28 agosto 2009

Come le rose

Raccolti tutti i jolly che s'è lasciato dietro,
scopri che non t'ha lasciato molto, neanche una risata.
Come ogni giocatore, stava cercando quella carta così alta e da sballo,
da non dover più giocare un'altra mano.

Leonard Cohen – The stranger song – 1967.


Basta gettare un’occhiata alla prima pagina del giornale per capirlo, per comprendere che la tua morte è stata un grido di dolore: inascoltato, lanciato a ferire il cielo come l’urlo nella notte.
Eppure oggi è mattina, i fantasmi della notte trascorsa quasi insonne a filtrare il buio della stanza sono scomparsi, annichiliti da poche ore di sonno prima dell’alba. Non so perché succede: capita e basta, e non me ne curo.
Oggi è mattina e quattro studenti svogliati traducono qualcosa di Fedro o di Esopo…tanto per riempire qualche foglio vergine, e tacitare i sensi di colpa di chi li conduce fin qui, in quest’aula fresca di fine Estate, per pagare dazio e mostrare che, almeno, si rispetta l’istituzione. Poi verrà lo scrutinio, e tanti saluti: se a Giugno si saltava tranquillamente dal 5 al 6, a Settembre si volerà dal 4 al 7. Tutti saranno soddisfatti.
Capisco subito, appena leggo il trafiletto che richiama al servizio nelle pagine interne, che la tua morte ha colto nel segno, più di Eluana. Almeno, qui nella Repubblica di Genova, sulle colonne del vecchio giornale che ci rammenta nel nome i fasti di, oramai, due secoli or sono.

E non si venga a dire che questo è sapor di giornalista, voyeurismo di provincia: quando si muore impiccati alla testiera del letto, nella grande Genova, con accanto il figlio strangolato d’appena venti giorni, fa bene il giornalista a spiattellarlo ai quattro venti. Si potrà affermare che lo fa per vendere qualche copia in più, ma non importa: i soldi – di fronte a quei due cadaveri lasciati in un appartamento lindo e sobrio, come afferma sorpreso il funzionario di Polizia – non contano niente.
Perché la tragedia ha in sé qualcosa di epico e terribile, di fatale e sconvolgente, che ti serra il fiato in gola, come se fosse scaturita dalla penna di Victor Hugo o di Fjodor Dostoevskij. Oppure dal sogno ad occhi aperti di Leonard Cohen, che prese forma in Beautiful losers. E’ una storia semplice, di carne e sangue, tradita nell’angoscia che non ha risalito la gola e l’ha serrata, perché anche i simboli celano qualcosa di terribile.

Tu – Sabrina – non ti sei impiccata alla testiera del letto: tu, ti sei lasciata scivolare via la vita di dosso, che è altra cosa. Non ci si può impiccare alla testiera di un letto, non è possibile darsi l’abbrivio e poi lasciare che sia il nostro corpo a combattere la battaglia per la sopravvivenza, già sapendo che non troverà appigli, che il destino sarà inevitabile.
No: la stanza da letto ha troppi appigli, il piede può trovare appoggio, le mani – disperate – possono arrancare per avvinghiare la presa. Tu, Sabrina, hai lasciato che le Parche recidessero con calma il tuo filo, con tutta la pazienza del caso.
Prima, avevi reciso tu stessa il filo di quel pezzo di carne che avevi generato solo poche settimane prima – e che curavi amorevolmente, così afferma il pediatra, con attenzione e cura – e che, nella caligine disperata, non hai saputo separare dal tuo Fato avverso.
E lo hai fatto con il cavo del telefonino: metaforicamente, hai reciso quella vita – che ritenevi parte di te, inseparabile – con l’oggetto che forse più ti tratteneva al mondo, l’unico appiglio dal quale – probabilmente – potevi ricevere conforto, ascoltare una diversa canzone. Così non è stato.

E’ già iniziata la cascata del discreto sciacallaggio, come chi afferma che sei cresciuta senza madre…poiché un giorno la mamma ti lasciò per lanciarsi nel vuoto, nel cortile di una casa di periferia.
Nel girone degli ignavi, si cercano ragioni e certezze per placare la propria ansia, non per cercare – anche se non serve più a niente – di capire la tua: se la madre, allora…similis similia solvitur…accarezzano gli strizzacervelli, ed a loro basta. Calmatevi, buona gente – già cantano ai quattro venti – è successo a Sabrina perché la madre le mostrò la via della rinuncia, della fuga: voi, che non avete avuto genitori suicidi, siete in una botte di ferro. Anche Attilio Regolo fu in una botte di ferro, ma non trascorse attimi sereni.

Poi c’è la sorella acquisita, dopo il secondo matrimonio del padre, che era “così brava”, laureata e compiuta come un fiore di serra, assicurata contro le intemperie da protettivi vetri. Tu, invece – fiore di campo – cercavi di mettere a frutto la sapienza delle tue mani fra i capelli della gente, per abbellire altri fiori di campo.
Ecco la seconda trappola: non siate incompiuti! Assicuratevi, legatevi con forza al carro che vi sostiene, non cercate la bellezza selvaggia della prateria, poiché nel gelo della notte potrete evocare fantasmi e farvi sciogliere dalla paura, contaminare da effluvi palustri che vi paralizzeranno, e diverrete polvere!

Alzo gli occhi sui pochi allievi che scrivono, consultano il vocabolario, si grattano la testa pensierosi ed il ricordo non può che correre ad anni lontani, al banco vuoto, improvvisamente vuoto. Di chi la colpa? Del padre che lasciò inavvertitamente la pistola carica in un cassetto agibile? Della cocaina che – si disse – t’aveva strappato le emozioni? Del mal di vivere di pavesiana memoria, del semplice mal di vivere che t’aveva corroso? Solo il banco vuoto rimase, e quanto tempo è trascorso.

Poi c’è il girone degli idioti, di coloro i quali ritengono che sia la “forza” dell’individuo a preservarlo dalla spalliera del letto, dalla fine, solinga, fra le moltitudini.
Tutti sono grandi yogi, quando la tigre è lontana”: è la sola massima che possiamo loro rammentare, mentre – fugaci, solide rocce che offrono il petto ai marosi – si beano d’esser baluardo che tutto arresta con la sola forza del pensiero.
Nessuno più rammenta Pascal, la piccola canna – seppur ricca d’intelletto – che s’agita e si piega al vento: meglio rifugiarsi nelle corazze delle certezze, che hanno condotto al naufragio fior d’armate di temprato acciaio.
E pochi rammentano che nemmeno gli Dei avevano potere sul Fato, che può chiamarti all’improvviso un mattino, e presentarti il conto più salato che tu possa immaginare. Starà a te scegliere, se combattere i marosi oppure lasciarti scivolare a fondo: molto dipenderà, anche, dai tuoi compagni di naufragio.

La mattina volge al termine, è ora di ritirare le versioni: addio – Sabrina – tu che sei vissuta nella grande Genova, e che oggi hai invaso, senza chiedere permesso, il suo impettito giornale.
Non c’è articolo che regga il confronto; in prima pagina, un pallido trafiletto rammenta un platonico scontro sul testamento biologico: tu, Sabrina, il tuo ce lo hai lasciato su quel letto, con il silenzio con il quale hai accolto chi ancora ti cercava.
Per un giorno, sul grande giornale della grande Genova, ci sei solo tu – ed è giusto che così sia – per rammentarci la nostra mancanza di mezzi, la privazione dei sentimenti in questo pallido conato del nostro tempo, nel quale tutto ciò che si offre è sempre un’offerta speciale, ed ogni “specialità” è sempre uguale a quella del giorno precedente, poiché è sempre un offrire senza amore, uno scambio di vuoti simulacri, senz’anima.
E troppe Sabrine, oramai, avrebbero dovuto aprirci gli occhi ma così non è stato, poiché questo non è solo il tempo dell’ignavia e dell’idiozia, ma anche quello dell’ignoranza.
Così, stemperiamo la nostra angoscia del non saper più riconoscere nell’altro il semplice essere umano, il calore empatico che potrebbe regalarci e, sempre di più, c’incaselliamo da soli nel cubicolo che, alla fine, c’accoglierà. Tutti. Sabrina, è solo un poco avanti.

I ragazzi hanno consegnato le versioni, i verbali sono stati firmati e sono rimasto solo, nella classe vuota, ad ascoltare lo sbattere delle sedie che i bidelli rimettono a posto. Addio, Sabrina: anche tu sei vissuta un solo giorno, come le rose.

23 agosto 2009

Il banco vince sempre

“…e lo Stato che fa: si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità.”
Fabrizio de André – Don Raffaé – dall’album Le nuvole – 1990.

La prima cosa che mi è saltata in mente, quando ho saputo della vincita di 150 milioni al Superenalotto, è stata “cosa ne avrei fatto”: come tutti, ho l’ardire di pensare.
Pur non giocando mai, talvolta queste fantasie mi prendono; ecco allora la mente popolarsi di slanciati velieri “da sogno”, oppure di tenute agricole sconfinate: ciascuno colorerà il proprio avvenire secondo le proprie inclinazioni.
Dopo che qualcuno ha vinto quella montagna di soldi, per un po’ di tempo le fantasie oniriche s’acquietano, come la corrente di un ruscello che trova pace nelle placide acque di un laghetto.
Sono intimamente convinto che, nel periodo successivo a queste vincite, se potessimo indagare, misurare la salute psichica della popolazione scopriremmo che subisce un colpo, quasi un trauma. In fin dei conti, non essere fra i fortunati significa far parte degli esclusi, e i nostri umori più segreti poco si nutrono di raziocinio.
Sorge però alla mente un dilemma: perché le vincite sono sempre più alte, addirittura stratosferiche, al punto di raggiungere numeri di solito riservati ai grandi bilanci aziendali, oppure a leggi di spesa? E’ sempre stato così?

I ricordi conducono a lontane “Canzonissime”, dove il primo premio era di 100 milioni di Lire: anche le grandi vincite al Totocalcio dell’epoca s’aggiravano intorno a quei valori. Su quali basi di reddito?
Attingendo più ai miei ricordi che a complessi studi statistici, ricordo che intorno al 1970 il salario di un operaio s’aggirava intorno alle 80.000 Lire il mese, quello di un impiegato verso le 100.000: un preciso ricordo, del 1972, riferisce che un insegnante delle Medie, pochi anni d’anzianità e due figli a carico, guadagnava 140.000 Lire il mese.
Ponendo a 100.000 Lire una media ragionata ed approssimativa delle retribuzioni di quel periodo, la vincita di 100 milioni rappresentava un corrispettivo pari a 1.000 retribuzioni mensili.

Oggi è piuttosto difficile compiere una media ragionata delle retribuzioni, perché la gran varietà di contratti atipici – periodi di disoccupazione, lavori a progetto, ecc – rendono qualsiasi ricognizione assai ardua. Non ho nemmeno preso in esame i dati ufficiali, poiché con il famigerato “mezzo pollo” non s’è mai saziato nessuno.
Partendo dai 500-800 euro dei lavoratori “atipici”, passando per i salari operai più bassi intorno ai 1.200 euro, per finire con chi ha ancora un impiego tradizionale (pubblico o privato) con massimi intorno ai 2.000 euro, forse 1.400 euro è una cifra vicina ad un salario medio.
Una vincita alla Lotteria di Capodanno, con 5 milioni di euro come primo premio, equivale oggi a 3.500 salari mensili: tre volte e mezzo rispetto a quegli (oramai) quasi antichi concorsi.
L’attuale vincita al Superenalotto di 147,8 milioni rappresenta invece – se correlata al solito stipendio di 1.400 euro – ben 105.571 salari mensili! Che salto.
Le cifre potranno contenere qualche imprecisione di dettaglio, perché il discorso che vogliamo sottoporre all’attenzione dei lettori è altro, e poco importano i decimali.

Lo Stato incassa circa la metà dell’ammontare delle giocate, mentre al monte premi va circa il 38% del totale: il rimanente 12% è suddiviso fra la ricevitoria “vincente” (la quale incassa un bel gruzzolo, l’8%) e la società Sisal che gestisce il gioco (4%)[1].
Fin qui aride cifre, dalle quali scopriamo la nuda realtà: il gran vincitore è sempre lo Stato, il quale osa chiamare “gioco” una vera e propria rapina dove incassa la metà del bottino, mentre i giocatori si dividono poco di più della terza parte. E non finisce qui: cosa farne di una simile montagna di soldi?

Toglietevi pure tutti gli sfizi che vi vengono in mente: villa faraonica, due o tre Ferrari, veliero a Portofino, aereo privato, aggiungete anche tre giri del mondo, e vi rimarrà sempre una montagna di soldi. Dove li metterete?
Sicuramente in qualche posto dove vi garantiscano, al netto dell’inflazione, un rendimento che vi consentirà una vita da nababbo: una banca, una finanziaria, un posto dove gestiranno i vostri soldi. Da dove vengono quei soldi?

Prima che la Dea Bendata vi favorisse, circolavano nelle tasche degli italiani, i quali potevano decidere se godere di un modesto piacere (una pizza e una birra) oppure tentare la fortuna, facendo finta di non sapere che le probabilità di vincere sono una su tot miliardi o giù di lì.
Quei 450 milioni di euro (circa) che sono stati il giro d’affari della recente vincita di Bagnone – e che rappresentano circa 45 milioni di pizze e birre – si sono trasformati in un colossale rastrellamento di soldi, che sono finiti nel gigantesco calderone dove la Casta affonda le mani come e quando vuole, più quel direttore di Banca che si sfregherà le mani, poiché saprà d’avere un centinaio di milioni di euro – per moltissimo tempo – a disposizione.

Siccome chi vince simili cifre – e non ci riferiamo solo alla recente vincita di Bagnone – desidererà investimenti a basso rischio e sicuri (l’ammontare degli interessi è tale da soddisfare qualsiasi desiderio, basta che duri nel tempo) la Banca potrà investirli sui mercati asiatici, oppure servirsi della solita pratica di garantire prestiti per un controvalore pari a 20 volte le giacenze. Una bella “botta” di guadagni in ogni caso.
La teoria che regge l’aumento stratosferico delle vincite è dunque quella di sottrarre denaro al circolante per convogliarlo su due direttrici: il bilancio statale, che soddisfa i bisogni della Casta, e le casseforti delle Banche, le quali rimpinguano l’oligarchia finanziaria. Chi ci perde? I pizzaioli – quelli che lavorano – perché in una sola “botta” vedono scomparire 45 milioni d’avventori.

Si potrà affermare “gli italiani sono liberi di giocare o di non farlo”: verissimo, ma facile a dirsi. Sono anche liberi di non indebitarsi per acquistare quella tale autovettura che fa sognare, ma giungono fino agli strozzini pur d’averla.
Io non gioco: semplicemente, perché ho capito il trucco. M’attizza di più lo scopone scientifico, quando ero giovane il calcio, talvolta il biliardo: questi sono “giochi”, ossia attività ludiche, dedite al sollazzo di chi le pratica.
Possiamo, ragionevolmente, paragonare chi gratta numeri o compila schede – con il solo obiettivo in mente di catalizzare un sogno – con chi gioca la consumazione a scopa? Nemmeno il Casinò regge il paragone, perché lì i soldi devi averli per davvero.

Anche se non gioco, quando mi reco in cartoleria od in tabaccheria li osservo, nei pochi attimi nei quali ricevo il resto, oppure mentre attendo il mio turno.
Cosa narrano quei visi?
I più, raccontano una sofferenza troppo difficile da sopportare senza una speranza, una timida e lontanissima illusione, che mentre grattano o anneriscono i numeri prende forma, come un tempo ci si rivolgeva alla Madonna, in Chiesa, per ricevere conforto e soccorso.
Scorrono su quei visi la disoccupazione del marito, la cronica malattia della moglie, la figlia che si è appena separata con due figli da mantenere e lo scarso contributo dell’ex coniuge, l’anziana madre – alla quale bisogna comunque provvedere – e per la quale non si riesce nemmeno ad avere il modesto contributo per l’accompagnamento.
A parole, per ciascuno di quei problemi lo Stato ha una soluzione: in pratica, la Casta concede solo dopo martellanti attese, labirinti burocratici, inaccessibili contributi…e, spesso, si riesce soltanto al prezzo di baciare le mani del mammasantissima di turno. Se lo si conosce, se qualcuno te lo indica, ti raccomanda, t’introduce.
Altrimenti, l’ultima fermata dei perdenti è la ricevitoria, l’angolo del viale dove lo Stato t’attende per confortarti con un sogno menzognero, e rubarti i pochi soldi che ancora hai in tasca.

Non voglio districarmi fra calcoli assurdi – per sapere a quanto abbia ammontato, nei decenni, la capitalizzazione per il Giano Bifronte (Casta/Finanza) – ma è certamente una montagna di soldi. Per avere un raffronto, i provvedimenti in Finanziaria (quando ancora esistevano) per integrare la pigione delle famiglie più povere erano pressappoco dell’identico ammontare, ossia centinaia di milioni di euro. Quelli che la Casta incassa in una sola tornata del Superenalotto.
Ma, vogliamo paragonare l’impatto sulla psiche di un probabile rimborso per una piccola quota dell’affitto – sempre che si abbiano redditi da Quarto Mondo! – con la speranza, spacciata nelle fantasmagorie delle reti televisive, di una vincita che risolverà tutto?

Ed è quello che si legge sui visi di chi gratta schede, cerca d’indovinare numeri – giungendo ad affidarsi ai “maghi” – oppure punta su un cavallo…e chi più ne ha più ne metta.
C’è anche chi gioca per la suspense, l’adrenalina del gioco: in questo caso, quando si trascorre più tempo a grattare e pensare numeri che a conversare con i congiunti, si tratta tout court di una patologia, come i ragazzini “malati” di videogiochi.

La trasformazione dei cosiddetti “giochi” – da vincite che consentivano al più di “sistemarsi”, a quelle che devono sbalordire, al punto di conquistare le prime pagine dei giornali per giorni – è parte di un ben preciso programma: accalappiare risorse senza nominare mai la parola “tasse” e fornire (a pagamento!) un sogno che tende ad acquietare il malessere sociale.

Riflettiamo su una vincita pari a 1.000 stipendi (anni ’60): oggi, sarebbe di circa 1,5 milioni di euro.
Con quei soldi, sarebbe possibile acquistare una casa, intraprendere un’attività commerciale o artigianale, aiutare i familiari ed i figli e concedersi pure qualche “sfizio”, ma non rimarrebbero enormi capitali: in altre parole, le piccole vincite tornerebbero sotto forma di consumi o di piccoli investimenti nel mondo dell’economia reale, non sparirebbero nei caveau delle Banche.
Invece, gran battage pubblicitario, favolosi introiti per lo Stato ladrone che si pappa la metà dei soldi, capitali che prendono la via della finanza ed un subdolo succedaneo di speranza, una “dose” per chi è disperato e non sa come affrontare il domani.

Proprio un bel congegno: la Casta non lascia nulla al caso.

18 agosto 2009

Ciao Fernanda

Ciao Fernanda,
quando ho aperto la pagina Web, m’è cascato un sasso nel cuore. Eri anziana – lo sapevo, prima o dopo doveva succedere – però non cambia niente: da domani, mi mancherai e basta.
Perché, con te, si chiude definitivamente un periodo, quel bel periodo che vide l’incontro fra l’America scanzonata e ribelle, depressa e cupa con l’Europa che tergiversava fra un verso, un poeta ed una guerra.
Oggi, quel legame è definitivamente reciso: non serve se qualche anziano beatnik ancora sopravvive, osserva il mondo, prova a descriverlo. Perché, oramai, tutto tace.
Peccato che il tuo figlio in arte, Fabrizio, se ne sia andato prima di te: forse, solo lui sarebbe stato in grado di ricucire i fili di quella poetica, di quel perdersi per arpionare il vero.
I sentimenti da raccogliere sono ancora tanti – come lumini sparsi nel vasto mare di Genova – ma non ci sarà più nessuno a raccoglierli: non so se avrò la forza di tornare, ancora una volta, lassù in Carignano, per salutarti. A che serve?
A ricordarci la nostra solitudine di bimbi sperduti, abbandonati sull’Isola che c’è, quella delle certezze vuote come zucche seccate al sole che solo voi, con la poesia, sapevate riempire.
Un bacio, Fernanda

17 agosto 2009

La rivincita di Massenzio

Nel tormentone agostano, non poteva mancare l’eterna querelle sull’ora di Religione: confesso che – qui, dalla Georgia Australe, dove mi sono recato per cercare un po’ di refrigerio – la cosa non sembra così apocalittica. I pinguini continuano a fare il bagnetto nelle gelide acque antartiche, le orche aspettano il pinguino più ardimentoso per fare merenda, le balene – al largo – sbuffano, nell’osservare sì tanto affannarsi d’animaleschi tormenti.
In Italia, invece, i mesi estivi sembrano totalmente occupati dalla politica – dalla “vera” politica – poiché il resto dell’anno trascorre fra trastulli bagaglineschi, ardimentose enunciazioni – poi, subito smentite ed addossate alla “cattiva stampa” – inframmezzando il tutto con gli immancabili bagordi orgiastici, col rischio di beccarsi qualche “escortazione”.
La necessità di una simile scansione degli eventi politici è lampante: siccome i primi mesi dell’anno trascorrono nella preparazione delle immancabili elezioni di Primavera, mentre l’Autunno è dedicato al virile sport detto “assalto alla diligenza”, ovvero alla spartizione della Finanziaria a scopo elettorale per l’anno venturo, solo a Luglio è possibile politicheggiare. Ne sono una prova la controriforma delle pensioni Damiano (Luglio 2007) ed i decreti Tremonti/Brunetta sulla scuola del Luglio 2008, poi battezzati pomposamente “Riforma Gelmini”, tanto per trovare una fessacchiotta alla quale addossare, a futura memoria, la responsabilità di tanto scempio.

E, se dalla scuola si parte, alla scuola si torna, proprio come l’onda atlantica ritmicamente si rovescia e macina i ciottoli della spiaggia meno invitante del Pianeta: ad Agosto – unico mese di vera riflessione politica, il resto dell’anno è completamente dedicato al come acchiappare voti e soldi – ci si chiede perché debba esistere un’ora di Religione, quali debbano essere gli attributi dei docenti che la gestiscono, quali le loro prerogative in termini di valutazione, programmi, obiettivi didattici…
Si scopre così, fra il lusco e il brusco, che la piccola ora di Religione – nell’arco di un intero corso di studi – occupa un posto che non è proprio di secondo piano. Difatti[1]:

Religione: 1 ora la settimana, per 32 settimane (durata media di un anno scolastico), per 13 anni fa la bella cifra di 416 ore dedicate all’istruzione religiosa dei pargoli, dalla prima Elementare alla maturità.

Filosofia: 3 ore, per 32 settimane per 3 anni (triennio dei Licei) = 288 ore. Galileo sconfitto una seconda volta.

Fisica: 2 ore la settimana per 32 settimane per 3 anni (Liceo Scientifico) = 192 ore. Galileo, azzoppato e lontanissimo dal traguardo, piange.

Scienze: qui, il calcolo è più complesso. 10 ore nell’intero corso liceale (Classico o Scientifico) per 32 settimane = 320 ore. Nei segmenti scolastici inferiori il calcolo è più difficile (alle Medie è il docente di Matematica ad insegnarle entrambe) mentre alle Elementari il problema è ancora più sfumato…insomma, aggiungiamo due ore a settimana alla Medie e finiamola. 2 ore a settimana, per 32 settimane per 3 anni = 192. Totale Scienze: 512 ore. Per un’incollatura, Scienze batte Religione.

Senza tediare oltremodo il lettore, la classifica finale dell’agostano “Palio della Scuola” vedrebbe senz’altro nelle prime posizioni i cavalli delle contrade dell’Italiano, della Matematica e del Latino, poi la Storia, l’Inglese di misura…e poco altro. Le seconde lingue soccomberebbero senz’altro, così come la Geografia e la gran parte degli insegnamenti tecnici.
I contradaioli dell’ora di Religione possono ben far festa.

Il secondo aspetto della vicenda riguarda proprio il criterio di scelta: chi vuole, può astenersi dal frequentarla. Il che, apre un altro problema: che fanno quelli che non la fanno?
Normalmente, entrano dopo od escono prima, oppure se ne vanno in cortile, in biblioteca…ovunque ci sia un posto dove accamparli e, soprattutto, un docente che li controlli, perché non si può abbandonarli al loro destino.
I genitori possono chiedere un insegnamento alternativo – dalla fotografia alla preparazione delle confetture – il quale, però, è meglio che non sia troppo interessante, altrimenti il docente di Religione si lagna: nessuno accetta di scendere di posizione, ed i contradaioli di Religione non esultano nel vedere il loro cavallo trasformarsi in un ronzino.

Le due soluzioni – semplice custodia od insegnamento alternativo – sono le vere “croci” dei Presidi, poiché i bilanci sono sempre più “stretti”, falcidiati dalle visite fiscali per un solo giorno di malattia (60 euro a botta, diktat di Brunetta) e le cattedre, nel claudicare delle varie “riformette” – dalla verace Moratti alla ragazzina che è oggi a Viale Trastevere – sono state sempre di più “accorpate” a 18 ore. Qui, necessitano spiegazioni per i non addetti ai lavori.

Di norma, l’orario d’insegnamento di un docente è di 18 ore (ci sono alcune eccezioni) ma ciò non significa che le 18 ore siano tutte d’insegnamento, perché è difficile far coincidere l’orario di classe (l’orario settimanale) con le 18 ore del docente. Esempio: due classi al triennio dello Scientifico, Italiano e Latino, fanno 16 ore: e le rimanenti 2? Sono a disposizione per sostituire colleghi assenti: vera e propria “manna dal cielo” per chi deve gestire la scuola, visto che i supplenti sono chiamati solo oltre i 15 giorni d’assenza continuativa.
Le “riformette” sopra citate hanno “riorganizzato” le cattedre, “razionalizzandole”: hai due ore che eccedono? Vai ad insegnare Geografia in una prima.
A forza di “razionalizzare” per ottenere “risparmi”, già oggi i Presidi si trovano in ben tristi ambasce quando scoppia l’influenza, oppure quando c’è un’assemblea sindacale, o ancora quando un docente si reca ad un corso d’aggiornamento o ad un convegno autorizzato (ne ha diritto per contratto) che coincide, in parte, con l’orario di lezione, per sostituire i colleghi che accompagnano i ragazzi alle gite scolastiche, per trovare un insegnante per la biblioteca, ecc.
Saggiamente, Gentile (1923) previde una sorta di “riserva”, qualche ora di “panchina” per far fronte alle più disparate esigenze: questi, non sapendo nemmeno da dove inizia la gestione di una scuola, hanno “razionalizzato”.
Il buon Preside, si trova oggi – a fronte di chi chiede un insegnamento alternativo all’ora di Religione – di fronte a due soluzioni, entrambe spesso impraticabili: pagare un’ora in più ad un docente che si renda disponibile (e non ha i soldi!), oppure prenderlo dall’orario delle ore a disposizione, che già è ridotto al lumicino. Spesso, l’unica soluzione che può attuare è gettare dignitosamente la spugna.

Il terzo aspetto – che più interessa per questa puntata agostana del “Palio dell’ora di Religione 2009” – riguarda cosa s’insegna nell’ora di Religione. Non ci riferiremo, ovviamente, a ciò che radio fante narra, ossia un pacato trastullo del nulla, poiché queste sono soltanto voci incontrollate, sanguigne collere d’incontinenti bruciacristi, giacobine invettive causate da astinenti prese della Bastiglia.
Nell’ora di Religione s’insegna la Religione Cattolica. Punto.

Ed è un punto difficile da porre, poiché l’Italia non è più quella placida, tranquilla plaga di Rosari e Processioni del secolo scorso. Anzi, più il tempo passa, e sempre di meno sono coloro che s’affidano corpo e beni all’intercessione del prete per ogni passo della loro vita.
Stupisce – in un paese cattolico, che ospita il Vaticano – scoprire che tanti italiani, senza aver approfondito le religioni orientali, affermano di credere nella reincarnazione. Oppure, ritengono di poter gestire da soli – sulla scia dell’ebraismo o dei Luterani – il proprio rapporto con la divinità. Senza considerare le centinaia di migliaia d’italiani che non sono cattolici: almeno 20.000 si sono convertiti all’Islam – e senza correre dall’imam di Al-Azar, al Cairo, mentre Magdi “Cristiano” Allam s’è fatto battezzare addirittura dal Papa! – poi c’è la tradizionale presenza ebraica e luterana, mentre gli adepti delle religioni orientali (soprattutto il buddismo, nelle sue varie manifestazioni) sono in costante aumento.
Alcune di queste confessioni vengono spregevolmente definite “sette”, per far passare il messaggio “è roba di serie B”: sarà pure di serie Z ma, se si rispetta la legge e non si commettono reati, ciascuno ha il sacrosanto diritto di professare quel che vuole. E di ricevere l’8 per mille per il suo credo: questa dovrebbe essere la semplicissima “ricetta” di uno Stato democratico.

Gli immigrati sono oggi il 5% della popolazione italiana ma, siccome sono più prolifici, sono il 10% circa della popolazione scolastica: è oramai normale avere in classe qualche musulmano od ortodosso.
A fronte di questa situazione – facendo forza sul dettato concordatario – le gerarchie ecclesiastiche strombazzano ai quattro venti anatemi contro il TAR del Lazio, colpevole di voler escludere il loro cavallo dal Palio.
Forse, se fossero più avveduti, s’accorgerebbero che sono loro stessi ad escluderlo, obbligando i loro “cavalli” a giocare una partita persa in partenza, e mettendo sempre di più in difficoltà l’istituzione scolastica che le loro “intemperanze” deve gestire.

Se l’Italia diventa sempre di più un Paese multietnico, e se molti italiani s’affidano ad altri credi, non sarebbe meglio far correre un “cavallo” che narri la storia delle Religioni, i vari credi, le differenze, le altrui ricchezze? Il tempo per farlo non mancherebbe certo: hanno più tempo a disposizione dei docenti di Fisica e di Filosofia! Che s’assumano le loro responsabilità: a quel punto, l’insegnamento dovrebbe divenire obbligatorio, per tutti.
Vediamo cosa lo impedisce.

La gerarchia cattolica non comprende (o fa finta di non capire) che l’Italia è un Paese sempre meno legato al Cattolicesimo, al di fuori degli aspetti esteriori e d’immagine, e sempre più smarrito. Lo stesso Giovanni Paolo Secondo s’accorse del problema, giungendo ad affermare che, a fronte del nulla, era senz’altro meglio credere in qualcosa, anche al di fuori del Cattolicesimo.
Con l’avvento di Benedetto XVI – uomo che fu apertamente contrario alle aperture ecumeniche del suo predecessore – la gerarchia cattolica s’è ancor più chiusa in se stessa: lancia anatemi contro un ignaro giornalista il quale, notando l’evidenza, comunica che ad ascoltare il Pontefice c’erano “quattro gatti”.
S’intrufola, poi, nelle questioni interne della politica nazionale: niente pillola RU 486, niente PACS, nulla che possa contraddire una visione integralista della dottrina, come se cedere in qualcosa aprisse brecce troppo pericolose, difficili da controllare. E, proprio questo è il punto.

Quando una religione è morente, proprio lì vanno ad incentrarsi gli sforzi per sostenere con l’apparenza (soprattutto mediatica) la sua sopravvivenza: se stiamo importando, oltre a banane e computer, anche preti e suore, qualcosa vorrà pur dire.
Sprangate le porte, è ovvio che gli spifferi allargano ogni giorno che passa pericolosissime (per loro) crepe: oggi è la questione dell’ora di Religione, domani sarà il celibato dei preti, dopodomani altro ancora. E’ la dottrina ad essere vecchia, inutile raccontare frottole: come si fa, in tempi d’AIDS, a proibire il preservativo?
La Chiesa Cattolica è anche una potenza economica, ma questo ha scarsi legami con la sua diffusione dottrinale: al più, conterà per mantenere fedeli gli uomini delle istituzioni, i quali, a loro volta, si trovano in evidente difficoltà nel dover difendere l’indifendibile. Lo fanno, perché il Dio Denaro abita anch’egli le sacrestie, ma con il trascorrere del tempo sarà sempre più dura e gli italiani comprenderanno sempre di meno gli anatemi e gli “inviti” che giungono da Oltretevere.
Potranno anche acquistare sul mercato dei politici un Rutelli – che partì Radicale! – ed averlo al loro servizio: più difficile sarà riempire le Chiese e, soprattutto, i Seminari.
Quando l’attuale (e molto anziana) generazione di religiosi se ne andrà, la nazione che da sempre ha ospitato il Papato si ritroverà un clero composto in maggioranza da africani ed asiatici, i quali dovranno “evangelizzare” una popolazione diversissima per cultura, tenore di vita, valori, ecc. Paradossalmente – cosa assai curiosa – il futuro clero sarà più vicino, culturalmente, proprio al popolo dei migranti spesso – nella vulgata imperante – inviso ed accusato d’infinite colpe.

E’ altrettanto vero che la gerarchia cattolica non può fare altro: cedere le armi e riconoscere – come fece Papa Wojtila – che l’Italia è oramai “terra di missione”?
No: continuano, come fece Massenzio, a sperare – con la forza del denaro o delle armi – di riuscire a spostare un po’ più in là l’inevitabile tracollo.
Per questa ragione la piccola ora di Religione non può trasformarsi nella “Storia delle Religioni”, poiché sarebbe la certificazione di una sconfitta: a dire il vero, sarebbe soltanto la loro sconfitta, giacché la vera spiritualità abita i cuori in modo assai discreto, tende a non manifestarsi troppo nel mondo, dialoga con l’Uomo nell’intimo dei suoi dubbi, delle sue paure e delle risposte che riesce a darsi. Il troppo clamore, l’assorda e la tacita.
Perciò…”Tanto clamore per nulla”? Ebbene…sì: continueremo a propinare ai nostri giovani 416 ore di Religione Cattolica, fino all’inevitabile estinzione. E non della sola disciplina scolastica.

[1] I calcoli sono stati eseguiti al netto di qualsiasi riforma, ovvero riferendoci al tradizionale “impianto Gentile”.