog, la questione riguarda noi italiani ed il nostro rapporto con Israele – è come spiega questa “naturale” propensione d’Israele a distruggere ogni forma organizzata fra i palestinesi (e non solo: il Libano?), per poi lamentarsi di non trovare interlocutori validi.
Alla luce della politica europea e del diritto internazionale, come giudica Pierrot questa prassi? Confida ancora che sia credibile – dopo Gaza – la via dei “due popoli e due stati”?
Perché Fassino – il quale non manca mai di ricordare che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente – non prende in esame, anche per Israele, la soluzione cercata e poi trovata in Europa per le guerre di religione? Senza tornare ad Augusta, non basterebbe dichiarare che gli abitanti di qualsiasi stato veramente democratico – senza distinzione di razza e di religione – hanno uguali diritti e doveri nei confronti dell’autorità statale? Perché i palestinesi – dopo 40 anni dalla guerra dei Sei Giorni – sono ancora discriminati nei “Bantustan”? Perché non hanno gli stessi diritti degli israeliani? Poiché non possono vivere tutti in un solo stato, come qualsiasi democrazia occidentale? Perché Israele non ha una Costituzione, ma solo un compendio di norme le quali – guarda a caso – sono mediate direttamente dalla Torah? Gli pare un solido “basamento” per una democrazia? Non stiamo parlando del Vaticano o di San Marino, bensì di una potenza nucleare e del (probabile) terzo esercito del Pianeta.

Come può, un uomo politico il quale ha giurato fedeltà ad una Repubblica, la quale afferma l’uguaglianza giuridica “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali[8], assegnare il suo sostegno ad una nazione che non rispetta questo basilare principio?
Ricordiamo la penosa querelle scatenata per le contestazioni alla Fiera del Libro di Torino lo scorso anno, la contrarietà di molti alla sua intitolazione ad Israele. Invitiamo Fassino a compiere una riflessione: qualsiasi “per” – per contrappeso – genera un “anti”, il che significa condurre a forza nel nostro Paese l’impostazione di scontro che vige fra Israele ed i palestinesi. Questo impianto, preclude alla nostra diplomazia qualsiasi “patente” di “terzietà” nei confronti dei contendenti: “per”, Fassino, “per”, lo rammenti.
Da ultimo, vorremmo ricordare che la prima firma in calce, fra i sostenitori dell’associazione, è quella di un avvocato napoletano, tale Giorgio Napolitano. Ora, il cittadino Napolitano è libero d’apporre la sua firma ove desidera: qualora fosse – per caso – il Presidente di una Repubblica, dovrebbe – a nostro avviso – porre maggior attenzione alle firme che appone, poiché sigla a nome del popolo italiano. Ogni commento è superfluo.

Chi scrive, ben conosce l’ambiente dell’ebraismo torinese, il quale ha sempre guardato – per tradizione – a Piero Gobetti e non so come prenda oggi le “giustificazioni” della Livni per Gaza: rammenti, Pierrot, le figure che hanno reso fulgida, per genuino liberalismo, quella tradizione (che non riporto nemmeno, le conosce benissimo). E rifletta.
Aspettiamo una risposta come uomo politico, perché il Partito Democratico ha perso due punti percentuali in una settimana e non comprende il perché. Anche chi – come il sottoscritto, che ci tiene a precisarlo – non vota più da tanto e nulla ha a che spartire con quel partito, ritiene che una risposta – la seconda forza politica del Paese – dovrebbe darla ai suoi elettori e sostenitori. Altrimenti, sarà condannato ad una continua emorragia, fino al collasso finale.
Noi, che siamo freddamente insensibili ai destini del Partito Democratico, siamo pazienti ed attendiamo Pierrot: altrimenti, continueremo a domandarci se la zanzara serva a qualcosa.

[1] www.sinistraperisraele.it
[2]Israele accetta di attuare i primi due dei tre ritiri militari previsti in Cisgiordania. In un primo momento l'esercito israeliano si ritirerà dal 13% del territorio cisgiordano: l'1% passerà sotto controllo totale dell'Autorità palestinese, il 12% sarà posto sotto l'autorità civile dell'Autorità palestinese, il 3% di esso costituirà una "riserva naturale" dove saranno limitate le costruzioni. Le parti formeranno un comitato incaricato per esaminare le modalità della terza fase del ritiro previsto dagli Accordi di Oslo.”
Fonte: http://www.conflittidimenticati.it/cd/a/17488.html.
Come si potrà notare, le concessioni israeliane sono sempre state piuttosto “tiepide”: altro che il “97%” della Cisgiordania.
[3] Fonte: Benjamin Barthe – Fouilles archéologiques, outil politique des colons de Jérusalem - Le Monde – 20 Febbraio 2008.
[4] Consiglio, a chi desiderasse approfondire l’argomento, la lettura del mio “La democrazia della mezzaluna” (http://www.carlobertani.it/la_democrazia_della_mezzaluna.htm).
[5] Basti ricordare, in un panorama di povertà estrema, la rendita da nababbi concessa alla vedova di Arafat.
[6]Fonte: http://onlinejournal.com/artman/publish/article_1559.shtml. Riportato anche da parecchi siti e blog italiani, con il titolo “Creare mostri”.
[7] Fonte: Michelle GoldbergIsrael free ride ends – pubblicato dal “Guardian” britannico – 13/01/2009 - http://www.guardian.co.uk/commentisfree/cifamerica/2009/jan/13/us-media-israel-gaza.
[8] Costituzione della Repubblica Italiana, art. 3.

20 gennaio 2009

Caro George

Aspettavo questo giorno dal 2000, e finalmente è giunto. Non che m’attenda chissà quali miracoli dal tuo successore ma, quando un vero rompicoglioni come te se ne va, un po’ si gode.
Qualcuno, fra gli storici e le grandi firme del giornalismo “embedded”, già azzarda bilanci sulla tua presidenza. Ora, non vorrei apparire blasfemo, ma soltanto prendere in esame un caso come il tuo è l’evidente certezza d’aver sbagliato mestiere. Braccia rubate alla terra. Consiglieremmo, a chi desiderasse addentrarsi nell’analisi storica del tuo operato, di prendere prima in esame un dubbio: devo ristudiare la Storia dal libro di Prima o di Terza Media?
Perché?

Poiché, a voler ben cercare, non si riesce a trovare un appiglio al quale aggrapparsi. Pochi hanno fallito in tutto, ma proprio in tutto, come te.
Il tuo problema, caro George, è la creduloneria. Mentre tutti sapevamo che le cazzate sparate dai neocon e da New American Century erano tali, tu hai davvero creduto che fossero verità distillate.
Il “Nuovo Secolo Americano”: lo ricordi? Rammenti gli appassionati sermoni di William Kristol, che accusava Clinton d’essere un traditore perché non seppelliva tutti a suon di bombe per dominare il Pianeta?
Tu sei solo un povero citrullo, e ci hai creduto: capita ai sempliciotti, un po’ meno se dovessero essere il Presidente americano.
Kristol, giusto un anno or sono, fiutò l’aria che tirava e preferì trovarsi una scrivania da scaldare al New York Times, il quale ricevette – quando fu comunicata la notizia – migliaia di mail di protesta dai suoi lettori in un solo giorno. Anche la redazione non fu tanto carina: “Potrà anche non essere il benvenuto, ma sopravvivremo” fu il commento.
Per te non basterà una scrivania per nasconderti: forse sarà meglio un “ritiro” perpetuo a Crawford, fra un sermone ed una bottiglia. Perché?
Poiché prendesti in mano una nazione che non era certo all’apice del suo fulgore, mica erano i tempi di Eisenhower, però non stavate malaccio – dai, ammettilo – e l’hai ridotta in una landa desolata, dove la gente non ha più lavoro né casa.

In genere, le presidenze americane sono segnate da una prevalente attenzione verso l’interno o verso l’estero – non uso termini come “isolazionismo”, perché so che ti sono ostici, soprattutto perché sei abituato a leggere i libri al contrario[1] – ma tu hai fatto meglio: sei riuscito a rovinare il tuo Paese ed a gettare il mondo in una fornace di guerre.
Il panorama interno si fa presto a definirlo: sotto la tua presidenza, la storica IBM è diventata Lenovo. Come dici? Che si cambia? Sì, ma la Lenovo è cinese, quel paese grande, che sta sopra l’India…allora: a destra dell’Africa, leggi “Oceano Indiano”, vai su, vedrai che la troverai…come? Non trovi nemmeno l’Africa? Eh, ma allora…
La General Motors e la Chrysler non “stanno tanto bene” ed hai dovuto quasi nazionalizzarle, roba da soviet del III millennio. La gente lavora perlopiù con il salario minimo di legge – circa 6 dollari l’ora – e non ha uno straccio di protezione sociale. Se perdono il lavoro, per compensazione le banche tolgono loro la casa: insomma, non ci sembra un gran che.
Hai fatto tutto questo perché eri assorbito dalle questioni internazionali? Ma…davvero ci credi?
Dovresti capirlo da solo, ma forse è meglio che qualcuno te lo spieghi.

Ancora credi che l’Iraq non sia stato un totale fallimento? Perché gli attentati ed i morti sono calati di un certo x%? Te lo spiego io il perché.
La vera ragione, caro George, è che alla resistenza irachena non serve più nemmeno sprecare troppo esplosivo: quello che sta avvenendo oggi, sono già i prodromi della resa dei conti finale fra sciiti e sunniti, i quali aspettano solo che ve ne andiate per farsi la festa finale. Voi, oramai, non c’entrate più niente: avete perso e basta.
Cosa succederà? Eh, mica ho la sfera di cristallo: passeranno probabilmente da un Saddam Hussein ad un Hussein Saddam o roba del genere perché – se l’obiettivo (facciamo finta di crederci) era quello di portare la democrazia in Iraq – la cosa è tragicamente fallita: la gente ha difficoltà a comprendere la “democrazia” quando s’ammazzano le famiglie ai posti di blocco. E con la partenza dei tuoi G-man, degli “aviotrasportati” e dei contractors, svanirà anche il petrolio iracheno per te (inteso come famiglia Bush) e per le compagnie targate Iuessé. Magari, dopo aver raddoppiato le proprie riserve petrolifere con quelle dell’est iracheno, gli ayatollah iraniani ti manderanno un biglietto di ringraziamento per Natale: sono gente educata.

Ma l’avventura irachena era stata preceduta da quella afgana: un altro, limpidissimo successo.
Siete partiti sprizzando missili da tutti i pori, poi cagando tonnellate di bombe ad ogni piè sospinto, infine mitragliando la gente dall’aria e dai vostri SUV corazzati. Dovevate prendere Bin Laden, Al-Zavahiri ed il mullah Omar, e invece ve la state prendendo in quel posto. Omar, addirittura, è scappato facendo il “motostop” ad uno che passava.
Oggi, il tuo uomo a Kabul – Karzai – fa lingua in bocca con i Taliban, sperando di non essere impiccato, domani, al gancio di un carro-attrezzi con i testicoli in bocca, come capitò al suo predecessore Najbullah, quello sorretto dai russi.
Potrei darti, gratis, un consiglio: la prossima volta, invece di rivolgerti a Rumsfeld ed a Cheney, prova a chiedere di tali Spencer Bud ed Hill Terence, qui in Italia. Mi sa che sa la cavano meglio.

Un altro, importantissimo obiettivo di New American Century era sbattere definitivamente al tappeto la Russia: qui, dobbiamo riconoscere che qualcuno è veramente finito KO, ma non la Russia. Perché non hai inviato un paio di portaerei a sostenere la Georgia? Perché non avevate i soldi per la nafta? Dai, non contar balle: è perché vi siete cagati sotto. Mancava ancora che vi prendeste un paio di missili nel sedere: oh, missili veri, mica la roba di Hamas.
Non so se tu, dalla Casa Bianca, riesci a sentirlo ma io, da qui, percepisco un bisbiglio di timore che sale dall’Europa orientale: avevi assicurato ai due gemelli Kazinsky – i due Cip e Ciop polacchi – appoggio, basta che si mettessero di traverso agli affari fra Russia ed UE, e dei due – mi dicono – n’è rimasto solo uno al potere. Avevo sempre sospettato che Ciop fosse più furbo di Cip.
E ancora: che ci racconti del tuo amico Yushenko, “l’arancione” ucraino che faceva, di mestiere, l’esattore del gas? E se domani – faccio solo un’ipotesi “di scuola” – i russi s’incavolassero un pochino e decidessero d’usare il “sistema Georgia”, stufi di un esattore del gas che si crede presidente? Chi manderesti? I Berretti Verdi? Braccio di Ferro? Superpippo?

Il problema, caro George, è che di amicizie – qui in Europa – non ne avete più molte. Fiducia, poi. Sì, vi dobbiamo sopportare mentre tranciate i cavi delle funivie per una scommessa, quando fate i gradassi e pretendete pure di spisciazzare le vostre basi ovunque, come cazzo vi pare.
A parole, l’Europa si dice sempre “fiduciosa” del rapporto euro-atlantico, ma gli uomini d’affari volano in Cina, in India, in Russia, in America Latina. L’Europa, per voi, è levantina, e allora te lo dico in chiaro: qui, non vi caga più nessuno. C’è solo rimasto un azzimato giovanotto italiano che guida un partito a pezzi – tale Uoltér – a credere nell’America: l’altro, quello a Palazzo Chigi, per me è più furbo: ti “lecca” e finge.
Non so a quanto sia finito oggi il dollaro, ma sembra più una barzelletta che una quotazione: come si fa, a credere in una divisa che non pubblica più i certificati M3, vale a dire il numero ed il valore dei biglietti stampati? Non siete più una Zecca, siete diventati una stamperia clandestina, la zecca del Pianeta.

Già che parlavamo d’America Latina, lo sai che Evo Morales ha pubblicamente e formalmente denunciato Israele al Tribunale dell’Aia per crimini di guerra? Perché non lo “sistemi” con la CIA, come faceste con Allende? Ah, ho capito: nemmeno laggiù vi cagano più, e del “cortile di casa” v’è rimasto solo lo sgabuzzino delle ramazze, la Colombia.
C’è ancora qualcuno che nutre fiducia in voi…cioè…in te?

Sì, Israele.
Tel Aviv ha iniziato una guerra calcolando il tempo della tua dipartita e, senza il minimo senso di vergogna, la finisce poche ore prima che ti diano il benservito. Se Hamas gliela lascia finire, staremo a vedere.
George: a Gaza sono morti centinaia di bambini, donne, vecchi. Sì, anche qualcuno che sparava, ma una minoranza. Sai d’essere il principale responsabile di quei diafani, smorti visi di morticini?
Sì, George, perché hai posto il veto all’ONU affinché Israele non fosse fermato nel suo massacro, poiché solo di questo si è trattato. Come dici? Operazione militare?
Tu, di roba militare, faresti meglio a non aprir bocca: anche se ti sei fatto fotografare in divisa, sappiamo che hai fatto il soldato nella Banda. Suonavi il piffero, quando non eri troppo sbronzo.

“L’operazione militare” – cito dati dell’Esercito Israeliano – ha condotto alla distruzione del 60/70% dei tunnel clandestini per il rifornimento d’armi dall’Egitto. Ora, George, se tu avessi fatto il militare, sapresti che queste cifre sono gonfiate dalla propaganda ed inesatte in essere. Perché? Poiché, George, mentre tu suonavi il piffero a garganella, altri studiavano un po’ di storia militare ed apprendevano che gli obiettivi – spesso, è quasi inevitabile – vengono dichiarati distrutti da più ufficiali subalterni che colpiscono, in realtà, la stessa cosa. E’ sempre andata così, è quasi una tradizione: le perdite del nemico aumentano ed il morale ci guadagna.
Anche prendendo per buono quel 60/70%, però, i conti non tornano. Come si fa a scatenare una simile tempesta di fuoco, e a non riuscire nemmeno a distruggere completamente gli obiettivi? Me lo spieghI? Oh, mica erano bunker corazzati: erano tunnel nella sabbia!
Forse ne hanno lasciato qualcuno affinché Hamas possa ancora tirare qualche razzo, così lasceranno la bega ad Obama ed avranno altra benzina per attizzare il fuoco all’interno d’Israele, che un tempo era un luogo almeno passabile, mica la stazione di polizia più estesa della Terra ch’è diventata. E, gli israeliani – oramai privi di veri partiti politici, con un’informazione penosa e l’avvertimento, ad ogni passo, che il nemico è in agguato per ghermirli – finiscono per abboccare all’amo, dal “Premio Nobel” Peres al “tangentaro” Olmert, e vivono oramai in un nuovo lager, nel quale i reticolati sono invisibili, fatti di paura e vuota retorica.

La realtà, caro George, è che Israele ha approfittato dell’ultima occasione che aveva: non che la nuova amministrazione sarà così “benevola” con i palestinesi, ma uno straccio di decenza – se vorranno riconquistare un po’ di credibilità all’estero – dovranno applicarla, e non potranno certo permettersi simili “svarioni”. Insomma, hai terminato in bellezza, con il tuo solito stile: ma, cosa t’ha fatto di brutto mamma Barbara, per odiare così tanto i tuoi simili?

In effetti, caro George, viene da chiedersi se hai – in definitiva – favorito Israele o se l’hai condannato.
Gli israeliani hanno riscosso il loro tributo di sangue, uccidendo 1.500 palestinesi, ma non si capisce dove vogliano andare a parare. E come, se e quando potranno uscire da Gaza. Mai sentito parlare di Leningrado?
Questa non è una “vittoria” come quelle delle lontane guerre del ’67 e del ’73: questo è stato un massacro e basta. E nel mondo – del quale gli israeliani non si curano – la cosa è rimbombata troppo.
Nell’immaginario collettivo, Tzahal sta diventando un esercito che – se se la prende con gente almeno decentemente armata, Libano 2006 – le busca, mentre, quando può dar libero sfogo di potenza, non fa che ammazzare bambini.
E, nonostante le classi di governo le cerchino tutte per rimediare la frittata – addirittura Lucia Annunziata fa il beau geste di scappare di fronte alle immagini del massacro, perché non sa più cosa dire – le opinioni pubbliche europee (parliamo soltanto dei cosiddetti “moderati”!) sono seriamente perplesse, quelle arabe incazzate, ma questo era nel conto.

Ciò che stupisce è la denuncia aperta e formale al Tribunale dell’Aia di Evo Morales – che non condurrà a nulla, lo sappiamo, ci penserà ad insabbiare tutto “Miss Jugoslavia”, Carla del Ponte – e la rottura diplomatica di Chavez, che ha rispedito a casa l’ambasciatore israeliano.
Se i due presidenti sudamericani potranno essere ignorati, sarà un po’ più difficile fare spallucce alla denuncia di Richard Falk, inviato speciale dell’ONU nei territori palestinesi – per altro, ebreo, a dimostrare che Israele non ha cooptato nella sua politica assassina tutti gli ebrei della Diaspora – il quale ha esortato il Tribunale dell’Aia ad indagare sui fatti di Gaza, accusando Israele di “crimini di guerra”, “tendenze genocide”, “risvolti da Olocausto” ed un’accusa terribile: “Olocausto in corso”. Vedremo “Miss Jugoslavia” come se la caverà, se riuscirà a scapolare lo scoglio: perché, quando interviene un organismo ufficiale come l’ONU, non è così facile voltarsi dall’altra parte, soprattutto perché – a livello d’immagine e mediatico – Israele s’è appiccicato da solo addosso la pelle del lupo.

La situazione trova un interessante parallelismo nella vicenda sudafricana: dopo i massacri di Soweto, giunse l’embargo – che non fu mai rispettato – ma arrivarono anche i concerti di solidarietà ed altre iniziative, e la causa sudafricana non poté più essere ignorata.
Dappertutto ci sono segni d’insofferenza, da Capo Horn allo Stretto di Bering: i governi sono in imbarazzo, s’inizia a parlare di sanzioni per Israele. Insomma, sembra che stella a sei punte sia in fase calante nel Pianeta, e dobbiamo stare attenti a non scambiare la ferma risoluzione d’inchiodare Israele alle sue responsabilità con l’antisemitismo il quale – per chi non l’avesse ancora capito – fa il gioco di Tel Aviv.
C’è chi chiede perché debba sedere all’ONU una nazione che non ha mai depositato i suoi confini, che non rispetta nulla, che non concede nemmeno gli aiuti umanitari, o che se li concede poi bombarda ospedali, scuole ed ambulanze, che fa solo una politica di potenza quando non se la può più permettere.
Perché?
Poiché la potenza israeliana è basata sull’assistenza militare statunitense – questo, almeno, lo sai? – e se domani l’America va in bamba, strangolata da una crisi economica devastante, i quattrini per far volare gli F-16 non si troveranno più.
Insomma, con Gaza – caro George – mi sa che hai fatto Bingo: credimi, non trovo un personaggio storico da mettere almeno un gradino sopra di te per paragone. Sarebbe, per la sua memoria, un insulto.
Non credo quindi sia possibile dare un giudizio storico sulla tua presidenza, George, mi sembra un lavoro inutile e poco proficuo: sei un “fuori quota” della Storia.

Per tutti i morti che hai seminato, George, mi chiedo cosa dirà il tuo predicatore, quello che ti ha salvato dall’alcool. Fossi rimasto a bere: chi può ancora affermare, dopo averti visto all’opera, che la politica sia meglio dell’alcolismo?
Da parte mia, caro George, ti manderei volentieri all’Inferno. Ai lettori, prosit.

[1] Il tentativo di Paolo Attivissimo, di mostrare che la foto nella quale Bush legge il libro al contrario è una bufala, non mi ha convinto. Spero, almeno per lui, che gli abbia fruttato qualcosa.

05 gennaio 2009

L’incapacità di vivere dimenticando i fili spinati

“E cosa sta facendo la nostra gente in Palestina? Erano servi nelle terre della Diaspora e d'improvviso si trovano con una libertà senza limiti, e questo cambiamento ha risvegliato in loro un'inclinazione al dispotismo. Essi trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, gli negano i diritti, li offendono senza motivo, e persino si vantano di questi atti. E nessuno fra di noi si oppone a queste tendenze ignobili e pericolose.”
Ahad Ha'am – Zionism: the Dream and the Reality – Harper and Row – New York – 1974.

In questi giorni di sgomento e rabbia, incredulità ed angoscia, stiamo osservando l’ennesimo capitolo dell’infinito tormento palestinese, che già sappiamo non sortirà effetto alcuno, né fra i palestinesi – che si ritroveranno uniti per qualche tempo, per poi ricominciare l’eterno dissidio interno – né per gli israeliani, i quali non potranno rimanere a Gaza – sarebbe come riportare il morto in casa – e s’accontenteranno di qualche anelito di vittoria: vera, presunta, addomesticata dai media, velleitaria e che provocherà altri dissidi interni.

La partita, più che sul campo di battaglia, si gioca sulla capacità di resistenza politica nel tempo il quale – già sanno entrambi i contendenti – non potrà superare le poche settimane, come tutte le guerre degli ultimi anni. Oramai, si fanno le guerre nei periodi di vacanza – il Libano durante le vacanze estive, nel 2006, idem la Georgia nel 2008 – ed oggi sotto Natale: come le “importanti” riforme della politica italiana, che arrivano sempre a Luglio.
Oramai, per bastonare le popolazioni sempre più disilluse, bisogna contare – in qualsiasi modo – sulla massima “distrazione” degli altri. Perché, nel caso della Palestina, si tratta di un vero e proprio vulnus al diritto internazionale.

La pantomima internazionale prevedeva da tempo questo attacco – perché la diplomazia israeliana non si fida della nuova amministrazione americana (staremo poi a vedere…) – ed aveva bisogno del “classico” veto all’ONU. Che, il “glorioso” Bush, non ha fatto certo mancare.
Che si tratti di una colossale presa in giro del diritto internazionale, ci vuole poco a capirlo, anche per chi non ricorda le risoluzioni dell’ONU in materia.
Gran parte della responsabilità ricade sulla dirigenza israeliana, inutile negarlo, perché non ha rispettato le risoluzioni[1] n. 242 del 1967:

· Ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nel recente conflitto.

e n. 338 del 1973:

2 - Richiama le parti in causa affinché immediatamente dopo il cessate il fuoco inizino l’applicazione della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, in tutti i suoi punti.

Lo status di “territori occupati” quasi non esiste nel diritto internazionale, giacché può riferirsi soltanto alle zone occupate dopo la fine delle ostilità, ossia nel lasso di tempo che intercorre fra un armistizio ed un trattato di pace. Che non può, ovviamente, durare decenni: in epoca contemporanea, le più lunghe occupazioni “temporanee” furono quelle della Saar, dal 1918 al 1935 e dal 1945 al 1957, entrambe però codificate nei trattati di pace e risolte con accordi franco-tedeschi.
Lo status giuridico dei territori palestinesi è un vero e proprio vulnus del diritto internazionale, e questo dovrebbero saperlo anche i politici italiani che blaterano sempre le stesse facezie in TV, ad ogni massacro. Sotto, c’è ben altro.
Immaginiamo cosa sarebbe successo se le truppe russe – scese in campo solo dopo l’attacco georgiano, è bene ricordarlo – avessero bombardato Tblisi – chiese, scuole ed ospedali compresi – facendo 500 morti e 3000 feriti. Immaginiamo cosa sarebbe capitato all’ONU. In Palestina, invece, è solo “difesa”.

Il progetto immaginato dagli israeliani per i “territori occupati” considera gli stessi come un facile serbatoio di manodopera a basso costo: più sono poveri, meno potremo pagarli. Così – anche se ultimamente sono state aperte le porte ad una modesta immigrazione orientale – i palestinesi sono stati e sono la forza lavoro per le mansioni di basso livello in Israele. La questione etnica, sempre rimarcata dalla destra israeliana integralista, non vede di buon occhio la presenza stabile in Israele d’altre comunità religiose: hanno dovuto accettare la presenza dei pochi “arabi israeliani”, ma l’hanno accettato obtorto collo. Figuriamoci se arrivassero schiere d’induisti, buddisti, taoisti, ecc.
Di conseguenza, la soluzione più vantaggiosa per Israele è mantenere una sorta di grande prigione a cielo aperto – della quale controllano tutti i rubinetti – nella quale le condizioni di vita sono inenarrabili e, ad ogni nuova incursione israeliana, più giovani passano nelle file di Hamas. Chi dà più retta alla corrotta ed imbelle dirigenza di Fatah? Ovvio che, presa coscienza del proprio status di prigionieri, si ribellano lanciando razzi: così non sarebbe se non si sentissero ostaggi degli israeliani. E, ad ogni nuovo attacco, Hamas si compatta all’interno e s’espande fra la popolazione. L’attacco israeliano, dunque, sortirà proprio l’effetto contrario rispetto a quanto viene comunicato dalle schiere di giornalisti “embedded”.

Viene da chiedersi, però, la ragione che spinge gli israeliani su questa strada, poiché – a fronte di qualche vantaggio economico nello sfruttamento dei palestinesi – ci sono spese militari che “corrono” da decenni, ed una situazione finanziaria che non è proprio rosea. Alcuni anni fa, le banche israeliane rifiutarono i mutui ai Comuni, poiché ritenuti inaffidabili: parola di banchieri ebrei.
La strana “convenienza” economica di mantenere per decenni uno stato di guerra permanente con tutti (o quasi) i suoi vicini è però accettata dalla maggioranza della popolazione, e questo è un dato che non possiamo passare sotto silenzio.

La percezione israeliana del mondo arabo nasce – è impossibile negarlo – dalla pretesa superiorità che nasce dalla Bibbia ebraica, ossia dal Pentateuco: tanti sono i richiami al “popolo eletto”, ed altrettanti ci credono fermamente.
Paradossalmente, pur essendo gli israeliani per la gran parte discendenti di famiglie europee, sembrano completamente stagni nei confronti dell’Illuminismo, fenomeno che riuscì a portare a termine – grazie all’importanza suprema assegnata alla Ragione illuminista – il processo iniziato nel XVI secolo con la Pace di Augusta, quel cuius regio, eius religio che – nelle intenzioni dell’epoca – doveva porre fine alle dispute religiose.
E’ stranissimo che un popolo formatosi in Europa e negli USA – e che tanto ha dato alle Scienze esatte – si mostri così refrattario nei confronti di principi universalmente accettati, quali il rispetto dell’altrui credo e cultura. I musulmani hanno mostrato e mostrano maggior propensione al rispetto, più dei cattolici, e l’Andalusia dei Mori è ancora là a testimoniarlo. Gli israeliani disprezzano gli arabi e la loro cultura – rispetto alla quale tutti abbiamo il diritto d’affermare che non accetteremmo mai per noi – ma che non possiamo più permetterci, dopo essere stati colonizzatori, di disprezzare.

I veri pasticci sono venuti dopo, ed hanno avuto come attori non i musulmani – i quali, all’epoca, erano colonizzati – ma le cancellerie europee con le promesse d’indipendenza di Lawrence (in cambio dell’appoggio contro i Turchi), smentite e tradite dal successivo trattato di Sèvres del 1920.
Nonostante le rassicurazioni di Balfour, dopo la Seconda Guerra Mondiale la Palestina si trasformò in una terra di nessuno, dove la ragione del più forte – perché più organizzato – contava su personaggi come Menachem Begin, il quale aveva la pessima abitudine di “dimenticare” bombe a mano nelle case degli arabi.

La sua “carriera” è una striscia di sangue, ed oggi parlano di “terrorismo”. Da Wikipedia:

Il 25 aprile 1946 guida personalmente un commando che attacca un garage inglese uccidendone tutto il personale addetto.

Il 22 luglio 1946 è alla testa del gruppo di terroristi che fa esplodere l'Hotel King David di Gerusalemme, provocando la morte di 97 persone, in gran parte ammalati, feriti, medici e infermiere (l'hotel era adibito a ospedale militare).

Il 1 marzo 1947 uccide due ufficiali britannici in un circolo militare inglese.

Il 18 aprile uccide un passante con una bomba, in un'azione intimidatoria terrorista. Due giorni dopo lancia un'altra bomba contro un ospedale della Croce Rossa Internazionale di Gerusalemme.

Il 12 luglio 1947, con alcuni compagni, rapisce due sottufficiali britannici appena ventenni, Mervyn Paice e Clifford Martin: li tortura a lungo e li impicca poi con fil di ferro. Ai due cadaveri lega una bomba che ferisce i soccorritori sopraggiunti. (tecnica usata anche dai finlandesi con i prigionieri russi N. d. A.).

Tre mesi dopo dirige una rapina ad una succursale della Barclay's Bank e, nel fuggire col bottino, uccide quattro agenti di servizio.

Nel febbraio 1948 dirige un gruppo di terroristi in un attacco contro un ospedale britannico di Gerusalemme: risultato, tre militari feriti vengono assassinati nei loro letti.

Il 10 aprile 1948, il più odioso e più noto dei crimini delle lotte in Palestina: Begin mette a punto e dirige personalmente l'azione di rappresaglia contro il villaggio arabo di Deir Yassin, con l'uccisione a sangue freddo di tutti i suoi abitanti, compresi i vecchi, gli infermi e i bambini in fasce (il numero delle vittime varia, dal un minimo di oltre un centinaio di persone a un massimo di 254).

Costui è stato il fondatore del Likud, il partito di Sharon e Netanyahu. I primi ad usare l’arma del terrorismo furono proprio gli israeliani, che poi pensarono bene di promuovere Primo Ministro un simile pendaglio da forca.

Tutto sembra nascere da quel vasto fenomeno criminale europeo – perché non vi parteciparono solo tedeschi, bensì polacchi, ucraini, francesi, italiani, croati… – che fu la pietra angolare che segnò Israele: la Shoà. C’era da aspettarselo: a quel tempo, era normale che così fosse.
La perfidia assai strana è che coloro i quali, per anni, condussero le tradotte al macello non pagarono lo scotto: perché, ad esempio, la Germania non fu obbligata a cedere una parte del suo territorio per lo stato ebraico?
No: in pieno stile coloniale, l’assassinio di milioni d’ebrei (e non solo, è bene ricordarlo) fu pagato dai palestinesi, che c’entravano come i cavoli a merenda. E non stiamo a raccontare storie di Gran Muftì “nazisti” poiché, per contrappasso, potremmo ricordare chi – finanziariamente, per due guerre mondiali – sorresse lo sforzo bellico britannico.

Terminata la guerra, sarebbe stato meglio onorare chi morì nei lager e rendere così giustizia a tutti i perseguitati del tempo: cercando “un altro Egitto”, direbbe de Gregori.
Il movimento dei kibbutzim ci provò, e suscitò scandalo – in quegli anni – l’educazione collettiva dei giovani, la minor importanza della famiglia, ma questa è un’altra storia, che sarebbe bello raccontare se i kibbutz, oggi, non fossero diventati degli avamposti di Tzahal.
Ciò che avvenne in Israele, soprattutto dopo la guerra di Yom Kippur, fu la montante importanza di una nuova destra, che nulla aveva a che fare con la tradizione conservatrice.

La Shoà, da evento storico – patito sulla propria pelle, ma pur sempre evento storico – fu trasformato in fatto quasi religioso: nacque la retorica della Shoà, che ebbe in Yad Yashem il suo tempio, il nuovo tempio di Salomone.
Intere generazioni d’israeliani sono state cresciute in questa retorica, e l’avvento dei media planetari ha espanso ai quattro venti l’assioma che – un popolo così provato – avesse diritto ad un eterno risarcimento, a scapito di chiunque.

Il tentativo di Rabin – condurre Israele su una strada europea, perché anche in Europa avremmo rivalse e “crediti” a bizzeffe da esigere, la storia europea è un solo, terribile groviglio di massacri e ritorsioni – fallì perché andò a cozzare contro un muro, quello creato da anni di retorica: l’ebreo è sicuro solo in Israele, fuori dai suoi confini sono sempre all’erta le forze del male, pronte a distruggerlo. Salvo, poi, constatare che gli ebrei americani ed italiani se la passano molto meglio di quelli israeliani; a microfono spento, vi diranno: “fossi matto ad andare laggiù, col rischio di saltare per aria o di precipitare in una guerra l’anno”.

Le questioni geopolitiche contano, non lo nascondiamo, ma questi sono i sentimenti che la popolazione israeliana avverte: semplicemente, perché da anni viene bombardata su opposti fronti. Da una lato, quello biblico – con tutte le citazioni di fosche profezie, sul popolo eletto, ecc – e dall’altro per il ricordo della Shoà, la quale esige d’essere sempre all’erta, pronti a rispondere a qualsiasi attacco, costi quel che costi.
In definitiva, Israele non ha mai superato il trauma della Shoà, anche se quelli che si salvarono sono oramai quasi tutti andati per età: sono le generazioni successive che l’hanno trasformata nel cespite per qualsiasi avventura militare.

Lo Stato Maggiore di Tel Aviv sa benissimo che non potrà occupare Gaza (e dopo? quanti attentati?), e nemmeno sperare d’appiattire ai suoi voleri la popolazione palestinese, dopo tanti massacri e un così diffuso dolore. Una seconda Shoà.
“Finché c’è guerra c’è speranza” – titolo di un film di Sordi – sembra calcare alla perfezione per una dirigenza politica che ha saputo creare da una tragedia un mostro, la ripetizione eterna del ricordo. Guai a noi, se dovessimo serbare memoria e rancore per le guerre di religione o per le bombe incendiarie degli anglo-americani. Non ne usciremmo più: la Jugoslavia ne sa qualcosa.

La guerra in Jugoslavia fu generata da complessi avvenimenti che riguardarono soprattutto la divisione del debito estero fra le repubbliche federate, ma la gran parte delle genti – gli jugoslavi stessi – poco trassero, per odiarsi, dalle decisioni del Fondo Monetario Internazionale.
Ciò che alimentò la fornace fu il ricordo, l’imprinting lasciato/lanciato nelle generazioni, come ha magistralmente spiegato – più con il sogno felliniano che con le parole – Kusturica in Underground. Fantasmi del passato ripresero forma sorgendo da abissi che si pensavano dimenticati: le due divisioni delle Waffen SS islamiche, Handsar e Kama, tornarono a vivere intorno a Sarajevo, come la Skandenberg albanese, divenuta UCK. E poi cetnici nazionalisti della destra di Belgrado, partizan che combattevano per l’eterna causa serba, ustascia che sparavano nel nome della purezza etnico/religiosa croata.
Un coacervo di miasmi senza più reale valenza – nel senso del tempo che le espresse, la Seconda Guerra Mondiale, con le sue ideologie, i suoi nazionalismi ed i calcoli politico/strategici degli stati maggiori – nutrì per anni le gelide notti sui monti della Bosnia, sorresse fino all’ultimo respiro le battaglie in strada, fornì abbondanti giustificazioni per i massacri d’innocenti.

C’è una soluzione, al perverso e raccapricciante alimentare il ricordo per meri scopi di bottega?
Impossibile, se non mutano le premesse.
L’alternativa?

Israele fu per molti anni alleato del Sudafrica dell’apartheid, e la “teoria” dei “territori occupati” sa tanto di “Bantustan”: se non basta, rimangono a testimoniarlo le molte collaborazioni in campo militare, anche quando l’embargo internazionale contro Pretoria non le avrebbe consentite (i missili Gabriel, ad esempio, che armarono le motovedette d’entrambi i Paesi).
Il Sudafrica ha saputo uscire dal suo cul de sac con gran coraggio e lungimiranza: oggi non è certo tranquillo come un cantone svizzero, ma non fa parlare di sé – per massacri – almeno una volta l’anno.
Quella sudafricana è stata un’esperienza creata dal dialogo e dalla reciproca fiducia: riconoscimento che avvenne sia dalla parte dei neri sia da quella boera. Non dimentichiamolo.
Eppure, fu un azzardo che pagò, eccome.
Sull’altro piatto della bilancia, i bianchi sudafricani compresero che la dinamica demografica non li favoriva: non fu soltanto spirito filantropico, ma anche pragmatismo. Che, in ogni modo, funzionò, e potrebbe funzionare anche in Palestina – perché le dinamiche demografiche sono le stesse – se venisse meno l’assurdo principio di uno Stato basato su un’identità etnica e religiosa (peraltro, molto difficile da identificare).

Ci chiediamo se, tramontata ogni ipotesi d’avere due stati che vivono in pace separati, non sia da prendere in considerazione l’ipotesi più semplice, che qualsiasi Stato veramente democratico e moderno dovrebbe sostenere.
Quella di un solo Stato, con pari diritti per tutti e democrazia parlamentare: il sistema meno imperfetto che conosciamo, con tutti i suoi difetti. Una modesta ma concreta base di partenza.
Che ci sarebbe di strano? Non dovrebbe essere la comune prassi di uno Stato che si professa democratico? Non sarebbe una buona occasione anche per i palestinesi, accusati d’essere “refrattari” alla democrazia? Cosa spiazzerebbe di più le leadership integraliste (d’entrambe le parti), bombe e razzi o una proposta che sa di sfida per la democrazia?

L’ipotesi è meno assurda di quel che si pensi, se si riflette sulla alternative.
Israele non potrà mai vincere contro i suoi vicini: sono troppi, e la demografia li avvantaggia. Oramai, i flussi migratori verso Israele sono cessati da tempo.
Può solo perdere o “pareggiare” – mi si passi il paragone calcistico – ma questo “pareggio” è la tragedia alla quale assistiamo, che oggi avvelena di dolore e di rabbia i palestinesi e domani, ad operazione conclusa, ci dirà quante famiglie israeliane piangeranno un loro figlio.
Il sogno della “Grande Israele” è tramontato con il ritiro dal Libano e la mezza sconfitta del 2006: perché continuare in questa assurda tragedia?
Nessun morto nella Shoà ne trarrà vantaggio, e nessun israeliano potrà mai sperare di giungere ad un così completo dominio da scapolare le sue paure ancestrali. Nessun popolo eletto, nessun popolo massacrato.

[1] Il testo completo delle risoluzioni è reperibile in “Libano 2006: il peggiore dei deja vu”, dello stesso autore, facilmente reperibile sul Web.