28 marzo 2011

Un dilemma inesistente



La crisi libica sta sparigliando le carte nella politica interna, almeno apparentemente: elettori di destra, delusi dall’evidente débacle che si prospetta per l’imprenditoria italiana con lo “sbarco” di Francia e GB in Libia, mostrano insofferenza per il Cavaliere.

Elettori di sinistra sono altrettanto delusi, osservando gli impeti guerrafondai che tornano alla luce e, soprattutto, ricordano la tragedia del Kosovo che, solo a distanza d’anni, s’ammette essere stata un colossale errore. Ma, senza capire niente dagli errori del passato.


Le domande che veleggiano sul Web sono due: che fine farà Gheddafi? Che fine farà il Cavaliere? Entrambi, usciranno indeboliti o rafforzati dalla vicenda? Ce la faranno a sopravvivere politicamente alla buriana?


Sul campo, l’unica novità che traspare nella strategia di Gheddafi è il frettoloso abbandono delle aree orientali – la Cirenaica – per assicurarsi, almeno, le spalle coperte e la difesa di Tripoli: ciò spiega la ritirata dai centri dell’Est e la pervicace insistenza su Misurata. Si tratta, evidentemente, del tentativo d’inaugurare una guerra di logoramento nei confronti della NATO e degli insorti, senza mai dimenticare la lezione di Rommel: nel deserto, ogni avanzata corrisponde ad un allungamento delle proprie vie di rifornimento, ed un accorciamento di quelle del nemico.


La partita, poi, si giocherà sul piano diplomatico e, il lavoro degli ambasciatori, richiede tempo e lunghi mercanteggi sul futuro delle risorse strategiche libiche. Gheddafi, da vecchia volpe qual è, cercherà di giocare le sue carte in seno alla Lega Araba e all’Organizzazione degli Stati Africani: soprattutto nella seconda, gode ancora di credito. Perciò, per Gheddafi, la strada è segnata: una sorta di “Stalingrado” nel deserto, nell’attesa che s’incrinino le alleanze occidentali (come avvenne per il Kosovo nel 1999) e che le bombe dei velivoli occidentali finiscano per diventare, nell’immaginario dei media transnazionali, altrettanto assassine dei suoi obici.


In Italia, qualcuno si domanda se non sia il caso di tenersi stretto il Cavaliere, per non cadere nella brace di Massimino il Conquistatore. Falso dilemma.


Anzitutto, sgombriamo il campo dalla leggenda che i Governi italiani cadano per la politica estera: nemmeno il governo D’Alema cadde per la politica estera, bensì dopo, quando i “conti” non tornarono più all’interno della coalizione (o era terminata la ragione del suo esistere[1]). Teoricamente, nemmeno Mussolini cadde per la politica estera – almeno, sul fronte delle istituzioni – poiché il voto avverso avvenne in Gran Consiglio, organismo che era interno al Partito Fascista e, dunque, non era autorizzato ad esprimere un voto di “sfiducia” verso il premier. In ogni modo, si può affermare che Mussolini cadde sulla politica estera, anche senza un voto parlamentare (il parlamento era ininfluente da anni), mediante un artifizio orchestrato dal Re.


Nell’Italia repubblicana, non abbiamo notizie di Presidenti del Consiglio che siano caduti espressamente sulla politica estera, mentre è certo che alcuni voti espressi in passato, che avevano negato la fiducia per questioni di politica estera, furono i prodromi per successivi tonfi. In sintesi, è raro che un governo cada direttamente sulla politica estera, mentre i riflessi della politica estera (ad esempio, accordi che “saltano”, alleanze che si “raffreddano”, ecc) conducono a nuovi equilibri nelle lobbies che assicurano la fiducia all’esecutivo e, da qui, il passo verso la crisi è sin troppo breve. Pensiamo, ad esempio, a quanto siano “volatili” i voti del gruppo dei “Responsabili” alla Camera.


Questo “posticipare” gli effetti della politica estera avviene, da parecchi anni, per “soccorsi vari” delle opposizioni, le quali – poi – accusano il governo di non avere più una maggioranza in politica estera…quindi, il governo chiede un voto di fiducia complessivo, lo ottiene…insomma, buffonate di tutto il mondo unitevi.

Ciò che conta, in questo bailamme, è verificare alcuni assiomi:


a) i mutamenti negli equilibri interni, catalizzati dalla politica estera, hanno più effetto sulle lobbies che sui singoli partiti.


b) le decisioni susseguenti, sono prese quando – trascorso un lasso di tempo – gli effetti si manifestano nella politica interna.


Alla luce della prima di queste due affermazioni, possiamo concludere che è assai arduo stabilire se sia meglio la sopravvivenza politica di questo o di quello, poiché la sopravvivenza di un governo, a quel punto, non si gioca più sul fronte dei partiti, bensì a livello di gruppi parlamentari interni alle singole formazioni: le lobbies. Più interessante il secondo punto, poiché qui si toccano i nervi scoperti dell’imprenditoria italiana.


Un certo Paolo, sul sito Padania.org[2], fa i conti in tasca all’imprenditoria italiana, ossia quanto essa perderà, in termini d’appalti, dopo “l’assalto” franco-inglese:


IMPREGILO: 3 miliardi di Euro di contratti acquisiti in Libia.

ASTALDI: 600 milioni di Euro in Libia per elettrificazione ferrovie.

FINMECCANICA: Joint-Venure con La Libyan Investiment Authority che acquistava elicotteri Augusta. Miliardi di euro.

ENI : Inutile stabilire i valori.

SAIPMEM : 5 miliardi di euro capo cordata costruzione autostrada (soldi anticipati dai libici). SELEX S.I.: 300 milioni di Euro per il controllo dei confini del Sud.

Migliaia di piccole e medie imprese italiane in Libia: diversi miliardi di Euro di contratti. (tra cui le mie aziende).


Resta difficile stabilire la principale “voce” di questa lista: l’ENI. L’Italia importava circa un terzo della produzione libica, ossia più di 500.000 barili il giorno. A circa 100$ il barile, fanno la rispettabile cifra di 50 milioni di dollari il giorno, pressappoco 40 milioni di euro. In un solo mese, sono 1,2 miliardi di euro che prendono altre vie: ci rendiamo conto di quale terremoto rappresentino movimenti pari ad 1,2 miliardi di euro mensili?!? Circa 15 miliardi l’anno?!?


Cerchiamo di conoscere meglio chi sono gli attori che stanno giocando non la partita internazionale, bensì quella energetica. Scopriamo chi è Stefano Saglia[3]:


Nato a Milano nel 1971…inizia a far politica giovanissimo…giornalista professionista…nel 1995, approda a soli 24 anni al Consiglio Provinciale di Brescia…eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati nel maggio del 2001…nella XV° Legislatura è stato Vice Presidente della Commissione Attività Produttive della Camera…nonché responsabile del settore Energia di Alleanza Nazionale…relatore alla Camera di importanti riforme tra le quali il riassetto del settore energetico in Italia…viene nominato Sottosegretario di Stato allo Sviluppo Economico…riceve le deleghe dal Ministro Claudio Scajola in materie di competenza del Dipartimento Energia, nonché in materie inerenti mercato, concorrenza, consumatori, vigilanza e normativa tecnica. Saglia è anche delegato alla Presidenza del CNCU, Consiglio Nazionale consumatori ed Utenti.”


Se si sa leggere fra le righe, questa è la perfetta biografia del lobbista. Non ha quasi passato: “giornalista professionista”…a soli 30 anni è già “Vice Presidente della Commissione Attività Produttive”, a 40 è il padre padrone del sistema energetico italiano, con poteri che spaziano dall’ENI a “mercato, concorrenza, consumatori, vigilanza e normativa tecnica.” Termina, addirittura, con la presidenza di quella che dovrebbe essere una “controparte”, ossia la tutela degli utenti.

Ma…chi “tutela” Saglia? Un uomo che, nella gerontocrazia imperante, appare come un miracolo vivente?


Se prendiamo nota delle sue “esternazioni”[4] – dal nucleare al solare fotovoltaico e termodinamico – non ci sembra molto “caldo” su queste proposte: il nucleare può andare ma, prima, dobbiamo trovare il modo di sistemare le scorie da qualche parte…Rubbia è degno di stima, ma le sue centrali hanno un rendimento inferiore a quello del nucleare… Insomma, ce n’è sempre per tutti.

Dove, invece, non ci sono obiezioni “tecniche”, si cavalca la “tigre” paesaggistica:


Il vero problema sulle rinnovabili riguarda l’eolico. Dato che l’Italia ha un paesaggio specifico ed è difficile costruire la pale per ragioni ambientali.[5]


Il risparmio energetico e’ una cosa che ci sta molto a cuore, nel senso che a me sembra che, prima di immaginare di riempire di mulini a vento località che non hanno vento…”[6]


E’ di nuovo Saglia? No, questa volta è Scaroni. Verrebbe quasi da dire il “capo”, Scaroni: simpatici questa gente di “Viadalvento”, vero? Ecco i nomi dei loro sostenitori[7]. Una bella lista d’onorevoli e professori, generali e consiglieri…tutti, inesorabilmente, nemici giurati dell’eolico.


Ecco dove il lobbismo attraversa le istituzioni (Saglia), si sostanzia nelle holding (Scaroni) e si presenta come la pura essenza della difesa del paesaggio (magari, con la buonissima fede dei sostenitori, ai quali vorremmo però fare una domanda: e le migliaia d’antenne Tv, tralicci, “torri” per le telecomunicazioni, “parabole” fin sui campanili, sono un “valore aggiunto” per il paesaggio? Le colate di cemento? Le case a schiera sui litorali?)


A questo punto, tiriamo le somme sul dilemma iniziale: tenersi il Cavaliere o cercare di cambiare cavallo? Domanda inutile e tempo perso.

cavalli disponibili sono tutti della stessa scuderia, hanno tutti identico marchio. Come uscirne? Anzitutto, per “uscirne” veramente, c’è bisogno d’elaborare una proposta politica che sia antitetica proprio ai valori fondanti della “scuderia”: la globalizzazione è l’unica soluzione, non ci piace bombardare ma se si deve fare si fa, tutte le energie alternative sono belle ma non servono a niente, la politica è sporca ma, tanto, un’altra non può esistere, gli italiani sono un popolo immaturo che va “guidato”…continuiamo?


L’unica soluzione è fondare un’altra scuderia, diversa proprio dai temi di partenza. In parte, già esiste: dopo anni di dibattiti sul Web sono nate centinaia di proposte, siti, associazioni, gruppi…lentamente, ma inesorabilmente, dopo le “piazze africane” anche quelle italiane avranno il loro momento. Quando?


Ciò che possiamo ragionevolmente attenderci, dall’avventura libica, è un mutamento degli equilibri interni italiani, susseguenti alla montagna di soldi che si sposterà dalle tasche dell’ENI ad altri, oppure – sempre con l’ENI come intermediatore – verso altri fornitori e mercati. Le perdite che, invece, colpiranno le aziende italiane faranno sanguinare il cuore della Lega la quale, però, più che gridare il solito “attenti all’immigrato” non potrà fare. Dunque, una perdita secca “d’ascolto”, per la Lega, da parte dell’imprenditoria del Nord. In questo panorama, l’opposizione-zerbino si posiziona sui crinali protetti dalla NATO e dalla no fly zone: aspetta, per osservare se i rivolgimenti interni alle lobbies consentano il colpo di grimaldello. Il quale, onestamente, sarebbe il solito topolino che scaturisce dalla montagna.


Voci non confermate, invece, sembrerebbero aggravare la situazione sul fronte interno: la querelle sugli incentivi negati (o resi incerti) alle rinnovabili sembra sia arrivata ai “piani alti”, ossia al settore bancario. Gli incentivi per le rinnovabili avevano creato un “giro” di denaro consistente: dalle banche agli investitori, dagli investitori alle aziende, dalle aziende alle banche…e non sembrano, queste ultime, molto contente della “chiusura” del Governo, soprattutto perché Fukushima ha allontanato l’altra “speranza”, il nucleare.


Potremmo domandarci il motivo dell’anomalia italiana, un Paese che non preme sulle rinnovabili e raggiunge gli obiettivi europei (20-20-20, nella parte per le rinnovabili) otto anni prima del previsto. La cosa si spiega per il basso livello degli investimenti nel fotovoltaico (10-20.000 euro) e per l’ancora sostanziale tenuta del risparmio (ancorché in diminuzione) italiano. In altre parole, per molti, piccoli investitori l’investimento nel “concreto” è parso più avvincente del “astratto” mercato azionario, mentre quello obbligazionario (BOT, CCT, ecc) dà rendimenti asfittici.

Ma, “dirottare” quei fondi verso le rinnovabili, significava offrire agli italiani un’alternativa…già…e Tremonti, con la sua ossessione dei “conti in ordine”, come la pensava? Se, per gli italiani, la solita “sbobba” targata BOT-CCT non era più appetibile, poteva esserlo per gli investitori esteri e per i fondi sovrani: questa è gente che s’accontenta di poco (sotto l’aspetto economico, date le masse monetarie in gioco) però gioca su più campi, anche in quello politico-strategico, poiché con enormi investimenti è possibile farlo.


Potrebbe esserci aria di revisione del rating dell’Italia, soprattutto del suo debito, e questa potrebbe essere la più importante tappa della strategia messa in atto contro l’Italia: le parole di Seif al Islam Gheddafi – “l’Italia pagherà il suo tradimento” – riecheggiano e fanno pensare. Soprattutto perché, noi italiani, ben conosciamo i rischi che giungono dalla “Quarta Sponda”.


Questa volta, invece di un’armata che si presenta una mattina qualsiasi sulle coste della Sicilia, potrebbe giungere qualcosa d’altrettanto grave: un declassamento che ci farebbe finire nell’altro incubo, quello dei PIIGS forever.


Per questa ragione, è necessario accelerare nel dibattito e nella proposizione: per avere, finalmente, un diverso marchio rispetto ai ronzini del padrone.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

Questa pubblicazione non può essere considerata alla stregua della pubblicazione a stampa, giacché ha carattere saltuario e si configura, dunque, come un libera espressione, così come riferito dall'art. 21 della Costituzione. Per le immagini eventualmente presenti, si fa riferimento al comma 3 della Legge 22 Maggio 2004 n. 128, trattandosi di citazione o di riproduzione per fini culturali e senza scopo di lucro.



25 marzo 2011

Non se ne poteva più…



21 Aprile
A malincuore, alla fine, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è stato costretto ad approvare la Risoluzione 1973bis: sono stati giorni d’attesa e di batticuori, ma la decisione era oramai nell’aria, inevitabile.
Fino all’ultimo, l’ambasciatore italiano all’ONU ha sperato in un veto da parte degli Stati Uniti, ma le ultime notizie sull’ammontare del debito americano – e, soprattutto, l’irritazione di Pechino per la dichiarata insolvibilità di quel debito, che la vede principale creditrice – hanno condotto all’astensione il rappresentante statunitense, che ha lasciato il Palazzo di Vetro senza rilasciare dichiarazioni. La risoluzione ha visto dunque 13 voti favorevoli, 1 astenuto ed un voto contrario (Trinidad &Tobago).
A Roma, nei palazzi della politica, la consegna è di non rilasciare dichiarazioni: lo stesso rais Berlusconi è asserragliato con i suoi fedelissimi nel bunker antiatomico di Palazzo Grazioli.
La risoluzione istituisce una no fly zone sui cieli italiani, fin quando il rais Berlusconi non lascerà il potere: questo è, sostanzialmente, il succo della decisione.
D’altro canto, dopo il rifiuto di lasciare la poltrona di Presidente del Consiglio a seguito della condanna per sfruttamento della prostituzione, la decisione era nell’aria e, la politica italiana – totalmente asservita al capataz di Arcore – non era più in grado di reagire autonomamente. Da qui, l’intervento dell’ONU.
Nella risoluzione, sono circostanziate le ragioni della decisione e, soprattutto, i timori: si ricorda la brutale repressione del dissenso interno (cita espressamente Genova e la Caserma Diaz) con l’aggravante della giustizia mai applicata nei confronti dei colpevoli, per quella che viene definita dall’ONU “macelleria di stampo nazista”.
I timori, invece, riguardano la “chiamata alle armi” del Ministro Bossi: ai primi movimenti di valligiani, che hanno cominciato a scendere dalla Val Camonica e dalla Val Brembana armati di fucili da caccia, l’ONU ha preferito non porre più indugi.
La Risoluzione 1973bis è molto elastica – hanno dichiarato la Cina e il Brasile, che sembrano i Paesi più determinati a farla rispettare – ed il comando delle operazioni è stato concordato nell’isola di Aruba, nel territorio del Venezuela. Gli aerei della coalizione, che useranno le basi francesi, tunisine, libiche e nell’ex Jugoslavia, saranno forniti da 29 Nazioni, dall’Algeria alla lontana Nuova Zelanda. La Francia – obtorto collo – è stata costretta ad aprire le sue basi agli aerei della coalizione.
La domanda che si pongono gli italiani, attoniti, è: il rais di Arcore, se ne andrà spontaneamente oppure resisterà?

22 Aprile
La giornata s’è aperta con una notizia che ha lasciato attonite le massaie italiane, le tante che – di prima mattina – avevano appena acceso la Tv per il meteo: due aerei hanno lanciato dei missili su un convoglio di resistenti che scendevano dalla Val Brembana verso Bergamo. Nel tratto fra Branzi e San Pellegrino Terme, due (forse tre, ma c’è incertezza sul terzo missile) missili hanno centrato un convoglio di resistenti, appartenenti ad un’etnia molto vicina al Ministro Tremonti. I danno sono rilevanti: alcune BMW dei tipi X4, X5 ed X6 sono state completamente distrutte, insieme ad una Porsche Cayenne ed alcune AUDI. Non ci sono, per ora, notizie di vittime, giacché – fortunatamente – il convoglio era in sosta per fare rifornimento.
Qualcuno s’è stupito che gli aerei della coalizione, partiti da Marsiglia – due Sukhoi cinesi – si siano spinti così in profondità ed abbiano rilevato il bersaglio con gran precisione: altri affermano che, il fumo dei barbecue accesi dai resistenti, sia stato notato oppure rilevato dai sensori di bordo. Alcuni degli insurgents sono stati, in ogni modo, accompagnati all’ospedale di Bergamo per il grave shock subito.
Da parte del rais, nessun commento, mentre la seduta per un voto di fiducia al governo è stata rimandata a data da destinarsi, “causa eventi bellici”. Il portavoce Bonaiuti non ha aggiunto altro.
Il portavoce del Partito del Governo – Capezzone – ha invece inveito contro “la vigliacca aggressione subita dai cittadini della Val Brembana, che stavano recandosi a Roma per difendere il legittimo Governo uscito dalle urne e voluto dagli italiani.”
Nel pomeriggio, il fatto più grave.
Alle ore 15.23, otto miglia nautiche al largo di Ancona, la motonave “Maurizia” – iscritta al Registro Navale di Taranto – è stata centrata da un missile antinave lanciato da un velivolo e si è incendiata. Non ci sono ancora notizie precise, ma pare che vi siano delle vittime. In ogni modo, la coalizione ha autorizzato la partenza di mezzi di soccorso da Ancona per soccorrere i naufraghi, ma non l’invio di elicotteri: su questo punto, la risoluzione è chiara, “nessuna attività aerea”.
Il Governo Italiano – per bocca del Ministro La Russa – ha denunciato la “vile aggressione, che travalica il mandato della risoluzione”, aggiungendo che l’Italia “non si piegherà alle inconsistenti richieste dell’ONU”, ritenendole “un’indebita intromissione negli affari interni di uno Stato sovrano”.
Fonti della coalizioni hanno invece sostenuto – mostrando fotografie scattate da velivoli e mappe satellitari – che la motonave aveva imbarcato armi portatili, missili spalleggiabili antiaerei ed anticarro nel porto di Brindisi ed era diretta a Venezia, per consegnarle al concentramento di “Veneto Libero” – la formazione paramilitare comandata da Mario Borghezio – in partenza per Roma, per soccorrere il “governo del fare”.

23Aprile
Già nella notte, i decolli si sono susseguiti dagli aeroporti della Corsica, della Provenza e del litorale croato: destinazione, bombardare le milizie che assicurano, dal Nord, la sopravvivenza politica del rais.
Sono state colpite le aree di concentramento dei “Volontari della Libertà” a Varese, Bergamo, Brescia, Treviso, Vicenza e Mestre. I danni sono ingenti.
Non è stato confermato il ferimento (qualcuno avanzava, addirittura, l’uccisione) del “generale” Salvini, comandante del raggruppamento “Madunina”, mentre il leader Bossi è già segnalato in Svizzera: pare che abbia passato il confine già nella notte.
A Roma, fonti vicine al rais hanno riferito risposte spavalde, della serie: “non saranno certo quattro missili a fermare il Governo voluto dagli italiani e sorretto dalla volontà delle riforme, il Governo del fare”.
Ma, nel pomeriggio, una forza anfibia s’è presentata di fronte ad Anzio ed ha sbarcato una divisione corazzata, la quale sta già dirigendosi verso Roma, senza incontrare resistenza.

24 Aprile
Dopo i bombardamenti sulle aree di concentramento delle milizie lealiste nel Nord, la coalizione ha preso di mira un’area che nessuno riteneva d’importanza militare: la zona di Ansedonia e di Capalbio.
Velivoli decollati dalla Corsica hanno colpito alcune abitazioni – tutte, al momento, disabitate – nell’area: sono andate completamente distrutte le lussuose ville[1] del presidente della Repubblica Napolitano, di Pancho Pardi, Giuliano Amato, Piero Fassino, Claudio Petruccioli…
Un gruppo di velivoli s’è poi diretto a Sud, dove ha distrutto altre abitazioni dei VIP a S. Severa (Ciampi), Martinafranca (Violante), Ravello (Brunetta)…
Contemporaneamente, altri velivoli decollati dalla portaerei Vikrant hanno colpito le ville del Sud, dalla Puglia a Pantelleria, fino al massiccio attacco che ha completamente distrutto la più famosa villa del rais italiano: Villa Certosa, in Sardegna.
Stranamente, per questi attacchi non c’è stata nessuna veemente reazione del Governo e del rais, che rimane asserragliato nei sotterranei di Palazzo Grazioli.
Voci non confermate, però, affermano che – dopo la distruzione di un patrimonio immobiliare valutato oltre un miliardo di euro – il rais abbia deciso di trattare, anche perché il mandato delle coalizione non concede limiti territoriali per colpire le sue proprietà immobiliari. Pare che il suo avvocato, Al-Ghedini, lo abbia informato dei rischi che corrono le sue ville nei Caraibi.

25 Aprile
Ogni attività di governo, da parte del rais Berlusconi, è cessata: lo shock per la perdita di gran parte del patrimonio immobiliare dei politici italiani – di destra e di sinistra – ha condotto, nella notte, a febbrili incontri, che hanno condotto alla resa.
Lo stesso conducator è probabilmente fuggito a bordo prima di un’auto, poi sul panfilo del figlio Piersilvio. Molto probabilmente, nella notte ci sono stati incontri fra l’infaticabile sottosegretario Gianni Letta ed il generale Nalandam Raijv Khan – comandante della 4° divisione indiana sbarcata ad Anzio – per stipulare un accordo che ponesse fine alle attività militari e, quasi certamente, contenesse una clausola per consentire la fuga del rais. Il quale, sembra scomparso nel nulla, ne ha dato notizia Enrico Letta, che accompagnava lo zio Gianni all’incontro.
Indiscrezioni, sembrano indicare che sarà instaurato un governo di coalizione che preluderà a nuove elezioni: in soli quattro giorni, l’Italia è stata finalmente liberata dal rais che la opprimeva da almeno vent’anni.
Il popolo italiano, da oggi, può guardare al futuro con nuova (!) fiducia.


Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

Questa pubblicazione non può essere considerata alla stregua della pubblicazione a stampa, giacché ha carattere saltuario e si configura, dunque, come un libera espressione, così come riferito dall'art. 21 della Costituzione. Per le immagini eventualmente presenti, si fa riferimento al comma 3 della Legge 22 Maggio 2004 n. 128, trattandosi di citazione o di riproduzione per fini culturali e senza scopo di lucro.


21 marzo 2011

Non ci resta che ridere (amaro)



Lo so, frase ad effetto e un po’ blasfema, ma è difficile trovarne un’altra per definire ciò che è accaduto negli ultimi mesi: il disastro giapponese che doveva “oscurare” la Libia e la Libia che ha finito per oscurare il Giappone, con tutto il tourbillon d’alleanze e riposizionamenti in politica estera.

In questo bailamme d’eventi, s’intrecciano due destini: quello delle popolazioni nordafricane e musulmane in genere con quello dei loro ex colonizzatori, che tornano agitando la bandiera della “democrazia”. Facile no? Tutti siamo capaci di farlo.
I due destini sono soltanto apparentemente e strumentalmente intrecciati: anzi, a dire il vero non si può nemmeno parlare di vero “intreccio”, bensì di semplice sovrapposizione.

In realtà, i desideri delle popolazioni arabe/musulmane sono lontani anni luce da quelli del (generico) Occidente, poiché sono aspirazioni di giovani che vivono in società dinamiche – ancorché compresse dalla tradizione – mentre quelli occidentali sono flebili (e dolorosi) lamenti di società senescenti le quali, più che accompagnare le loro “gesta” con le note della “Cavalcata delle Valchirie”, dovrebbero soppesare meglio il “Requiem” di Mozart.
Siamo all’ossimoro vivente, di nazioni che si pongono “alla guida” di chissà quale mirabile avvenire senza avere un progetto politico, economico, culturale e sociale per il futuro. E, sul nulla, le nazioni europee stanno fondando le basi per un “Nuovo Mediterraneo”, che sarebbe bello sapere cosa sarà.

Eppure, c’è un’importante nazione che non ha partecipato a nulla: che dibatte, sui principali giornali on line, sulla scelta nucleare e su quella di non congiungersi alle Nazioni che stanno bombardando la Libia.
Una nazione che è “sotto elezioni” amministrative: eppure, non ha concesso nulla all’isteria od alla convenienza del momento.
All’indomani del disastro giapponese, la Germania – forte di un piano che prevede l’80% di rinnovabili per il 2050, un percorso già deciso step per step, utenze civili, poi aree industriali…insomma, non aria fritta – ha deciso di chiudere le centrali nucleari più vecchie. La mancanza di produzione – hanno affermato – non genererà scompensi.

Nella Storia, a volte, le disgrazie si trasformano in autentiche benedizioni: perso l’Impero Coloniale dopo la Prima Guerra Mondiale – come non ricordare l’icona dell’incrociatore Königsberg, acquattato nel fiume Rufigi, rimasto là ad arrugginire per decenni come “simbolo della crudeltà dell’uomo verso il suo simile, ironica lezione di civiltà dell’Europa ai selvaggi primitivi del Rufiji”[1] – i tedeschi precipitarono dapprima in Weimar, quindi nel Nazismo.
Fra una cosa e l’altra, non ebbero il tempo di porre le basi per una compagnia petrolifera tedesca che fosse alla pari con quelle inglesi, francesi, americane e sì, italiane. Anzi, “italiana”.

L’Italia ebbe il “privilegio” – negato a tedeschi e giapponesi – di fondare, nel primo dopoguerra, una compagnia petrolifera nazionale: la cobelligeranza, qualcosa aveva prodotto.
Ma, quando Enrico Mattei fu chiamato per liquidare il “carrozzone” fascista AGIP, nessuno immaginava che l’avrebbe fatto rinascere dalle ceneri: già, altri tempi. Ed altre persone.
Le successive vicende sono note e non è il caso di ricordarle: l’avventurosa propensione verso l’Africa di Mattei, il personale metodo di trattare con le controparti, offrendo sempre di più degli anglo-americani, fino a Bascapè, all’invitabile nemesi.
Rimane, però, qualcosa – nella storia dell’ENI – che vale la pena di ricordare.

Una vecchia trasmissione televisiva, nella quale una serie di “tecnici” della centrale di Priolo Gargallo (era il 2005 o giù di lì) magnificava il futuro, ossia l’accoppiamento di una centrale tradizionale a metano con una centrale solare termodinamica, frutto del lavoro di Rubbia.
Ciò che mi colpì, sfavorevolmente, di quell’intervista fu che soltanto una parte dei dirigenti parlò – per magnificare l’impianto – mentre la maggioranza rimase in silenzio: la tensione quasi “bucava” il teleschermo.
Anche la storia di Priolo Gargallo è nota – i ritardi “biblici” accumulati dal programma – “condita” con le affermazioni di Paolo Scaroni “meno male che in Italia non c’è il vento del Mare del Nord”. Insomma, una Tela di Penelope, abilmente orchestrata per continuare come prima, soltanto con un fiore (appassito) all’occhiello, che ben era rappresentato dal silenzio “dissenso” di parte della dirigenza.

Ancora nel 2009, i tedeschi propongono all’ENI l’ambizioso programma “Desertec”, ossia attrezzare aree desertiche per la captazione d’energia solare – i tedeschi sanno che, con simili dimensioni, il sistema termodinamico scapola il problema dei costosi materiali necessari per il fotovoltaico – e si rivolgono all’ENI perché sanno che la tecnologia di riferimento è italiana[2].
Da quel momento in poi, il progetto si perde come uno uadi nel deserto: eppure, i volumi d’energia erano dell’ordine del 15% del fabbisogno europeo!
I tedeschi, dunque, continuano sulla loro strada e – spavaldamente – annunciano che chiuderanno anzitempo alcune centrali nucleari: per la Francia, un simile annuncio è quasi una rottura dell’oramai classico “Asse” franco-tedesco.

In mezzo a tanto clamore, s’inserisce l’incidente aereo che, per poco, non costa la vita ad Angela Merkel: fatalità? Giudicate voi.
All’opposto della stampa italiana, che ha dipinto il fatto come un normale “malfunzionamento” dell’elicottero, leggendo i giornali tedeschi[3] la vicenda è un po’ diversa, anche se il sabotaggio viene – ovviamente – escluso.
Anzitutto, non si è trattato di un semplice malfunzionamento: l’elicottero (di un capo di Stato!) è stato costretto ad un atterraggio di fortuna nell’aeroporto di Augsburg, dopo che il velivolo era precipitato per 1.500 metri quasi senza controllo. Un atterraggio definito “una situazione molto delicata”. Farplay teutonico.
Elicottero vecchio? Modello “economico”?
No, il “Superpuma” della Polizia Federale è nuovo di trinca, del 2010, e non è assolutamente un modello economico. Va detto che gli elicotteri bi-turbina è molto raro che subiscano il blocco d’entrambe le turbine, e che devono essere in grado di volare, fino all’atterraggio, con una sola turbina in funzione.
Questi sono i fatti: ognuno si faccia la sua opinione.

Così, oggi, ci troviamo con un’operazione militare modello Kosovo, comandata dai francesi nelle basi italiane, che ha come precipuo scopo quello di frantumare gli accordi petroliferi dell’ENI con le Libia.
Allora, torniamo alle rivolte nordafricane.

Ho ricordato, all’inizio, che non possiamo intrecciare le due, diverse ipotesi – spontanea rivolta, gioco petrolifero – poiché non condivisibili all’interno del medesimo universale: possiamo, però, sovrapporle.
Lasciamo, per ora, la questione tunisina: piccolo Paese, situazione economica difficile, un bandito al governo.

L’Egitto, invece, è un Paese arabo fra i più importanti: pochissimo petrolio, 80 milioni di persone che vivono fra la Nubia ed il delta del Nilo.
La rivolta nasce spontanea, catalizzata dall’aumento dei generi di prima necessità (soprattutto cereali) e dall’informazione “senza veli”, che raggiunge finalmente i giovani egiziani.
I fatti li conosciamo, fino al recente referendum: cosa decidono il 70% degli egiziani, con l’opposizione – sic! – dei giovani che hanno lottato in piazza?

Al contrario delle richieste – vasta riforma costituzionale, apertura a tutti i partiti e solo dopo le elezioni – il referendum “proposto” dall’Esercito e vinto – ah, la tradizione turca! – restringe la presentazione delle liste ai soli grandi partiti: quello ex di Mubarak (Partito Nazionale Democratico) e la Fratellanza Musulmana, entrambi sicuri di condurre in Parlamento una folta rappresentanza.
Ma, non dimentichiamo, la Fratellanza Musulmana di Ismailia nasce con il precipuo obiettivo di coniugare l’Islam con la modernità, mentre il Partito Nazionale Democratico potremmo affermare che parte dalla modernità pur “tollerando” l’Islam. Aria di Grosse Koalition all’uscio.
Oppure, un’affermazione della Fratellanza sulla falsariga del partito di Erdogan, a quel punto relegato ad un’opposizione “consapevole”. Per questo, sono morti a centinaia i giovano egiziani?
Chi soddisfa l’accordo?

Anzitutto gli USA, che saranno i futuri “sponsor” della gestazione egiziana, mentre Israele sarà solo “moderatamente” soddisfatto: in fin dei conti, Tel Aviv aveva fatto i conti senza l’oste, ossia senza considerare la possibilità che Obama s’incavolasse di brutto. Dopo avergli scatenato contro un centinaio di piccole Sarah Palin, in formato matrioske, cosa potevano aspettarsi?
All’Europa, in fin dei conti, ciò che interessa è il Canale di Suez: posto in sicurezza quello, facciano pure ciò che desiderano.
E veniamo alla Libia.

A differenza di Tunisi e del Cairo, la “rivoluzione” libica è nata a Bengasi, alla periferia, ed ha subito assunto i connotati di una guerra, non di una rivolta popolare, con proposte politiche e precise richieste. Dopo che gli inglesi hanno riconosciuto che – “da tempo” – le loro squadre speciali erano all’opera a Bengasi, tutto è più chiaro.
Ciò che stupisce è che la “rivolta” non è avvenuta nel Ciad, in Mauritania, in Algeria e nemmeno in Marocco: in Libia, che ha il secondo PIL pro-capite africano, dietro al Sudafrica.

A quel punto, ci s’inventa la “sostanziale” disomogeneità della Libia, poiché la Cirenaica è una cosa a sé, è chiaro. Peccato che nessuno dei miei parenti, in Libia per molti anni, alcuni nei ruoli degli Ufficiali del Regio Esercito, m’abbiano mai raccontato niente del genere.
Certo, c’è un’appartenenza di tipo tribale: e il Fezzan? Le oasi del Sud?
Ma non facciamo ridere, per favore.

Come sempre, nell’ottica “bipolare” – che, guarda a caso, in questi frangenti diventa sempre bipartisan (penoso D’Alema, penoso La Russa, penoso Di Pietro, penoso Berlusconi, penosi ABC…UVZ…) – chi non sta dalla parte di chi bombarda sta con Gheddafi. Che, se non ci tradisce la memoria, solo poco tempo fa non piantava le tende sui blog, bensì a Roma e Parigi, osannato e riverito. Con l’assenso di Bossi che, oggi, leva lamenti al cielo: e i soldi di Gheddafi in Unicredit?

Pazienza, al nuovo “presidente” della Cirenaica – 33% ENI, 33% BP, 33% Elf…sembra quasi un revival di “Non ci resta che piangere”: ingegneri, 33, 33, 33… – non sarà concesso di venire a Roma e di piantare una tenda beduina. Gli faremo avere una roulotte.


Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

Questa pubblicazione non può essere considerata alla stregua della pubblicazione a stampa, giacché ha carattere saltuario e si configura, dunque, come un libera espressione, così come riferito dall'art. 21 della Costituzione. Per le immagini eventualmente presenti, si fa riferimento al comma 3 della Legge 22 Maggio 2004 n. 128, trattandosi di citazione o di riproduzione per fini culturali e senza scopo di lucro.


18 marzo 2011

Pronto in tavola un piccolo Iraq, a due passi da Lampedusa



Se leggete attentamente la risoluzione ONU sulla Libia[1], v’accorgerete che è il solito copia/incolla di quella sul Kosovo del 1999: differenze di dettaglio.
Le aviazioni “alleate” avranno via libera per bombardare le forze di Gheddafi le quali – per il Diritto Internazionale – sono l’esercito nazionale libico, le forze armate della Libia: e, questo, comunque la pensiate su Gheddafi o sui cosiddetti “ribelli”.

In altre parole, ancora una volta, l’ONU concede ad una ben precisa parte – se li contate, ci sono tutte le ex potenze coloniali – di bombardare come e quando vorranno in Libia. Nel nome della difesa dei “patrioti”, ovvio.
Ecco, dunque, che una dozzina di Paesi dell’Occidente hanno dichiarato guerra alla Libia senza dichiararla ufficialmente, come usa fare da quando la guerra è stata bandita come “crimine contro l’umanità”.

Chissà perché, nel Ruanda, quella risoluzione non venne mai oppure fu così “distratta” da non accorgersi che, nel frattempo, c’erano già un milione di morti nel Paese africano. Certo, Tutsi ed Hutu non fanno la stessa rima di petrolio e gas.
La stessa risoluzione, però, non concede l’ingresso di truppe nel territorio libico: un “mix” perfetto, “cucito” addosso alla Libia per dissanguarla, per chissà quanto tempo, fin quando non sarà disposta a cedere le sue ricchezze minerarie a poco prezzo, a questo ed a quell’altro.

Una vera e propria “cima” della politica italiana – un tal Italo Bocchino, che parla con la saggezza di un Metternich – lo dice a chiare lettere[2]:

L'Italia dovrebbe dire all'Onu “Noi siamo pronti”. Non dovrebbe mettere a disposizione le basi, ma anche gli aerei. Sarebbe un errore se l'Italia avesse un atteggiamento ipocrita o pavido. Noi siamo i dirimpettai e il primo partner economico della Libia: non ho capito perché debbano intervenire Francia e Inghilterra e diventare poi loro il primo partner.”

Insomma, ragazzi – afferma il Bocchino – là c’è un mare di soldi…forza, su…cosa volete che sia mandare qualche aereo…e se lo abbattono? Sarà l’ultimo eroe del “Afrika Korp”, faremo una bella cerimonia…

Bersani è meno fesso nelle esternazioni, ma altrettanto determinato:

Ci sono gli strumenti per applicare la risoluzione dell'Onu. Io mi auguro che Gheddafi, alla luce anche di questa posizione più ferma e più netta della Comunità internazionale, blocchi l'operazione. Altrimenti bisognerà impedire che Gheddafi bombardi la sua gente a Bengasi.”

Insomma, up patriot sto arms…armiamoci e partite.

Non abbiamo in gran simpatia il colonnello libico, anzi, però l’esperienza insegna che nessuna delle avventure di “democrazia” occidentali ha regalato qualcosa di meglio ai Paesi “liberati”. Qualcuno se la sente d’affermare che, il “dopo Ghaddafi”, sarà meglio del prima? Come doveva essere il “dopo Saddam”?

Piccolo particolare finale: mentre i danesi ed i canadesi potranno “gustare” i tanti “breaking news” dei loro telegiornali, mangiando noccioline e pop corn, i pescatori di Mazara del Vallo si troveranno, improvvisamente, a pescare in zona di guerra. Senza contare quel che potrà accadere fra Capo Passero e Lampedusa.

Ma, ancora una volta, la democrazia deve essere esportata: USA, Francia e Gran Bretagna in testa. I soliti: quelli che ressero, per secoli, i traffici dei negrieri.


Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.


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16 marzo 2011

Il triste anniversario



Le bandiere, che il Comune ha fatto infiggere in ogni dove, sono immobili come l’aria che le circonda: piove, tutto è zuppo di un’acquerugiola fastidiosa, la Bormida s’accascia lentamente, ma inesorabilmente, nelle aree di barena, ed il mio umore ne risente.

Riesco appena a scorgere quelle bandiere, dai finestrini appannati dell’auto, e le interrogo: siamo tristi – rispondono – l’acqua non ci perdona e c’inzuppa, gli operai del Comune sono infastiditi dall’incombenza in più e quasi ci odiano, la gente c’osserva frettolosa ma quasi non ci nota, qualcuno non ci vorrebbe e – se potesse – ci sputerebbe pure.
Perché dobbiamo star qui, ad afflosciarci – inutili – mentre il cielo non concede venia e nessuno verrà, domani, alla commemorazione?
Quante domande, bandiere mie: sono troppo piccolo per rispondervi, troppo giovane per aver visto e troppo vecchio per illudermi.

Posso, però, raccontarvi delle vostre nonne, delle bandiere che garrivano al vento in un altro anniversario, quello del 1961: era il centenario!
Vi piacerebbe ascoltarmi?
Dai, racconta, che tanto qui fa solo freddo e ci si bagna. Inutilmente.

Avevo dieci anni ed i calzoni corti, al ginocchio, quelli “belli”, di lana, con tre bottoni cuciti a lato: erano proprio eleganti. Col mio papà alla guida avevamo preso l’autostrada per Torino: soli, io e lui, perché il mio fratellino era ancora troppo piccolo per venire con noi e la mamma era rimasta a casa, ad accudirlo ed riposarsi un po’, dal lavoro e dalle fatiche della casa.
L’autostrada era bella, dai finestrini della “Millecento”, e il mio papà ogni tanto sorpassava, metteva la freccia e sorpassava le “Seicento”, per far vedere che lui aveva la Millecento. Cosa volete: era fatto così.
Terminata l’autostrada, eravamo sfilati per tutto Corso Giulio Cesare, ed avevo abbassato il finestrino: era proprio una bella giornata di sole!

Finalmente, dopo aver superato mille semafori e tante giaculatorie, rivolte ai passanti che attraversavano incuranti delle strisce pedonali, in lontananza cominciò ad apparire “Italia ‘61”, la grande mostra per il centenario.
Sapeste che bella figura facevano le vostre nonne!
Erano tutte bellissime e pulite: leggere, accarezzavano il vento e dappertutto regalavano colore, sensazione di festa, con le prime gemme degli alberi a fare da coro.
Posteggiammo l’auto distante dalla mostra, perché non si doveva arrivare con l’auto, no: avremmo perso la prima meraviglia della festa.
Salimmo, così, una scala e…stupore! In alto, quasi sopra le fronde degli alberi, c’era un treno!
Era la famosa monorotaia.

A dire il vero, ricordo poco di quel breve tragitto: era così veloce!
In ogni modo, fu meraviglioso attraversare un laghetto con quel treno sospeso nell’aria, perché lo spettacolo era meraviglioso.
C’erano due grandi palazzi: uno cubico, in fondo, e l’altro strano: lo chiamavano “Palazzo della Vela” perché era tutto sghimbescio…come sarebbe stato difficile disegnarlo, se me l’avessero chiesto a scuola!
C’erano poi 19 – dico, diciannove! – villette che rappresentavano le Regioni d’Italia e, dentro ad ognuna, una mostra delle particolarità, delle differenze, delle ricchezze, delle meraviglie che componevano quel grande mosaico chiamato Italia.

Ne visitammo qualcuna e vidi così degli animali strani – i bufali – che erano nella villetta della Campania – erano solo fotografie, mica erano veri! – però io non sapevo che in Italia vivevano i bufali, ero convinto che fossero solo in Africa!
Sarebbe lungo raccontavi tutto quel che vidi, perché c’era così tanto…di tutto! Le vette delle Alpi ed il mare infinito, che avevo visto solo due volte, a Genova, dove avevo persino visitato una nave da guerra, ero stato proprio accanto a quei cannoni smisurati!

La gente era felice, si vedeva: compravano noccioline e gelati, panini e bibite e non mancavano d’acquistare i pacchettini di becchime da dare ai piccioni. Fu proprio una gran giornata: solo che, al ritorno, ero così stanco che m’addormentai sulla Millecento e, giunto a casa, papà dovette portarmi in braccio fino al letto.
Com’è successo che, il mattino dopo, non avevo più addosso i miei bei pantaloni, ma solo il pigiama?

Sono arrivato a casa, bandire mie: spero d’avervi consolato almeno un poco, perché a stare appese con quest’acqua ingiuriosa, con quest’indifferenza attorno, verrebbe da intristirsi a tutti.
Adesso che ho richiuso alle mie spalle il portone, e non potete sentirmi, verrebbe a me da piangere.

Non si può celebrare un 150esimo anniversario quando, prima, non s’è fatto nulla per costruirlo, per renderlo qualcosa da ricordare.
In questi 50 anni ho rivisto quel palazzo della Vela abbandonato, coi vetri rotti, solo illuminato dai fuochi delle prostitute: poi parzialmente ristrutturato, poi nuovamente abbandonato, poi ristrutturato…e la monorotaia?
Qual treno, dov’è finito?

Doveva continuare, entrare nel cuore pulsante di Torino e correre, ovunque: perché? Anni dopo, quando ero studente a Torino, ancora lo cercavo ma non c’era più. Prendevo il tram per andare in facoltà: chiudevo gli occhi e mi ritrovavo nel sole, sulla monorotaia, con papà al fianco.

No, bandiere mie, sarebbe meglio compiere un atto di consapevolezza e celebrare la Giornata del Fallimento, della Discordia, del Dolore per quanto non siamo stati in grado di fare in questi 50 anni. E, soprattutto, per quel che abbiamo fatto.

A risentirci per il 200esimo, quando sarò più libero: sarò vento, e passerò a salutare le vostre nipoti.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

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14 marzo 2011

Conto alla rovescia



Tic tac, tic tac, tic tac, tic tac…driiiiinnnn…


Suona la campanella, le porte della classe si spalancano e i ragazzi fluiscono, con il loro vociare confuso ed i cellulari subito accesi, verso la naturale libertà dell’uscita. Verso il piazzale antistante la scuola: per una sigaretta od un bacio, una confidenza od un’arrabbiatura da smaltire.

Mi fermo un attimo in sala insegnanti e do un’occhiata ad un giornale on-line, che qualcuno ha lasciato aperto sul computer: non si sa, forse, speriamo, può darsi, non sarà, avverrà, ci sarà, niente paura, sarà inevitabile…
Perché – mio Dio – tutte queste perifrasi, queste circonlocuzioni, questi saperi sviati, queste certezze rarefatte, questi dubbi sostanziati…insomma: perché tutte queste balle?
Lontano migliaia di miglia, sulla riva di un mare freddo e profondo, qualcuno sta morendo. Sta già, oggi, morendo per le radiazioni. C’è altro da dire?
Il Pianeta ha il fiato sospeso. E perché? Cos’altro può succedere?

Quando, a denti stretti, i giapponesi affermano che c’è un “rischio di fusione” del materiale fissile, immagino il solito giapponese: scusa, reattore, scusa, Kami, scusa, acqua che manca, scusa, Tenno, scusa…wakarimasen, wakarimasen, scusa…
Ma, se l’acqua manca e non ricopre più le barre d’Uranio, non c’è più niente di cui chiedere scusa: è solo questione di tempo.

Siamo certi che Nobutaka e Hideyoshi ci avevano pensato per tempo: c’erano senz’altro il gasolio nei generatori d’emergenza e l’antigelo nei circuiti refrigeranti.
Non come l’ultima simulazione tenuta a Caorso, quando si scoprì – con un brivido di gelo alla schiena – che, se non fosse stata una semplice simulazione al computer, il nocciolo del reattore sarebbe fuso perché qualcuno aveva dimenticato d’aggiungere l’antigelo al circuito refrigerante dei diesel d’emergenza, quelli che dovevano alimentare le pompe. No antigelo, no parte diesel d'emergenza, sì fusion: semplice, no? Già, ma siamo in Italia…

In Giappone questo è l’ABC e nessuno, siamo certi, aveva dimenticato nulla: semplicemente, nessuno aveva immaginato che mancasse del tutto il rifornimento d’acqua. Allora, giù con l’acqua di mare.
Ma, l’acqua di mare, non è tecnicamente “acqua”: è una soluzione salina.
Ogni litro d’acqua marina contiene all’incirca 20-30 grammi di una miscela di sali: un’abbondante manciata di sale, come quella che si butta nell’acqua della pasta.

Butta giù tonnellate d’acqua: ti ritrovi, in un nonnulla, tonnellate d’ogni sorta di reagente che attaccano le strutture d’acciaio e di metalli rari, le mordono, le riducono – a loro volta – in altri sali, che così aumentano ancora…
La temperatura aumenta, aumenta…scusa ingegnere, scusa direttore…la temperatura aumenta: più acqua, più acqua!
Ma la temperatura arriva a centinaia di gradi, l’acqua si separa e genera Idrogeno, che con il calore scoppia e distrugge le strutture già scardinate dalle scosse telluriche e dall’assalto dell’acqua marina, dai sali che si accumulano…scusa giornalista, scusa generale…
La temperatura aumenta, e non bastano nemmeno più i sali di Boro, le tonnellate d’acqua di mare, le preghiere al Budda, perché si sa che un giapponese nasce scintoista e muore buddista.

Scusa televisione, scusa Governo, ma devi dire, devi dire che l’ultima compagnia della divisione Fukushima ha fallito: faranno seppuku, nessuno tornerà indietro, nessuno macchierà il suo onore, come i predecessori sovietici oggi allineati al Cimitero degli Eroi di Mosca, seguiremo il nostro destino di Samurai.
Voi, che restate, salite al Tempio di Asakusa e ricordate noi, che abbiamo fatto seppuku con barre di Uranio: scusa, mia katana, scusa disonore...

Tic tac, tic tac, tic tac, tic tac…driiiiinnnn…

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

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12 marzo 2011

Sciacalli


Sì, per una volta ci sentiamo d’assumerci la responsabilità di farlo, senza remore e ripensamenti. E’ una cosa “che non va fatta”, ce lo hanno ripetuto decine di volte quando uno dei nostri ragazzi torna dall’Afghanistan in una bara: si devono rimandare a dopo le polemiche, di fronte al lutto ci si deve arrestare, non bisogna essere, appunto, “sciacalli”.
E quando viene “il giorno dopo”? Il giorno del mai nella settimana del poi?

“Passata la festa, gabbato lo Santo”, recita un proverbio, ed è uno degli assiomi sul quale si fonda l’informazione di regime, il mainstream di governo, le chirillacchere spacciate per il Verbo Divino.
E allora: fermiamoci un attimo per meditare cosa sta avvenendo in Giappone, fissiamo negli occhi le immagini di quei reattori nucleari disposti come soldatini in fila, sulla riva del mare infinito, del mare più infido del Pianeta per gli tsunami.
I giapponesi sono i migliori al mondo per la prevenzione dei danni causati dagli eventi sismici, questo tutti lo sanno: e adesso? Basta essere i “migliori”?

Dall’Istituto Italiano di Vulcanologia e Geofisica (INGV) si sono affrettati a ricordare che un terremoto con una simile magnitudo non è mai stato registrato né viene ricordato, in tempi storici, in Italia. Ed è verissimo, anche se – come vedremo in seguito – sembra proprio una “tirata” al carro del Governo.
Perché, qualche “tremarella”, anche noi l’abbiamo subita: recentemente L’Aquila, ma nel recente passato il Friuli, l’Irpinia, il Belice, Messina, Sanremo-Bussana…
Certo, nulla di paragonabile a quanto è avvenuto in Giappone, però i giapponesi sono – appunto – i migliori al mondo per le costruzioni antisismiche: mica costruiscono le “Case dello Studente” – come quella de L’Aquila – con lo sputo e lo scotch.

E vogliamo costruire delle centrali nucleari, al punto che – per mandare avanti il progetto – bisogna arrestare l’installazione degli impianti fotovoltaici alla quota di 8.000 MW di potenza di picco, quota che sarà raggiunta fra pochi mesi, molto prima del previsto? Che, detto fra noi, come potenza installata corrisponde a quella di 10 impianti elettro-nucleari?
E bisogna anche fermare la “deriva” dell’eolico, quelle maledette pale che non inquinano, non creano problemi di sorta, occupano poco spazio e possono essere dislocate anche in mare. Allora, ci s’inventa il tormentone dell’estetica, dimenticando che con antenne e tralicci abbiamo impestato migliaia di campanili e colline, senza minimamente pensare al paesaggio. Già, ma quelle antenne fanno funzionare “la tele” e, senza la Tv, il potere mainstream sarebbe zoppo come Silver de L’Isola del Tesoro.
C’era il gran pericolo del termodinamico, ma – per fortuna – siamo riusciti a cacciare Rubbia dal Paese che – a detta di molti – sarebbe veramente in posizione strategica per sfruttare la sua idea e la tecnologia che, in seguito, l’ENEA ed altre aziende private hanno creato. Come sempre, il genio italiano. Dimenticato.

“Messi a posto” tutti con leggi e leggine, ostracismi e costose campagne pubblicitarie, possiamo finalmente affermare che le energie rinnovabili sono la più grande bufala del secolo: incapaci, inadatte, impotenti per sopperire al fabbisogno energetico.
Perciò, signori miei, se avete paura delle turbolenza del mercato, comprate azioni dell’ENI: non l’ha detto l’ultimo degli scalzacani, l’ha affermato pubblicamente il Presidente del Consiglio. Date i soldi a me…no, cioè, a Tremonti, no…cioè, all’ENI…
Ma non basta: bisogna costruire le centrali nucleari.

Qualcuno ritiene che le centrali nucleari siano passate in cavalleria con quel ministro d’Imperia che non sapeva chi gli aveva comprato casa a Roma: si sbaglia.
Perché?
Poiché le centrali nucleari italiane non sono legate al fabbisogno energetico, bensì alla tenuta del Governo – che, ricordiamo, deve impedire qualche dozzina di processi a carico di Silvio Berlusconi – come i “rimpasti” servono per la stessa ragione, per accontentare chi ha un voto da dare. Gli italiani…cosa c’entrano gli italiani? Mica devono sapere per forza se Ruby è la nipote di Mubarak o la figlia di un ciabattino.
Perché alla tenuta del Governo?

Poiché Silvio Berlusconi non ha del tutto perso le speranze di riuscire a cooptare Casini e qualche “frangia” del Centro e del PD in future alleanze, appoggi esterni, coalizioni di facciata…come le volete chiamare…ossia qualcosa che gli consenta di continuare a regnare e, magari, piazzare lui stesso o Gianni Letta al Quirinale. Già: e come si fa, dopo tutto il can-can del bunga-bunga?
Il costo dell’energia nucleare – per chi non lo sapesse – deriva solo per un 15-20% dal costo dell’Uranio: il resto, è tutto nella costruzione degli impianti. Appalti da sogno, colate di cemento da favola, tangenti galattiche.
E chi le fa?

Non crederemo che il (secondo) matrimonio del celebre Azzurro Caltagirone – al secolo Pierferdinando Casini, rettore in conto della Cattedra di San Pietro dell’UDC, gran difensore della famiglia e del matrimonio religioso (per gli altri, non per lui) – sia stato un matrimonio così…perché si sono conosciuti ed amati, sotto la luna e le stelle…
Non c’interessano gli affari sentimentali di Pierferdi, ma il fatto che lo suocero sia uno dei maggiori costruttori italiani non può passare come casuale: nei secoli, ben sappiamo come la nobiltà difendeva i propri interessi e congiungeva le fortune con i matrimoni.

Se non basta, ricordate come mai Soru perse le elezioni in Sardegna: per i voti dati al PdL? Sì, anche ma – soprattutto – per quella parte del PD legata al gran partito del cemento che vide nel piano edilizio sardo di Soru la fine d’ogni sogno al ferro e cemento. Il paesaggio? Le future generazioni? I sardi? E chi se ne frega dei sardi.
Perché, signori miei, qui bisogna tirar fuori tutti gli altarini: se è vero che Caltagirone è saldamente “ancorato” a Berlusconi e che Casini fa da guardaspalle, è altrettanto vero che grandi cooperative del cemento e delle costruzioni fanno capo all’Emilia del PD. O me l’invento io?
Voto per appartenenza o per convenienza? Sembra che solo il secondo, oramai, valga qualcosa.

Sarebbe l’ora, oramai, di comunicare ufficialmente dove saranno costruite e quante saranno le centrali nucleari italiane – Chicco, Chioccolino Testa, almeno tu lo sai? – ossia chi si ritroverà quei bei casermoni al ferro-cemento-Uranio sul groppone.
Ah, maledizione: in Italia si vota troppo, si vota sempre. Non c’è mai un momento tranquillo per dirlo – magari in sordina, ma dirlo chiaramente – e fare chiarezza: sempre un’elezione incombente, ed i gran rettori dei numeri e delle simulazioni elettorali che annunciano che no, che se si dice prima delle tali elezioni si perde il tal collegio, la tal Regione, la tal Provincia…
No, non si puote.

Però, però…pensa il Capoccione…in fin dei conti, adesso non mi servono quelle centrali: Casini deve trascinarsi dietro quell’allocco di Fini per tutto il tempo che ci metterò a dissanguarlo ed a sputtanarlo…quindi non potrebbe…
Certo, Pierferdi rimane un fervente nuclearista, come il Chicco…chissà come la pensa il Renzi?
Quelle centrali, oggi, non servono – l’ho già detto a quel dipendente…come si chiama…quel Romani: perciò, acqua in bocca, zitti e mosca – però dobbiamo mantenerle in stand-by, come il rimpasto nel Governo.
Dopo, al momento opportuno, avremo una carta pesante migliaia di tonnellate di cemento da giocarci su più fronti, a destra ed a sinistra, perché non c’è nulla che scompagini ed unisca come il sacco di cemento moltiplicato per mille, per milioni…anzi, non potremmo far votare direttamente i sacchi?
Come e quando le faremo?

Quando mi servirà per acchiappare voti…come? E che cazzo ne so io di centrali nucleari?
Ma le faremo…lo dice anche Tremonti che siamo meglio dei tedeschi! Cosa ci vorrà a fare una centrale nucleare antisismica!
Ecco, ecco…


Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

Questa pubblicazione non può essere considerata alla stregua della pubblicazione a stampa, giacché ha carattere saltuario e si configura, dunque, come un libera espressione, così come riferito dall'art. 21 della Costituzione. Per le immagini eventualmente presenti, si fa riferimento al comma 3 della Legge 22 Maggio 2004 n. 128, trattandosi di citazione o di riproduzione per fini culturali e senza scopo di lucro.

08 marzo 2011

Le due mezzelune


“…le barricate in piazza le fai per conto della borghesia
che crea falsi miti di progresso…
…Up patriots to arms,
engagez-vous…”
Franco Battiato - Up patriots to arms – dall’album Patriots – 1980.

Chissà cos’avrà pensato il T.V. Luca di Giovanni, al comando del pattugliatore Libra, mentre s’avvicinava alle coste libiche, a Bengasi. Forse era un po’ in apprensione, attento a tutte le segnalazioni di “bersagli” – perché così sono definiti, in Marina, i contatti radar – che dalla plancia giungevano: o, probabilmente, la situazione era una di quelle da richiedere sempre “comandante in plancia”.
Anche quel nome…Libra, che sa quasi di Libia…partenza da Catania, poi rotta per 100 e qualcosa…chissà se il T.V. di Giovanni ci pensava…ma certo che ci pensava, perché a Livorno si studia anche la storia della Marina, della Regia Marina.

E quante volte era toccato ascoltare “Supermarina comunica la dolorosa perdita della nave…in rotta per Bengasi, colata a picco, in posizione 34.27 Nord e 16.27 Est, da un siluro…” oppure i ricordi che bruciano, come quello del convoglio Duisburg, completamente distrutto – appena al largo di Siracusa, nel 1941! – dalla Forza K di Malta, due incrociatori leggeri e due cacciatorpediniere inglesi contro due incrociatori pesanti e dieci cacciatorpediniere italiani. E gli inglesi tornarono – intatti, senza un graffio – per colazione a La Valletta.

E ci tocca così ascoltare vecchi ritornelli: “nave Andrea Doria sta per partire per la Libia, darà il cambio a nave Mimbelli…non è escluso intervento portaerei Cavour, navi San Giorgio e San Marco in rotta per il ritorno”… up patriots to arms…mentre un allampanato Ministro degli Esteri inglese, ai Comuni, chiede “coraggio” all’Europa, up patriots to arms…mamma mia, quando gli inglesi parlano di “coraggio”…sai te come va a finire, up patriots to arms …non esclusa no-fly zone, up patriots to arms, ci vorrà una risoluzione “chiara e condivisa”, up patriots to arms…
No, non è viltà.

Nessuno desidera il dolore dei libici, nessuno ama alla follia Gheddafi: soltanto, c’appare ora più chiaro che tutta la questione nordafricana ha una regia, ed a questa regia non frega un accidente dei libici.
Non è certo un caso che le nazioni mediterranee, ex colonizzate dalla Mediterranean Fleet – Spagna ed Italia, ad esempio, ma anche la Francia è “tiepida” – si mostrino contrarie ad un intervento, mentre la Germania s’affida a comunicati di cortesia, “distratta” com’è dai suoi gasdotti e dai suoi mille affaire con la Russia e l’Est. Gli Angli, invece, sempre loro.


In questo bailamme, si rincorrono notizie apparentemente strane o contraddittorie – come la ventilata richiesta di Washington all’Arabia Saudita d’inviare segretamente aiuti militari agli insorti di Bengasi – che ci sembra un bufala od una follia: chiedere ad Abdhallah degli Al-Saud, al più retrivo regno del Pianeta, di “aiutare” chi abbatte un altro “sovrano” sunnita?!?
Oppure, si fa così presto a dire: gli americani vogliono il petrolio libico! E la Tunisia e l’Egitto, che non hanno petrolio?

Per iniziare a squarciare il velo delle mille notizie, forse è meglio affidarsi alla cartina geografica la quale, in tempi non-geologici, ha il pregio di non cambiare. E, qui, qualche cosa si può già osservare.
Fino all’altro ieri, le tensioni che regnavano nello scacchiere mediterraneo e del Vicino Oriente erano relegate all’area a Nord di Israele: il tormentone che durava da anni riguardava “L’Asse del Male”, qualcuno lo ricorda[1]?
Siria ed Iran, maledetti loro, sono quei due a minacciare la pace del mondo!

Ma, ai due, s’aggiunge un compare: la Turchia, ed avevo avvisato per tempo, quando scrissi Solimano guarda verso Est[2].
Casca a fagiolo la vicenda della Freedom Flotilla, a suggellare un nuovo patto fra Ankara, Damasco e Teheran: improvvisamente – ma guarda che strano – le dichiarazioni contro i “tre” vengono annegate in un mare di cloroformio.
Guerra all’Iran? Ma chi ne parla ancora! La Siria, ma sì…in fondo si fanno i fatti loro…e non ci toccate la Turchia, che è nella NATO. Per ora.
Insomma, la pace regna al Nord, ma s’infiamma il Sud: guarda a caso, proprio gli Stati che meno davano “pensieri” ad Israele.
Chi si fa vivo? Una vecchia conoscenza.

Il Ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, che è la vecchia volpe di Camp David: tante chiacchiere con Clinton (marito) ed Arafat per non concludere nulla, eravamo nel 2000, prima della Seconda Intifada.
Cosa racconta, il nostro fringuello, in un’intervista al Wall Street Journal[3]?
Batte cassa.

Il buon Barak si rivolge, per interposta persona, al suo quasi omonimo Barak (Obama) per chiedergli 20 miliardi di dollari, i pochi spiccioli che servono per ammodernare Tzahal per le prossime generazioni. Insomma, Barak – scusate, ma qui, fra i convogli per la Libia e i due Barak ci sembra quasi di vivere in una commedia di Pirandello – c’hai combinato tutto ‘sto casino…e adesso, ci neghi l’argent de poche per comprarci qualche missiletto nuovo?
Cosa offre, in cambio?
Una merce rara e preziosa.

Prima dell’offerta – che, sia chiaro, devo ancora concordare con il mio “capo” Benjamin Netanyahu – “ricorda”, sembra quasi un pianto antico, l’eterno, inossidabile, inaffondabile ed imperituro problema di Tel Aviv: la Siria e l’Iran. E se, ringalluzziti da quel che sta accadendo, decidessero di dar fuoco alle polveri?
Poi, non contento, gli comunica alcune confidenze ricevute da ufficiali egiziani.
Insomma, le alte stellette del Cairo mi hanno un po’ rassicurato…ma anche un po’ preoccupato…m’hanno assicurato che sì, che non si rimangeranno gli accordi stipulati a suo tempo con Sadat, ma il tempo è traditore, soprattutto se si devono affrontare delle (vere?) elezioni.

Per carità, Barak: noi non mettiamo in dubbio la necessità di giungere ad assetti più “democratici” nel mondo arabo…eh, certo, la democrazia è sempre una bella cosa…però, sapessi Barak – non posso dirtelo chiaramente, ma “guarda a faccia mia e capisci a me” – come si stava meglio quando si stava peggio!



Cosa possiamo offrirti, in cambio dei tuoi dollaruzzi?
Ripeto, devo ancora parlarne con Benjamin, ma qualche telefonata ce la siamo fatta…insomma, ad una decisione siamo quasi arrivati, ripeto “quasi”.

Guarda, Barak, per 20 miliardi di dollari potremmo quasi giungere a promettere ai Palestinesi uno Stato con confini certi. Come dici? Gerusalemme, il ritorno dei profughi, gli insediamenti israeliani nel West Bank…no, dai, non esagerare: faremo un bell’accordo, metteremo dei confini certi ma, per quanto riguarda quella roba lì, non puoi chiederci di metterla nero su bianco. Facciamo così: scriviamo un accordo nel quale ci sono dei confini e, poi – separatamente, solo noi ed i Palestinesi – ci mettiamo al tavolo e regoliamo tutto il resto. Cuntent, Barak?
Dove l’abbiamo già sentita ‘sta roba?

Già che c’era, poteva anche aggiungere altro: no, no, per carità, li abbiamo bombardati solo un pochino, perché c’era Hamas che non è democratico, solo per quello. Se puoi, metti anche in sordina il Rapporto Goldstone, che con le elezioni in Egitto potrebbe c’entrare come la salsa dell’arrosto sul pesce. No, quel rapporto Goldstone non è proprio kasher, dacci una mano.
Noi, in cambio, ti promettiamo che – alla prima visita di Sarah Palin in Israele – la crocifiggeremo sul Golgota e ritireremo tutte le nostre truppe dal Congresso USA: per carità, Barak, abbiamo capito, fai cessare ‘sto uragano!

E qualcuno continua a rincorrere storie di petrolio, d’immigrazione, di “democrazia” nel mondo arabo…come se la questione palestinese (e, di riflesso, le pressioni israeliane sulla politica USA) non continuasse, imperterrita, a segnare ogni punto della storia del Vicino Oriente…

Alla riscossa stupidi, che i fiumi sono in piena, potete stare a galla.”


Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

Questa pubblicazione non può essere considerata alla stregua della pubblicazione a stampa, giacché ha carattere saltuario e si configura, dunque, come un libera espressione, così come riferito dall'art. 21 della Costituzione. Per le immagini eventualmente presenti, si fa riferimento al comma 3 della Legge 22 Maggio 2004 n. 128, trattandosi di citazione o di riproduzione per fini culturali e senza scopo di lucro.



04 marzo 2011

Opinion maker o fornitori d’opinioni?



“…il cerchio della nazione è rotto e i suoi frammenti sono sparsi. Il cerchio non ha più centro e l’albero sacro è morto.”
“Noi vogliamo che quest’albero torni a fiorire nel mondo del vero che non giudica.”
Alce Nero

Ho ricevuto, da una persona che conosco abbastanza bene, la segnalazione di una discussione in un forum di ComeDonChisciotte, nella quale ero citato. L’utente RicBo, il 15 Febbraio 2011, criticava la gestione di CDC e, in genere, il mondo dei blog che compaiono su quel sito, affermando che “raccoglie la cacofonia del mondo, la superficialità, il qualunquismo, il complottismo vacuo, l'attivismo di tastiera, le analisi da quattro soldi, il rivoluzionarismo da operetta.
Vale la pena di leggere il suo breve scritto (che riporto integralmente), poiché è quasi un “vademecum” d’impressioni e di proposte (condivisibili o meno) sul quale, chi vuole creare una rivista, dovrebbe riflettere.
Leggiamo:


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Esiste, in Italia, un certo settore radical-chic che, grazie alle possibilitá dello strumento chiamato blog, con il tempo si é guadagnato l'autorevolezza delle proprie opinioni. Ció ha innescato una reazione a catena: l'aumento dei lettori e dei commenti favorevoli ingigantiva l'ego dei bloggers che sono arrivati ad elevarsi a 'tuttologi', con tanto di piccoli eserciti di fedeli al seguito.

Il 'tuttologo' é la nuova figura sociale peculiare soprattutto del nostro Paese, per un mix di ragioni che non ha eguali in altri paesi: lo stato effettivamente disastrato dell'informazione in Italia e la conseguente ricerca di altre possibilitá comunicative ed informative (non crederete mica a certi dati per cui l'87% degli italiani si informa solo attraverso i telegiornali, vero? Date un'occhiata alle statistiche dell'Unione Europea poi ne riparliamo, dicono cose ben diverse), l'universalitá del nostro metodo educativo, soprattutto nelle facoltá umanistiche, per il quale dobbiamo essere 'esperti' di tutto un po' (contrapposto all'estrema specializzazione presente nella societá USA e nord europea, a cui stiamo purtroppo guardando come esempio), la teatralitá del nostro essere latini, la particolaritá tutta italiana del leaderismo...

Dopo l'esempio del precursore Grillo, il cui blog é seguito da milioni di persone ed é stato studiato in tutto il mondo, centinaia di altri personaggi si sono riciclati in quest'attivitá che non so fino a che punto sia remunerativa per tutti in termini economici, certo lo é in quanto a visibilitá.
Non voglio fare un'analisi approfondita del fenomeno, giá lo hanno fatto in molti, io ho apprezzato la critica feroce, giá qualche anno fa, del giornalista Paolo Barnard a quello che lui chiama 'Antisistema', ma non é l'unica.

La caratteristica principale del blogger 'tuttologo' sta tutta in questa frase della giornalista Debora Billi in un suo recentissimo 'post' sulla tragedia libica:
Citazione:

...confesso che per una volta non riesco a formarmi un'idea precisa. Non sono in grado di costruire una teoria, io che ho sempre una teoria pronta per ogni cosa. Succede.

Viva la sinceritá, verrebbe da dire. Il problema é che l'urgenza di scrivere comunque qualcosa, anche dieci righe, prende il sopravvento, anche se non si ha nulla di nuovo da dire o non si conosce l'argomento se non superficialmente o si vuole insistere sulla propria opinione o si vuole parlare d'altro o si crede di poter dare nuova luce a certi fatti o...

Insomma l'urgenza di soddisfare il proprio ego ed avere visibilitá é preponderante rispetto ai contenuti.

Questo sito, CDC, é interessante proprio per questo: raccoglie la cacofonia del mondo, la superficialitá, il qualunquismo, il complottismo vacuo, l'attivismo di tastiera, le analisi da quattro soldi, il rivoluzionarismo da operetta (con alcune eccezioni ovviamente, ci sono eccome articoli interessanti). Ecco quindi gli ormai famosi e tragici Massimo Fini, Gianluca Freda, Debora Billi, Marco Della Luna, Marco Cedolin, Eugenio Benettazzo, Giulietto Chiesa (sí anche lui), Daniel Estulin, Carlo Bertani e tanti altri (anche stranieri come no) fino ad arrivare al commentatore che diventa blogger e spara (a salve) su argomenti economici.

Con il pretesto di rimanere fedeli alla presunta libertá di opinione sbandierata all'entrata del sito ecco che si accostano nella stessa pagina articoli del filo-nuclearista Marcello Foa con il pasdaran Fulvio Grimaldi (uno che nega la strage di Srebrenica, non dico altro), il leghista Della Luna con il sociologo Bifo, il filo-capitalista Benetazzo con Barnard, il complottista con il comunista. Un brodo primordiale che sconcerterebbe chiunque e si nota nella particolare eterogeneitá della sottospecie creata dal fenomeno blogger-tuttologico: i commentatori, non molti qui ma con elementi comuni, primi fra tutti il qualunquismo, l'intransigenza, la fede cieca dei propri argomenti, la violenza comunicativa. L'anonimato e l'assenza di responsabilitá fanno del commentatore un estremista ideologico molto piú aggressivo dell'autore dell'articolo, una ragione che ha costretto piú di un blogger a chiudere la collaborazione (Bertani ad es.)

I blogs, i blogger, i commenti, tutto ció non fa altro che riprodurre un metodo comunicativo e di relazioni di dominio e di potere in cui il dialogo é morto, la partecipazione anche. Sarebbe meglio pubblicare molto meno, impedire i commenti, stabilire una linea comunicativa ed editoriale che vada al di lá dello slogan voltairiano.
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Anzitutto, alcuni, brevi dati analitici sul testo.
Non ho corretto gli accenti, per mostrare che il fantomatico RicBo probabilmente non scriveva con una tastiera italiana: molto probabilmente vive in un Paese francofono o, comunque, all’estero. Questo potrebbe spiegare il bizzarro “in Italia” all’inizio del pezzo, che – letto in Italia – sa di stranezza (anche perché i blog sono un fenomeno mondiale).
Il secondo rilievo è che RicBo si lamenta dell’anonimato, ma si guarda bene dal firmare la sua critica.
Il terzo è che, dopo aver sparato a zero sull’inciviltà dei commentatori, definisce lo scrivente e tanti altri “famosi e tragici”: alla faccia della gentilezza.
Il quarto è che cita foschi “termini economici”, lasciando intendere che l’attività di comunicazione debba essere sempre e comunque remunerata, poiché tale remunerazione diventa (?) garanzia per il lettore di professionalità ed esperienza. Il che, fa pensare che RicBo sia un giornalista o, comunque, una persona dell’informazione mainstream.
Non a caso, quel “sì, anche lui” – riferito a Giulietto Chiesa – sembra affermare: sì, anche tu che hai tradito, che sei passato alle tribù del Web abbandonando il giornalismo “con le stellette”. Difatti, altri giornalisti che sono spesso pubblicati su CDC – e che pubblicano sui quotidiani – non sono citati. Travaglio? Ida Magli?
Vi sono poi alcuni elementi che farebbero supporre l’origine della critica da un “parto di sottobosco”, ossia un “afflato” scaturito dalla burocrazia europea di Bruxelles, ma non ci sono prove e, dunque, non è possibile sostenerlo. Insomma, un sospetto e basta.
Il breve articolo è invece interessante per una serie di spunti che non vanno ignorati, di là del sito al quale RicBo rivolge la sua critica, poiché entrano con determinazione ed impeto su un problema vasto ed aperto, ossia la comunicazione.
E, qui, sarà necessario approfondire.

Il nodo centrale della contesa – se si è ponderato il testo non può sfuggire – riguarda l’identificazione della figura che è in grado ed è, in qualche modo, autorizzata a comunicare. Ossia, chi genera cultura, poiché ogni sapere – scritto, parlato, cantato, sussurrato, suonato, dipinto… – costruisce la “cattedrale” culturale d’ogni Paese. Anzi, per la scrittura, d’ogni area linguistica.
E si torna ancora una volta, di riffa o di raffa, a parlare d’intellettuali.

Senza voler inserire Gramsci come incipit della discussione, non si può eludere la definizione d’intellettuale organico che diede, la lucidità con la quale descrisse – Gramsci scriveva durante il Fascismo – l’apparente dicotomia, quasi un ossimoro “storico”, fra le indubbie capacità degli intellettuali dell’epoca e la loro pochezza, se riferita alla scarsa o nulla incisività che ebbero nei confronti della società nella quale operarono.
Riflettendo su due intellettuali assimilabili alla Destra dell’epoca – Croce e Gentile – non può sfuggire come il liberalismo d’entrambi fu sfregiato, nel nome delle esigenze del regime. Certo, furono accontentati con cariche ed onori: per qualche anno Croce e poi Gentile furono Ministri della Pubblica Istruzione, il secondo generò una riforma encomiabile per l’epoca, ancorché depotenziata dalla “falla” della rigida separazione fra i saperi umanistici e quelli scientifici e tecnologici.
L’Italia Fascista passò oltre la laicità di Gentile – un aspetto di non secondaria importanza, per i successivi sviluppi che generò – con un balzo felino, nel nome della pecunia per ottenere l’acquiescenza dello IOR – le necessità degli “otto milioni di baionette”, bisognava pure che qualcuno provvedesse! – e del necessario rapporto politico con le gerarchie vaticane, per una maggior penetrazione del Fascismo nella società italiana.
Croce, invece, fu semplicemente tollerato a patto che non disturbasse troppo, cosa che – a parte qualche modesto distinguo – si guardò bene dal fare.

Venne il dopoguerra, e gli intellettuali “organici” iniziarono proficuamente il loro lavoro nella nuova Italia repubblicana, alcuni mostrando notevole intuito e pregevoli analisi – pensiamo ad Aldo Moro – ma, di fuori dell’agone politico, non ci furono spazi reali per altri, pensiamo a Sciascia (che lasciò presto lo scranno di parlamentare) ed a Pasolini.
In altre parole, le figure intellettuali che in qualche modo mostravano la necessità di progredire oltre la vuota fase risorgimentale, di passare finalmente dal ruolo di sudditi a quello di cittadini, furono bellamente ignorate.
E, questo, possiamo scorgerlo nella letteratura come nella musica o nella poesia: un intellettuale di rango, come Fabrizio de André, fu trattato dalla RAI come un qualsiasi scrittore di canzonette. Solo oggi si radunano le sue memorie e si creano fondazioni a lui dedicate: perché è morto e, più di tanto, non può più disturbare i manovratori.
Identico destino hanno subito altri scrittori, poeti e musicisti, salvo tirarne fuori uno dalla naftalina quando serve, come Vecchioni, e fargli vincere il Festival di Sanremo, proprio mentre altri due intellettuali (?) – a libro paga del Corriere della Sera, ossia del quotidiano sostenuto dalla “crema” dell’imprenditoria italiana[1], Stella e Rizzo – “curano” il film/documentario (non autorizzato) sulla vita di Silvio Berlusconi.
Insomma, ora che l’imprenditoria italiana si sta accorgendo del disastro economico creato dalla coppia Berlusconi/Tremonti – il rapporto debito/PIL che “veleggia” verso il 120%, il Paese attonito e fermo poiché non esiste più attività politica, meno che mai una direzione da seguire in Economia, al punto che la stessa Presidente Marcegaglia li ha più volte, pubblicamente, scaricati – anche gli intellettuali possono, anzi devono, partecipare alla corrida finale.

Ora, tornando al nostro fantomatico RicBo, potremmo chiedergli se sono queste le figure che dovrebbero ricoprire i ruoli-guida dell’intellettualismo italiano: non si può affermare che Heinrich Böll abbia avuto così gran fortuna in Germania, e neppure il premio Nobel Ivo Andric riuscì ad andar oltre una carica diplomatica nella Jugoslavia di Tito.
Un po’ meglio, però, di come andò per Sciascia, Pasolini e de André…o no?
Oppure, vogliamo paragonare la visibilità che hanno personaggi come Giuliano Ferrara e Vittorio Sgarbi – i quali sono tutt’altro che degli sprovveduti, intellettualmente parlando – rispetto ad un Rodotà? Una delle menti più “fini” della Repubblica? E non tiriamo in ballo l’omosessualità, per favore.

Dovremmo, allora, chiederci: l’intellettuale è destinato a ricoprire ruoli politici? Nemmeno la Cina millenaria, quella dei Mandarini, fece quel passo, relegandoli all’ambito delle amministrazioni: l’unico a sfuggire alla regola fu Ciu-En-Lai, che potrebbe essere giustamente definito “L’ultimo Mandarino”.
Se l’intellettuale, dunque, non è adatto, destinato, necessario all’agire politico in prima persona – non dilunghiamoci troppo su questa dissertazione, così è e per ora non si notano cambiamenti in senso opposto – qual è il suo ruolo nella società?
Quello di creare cultura, conoscenza, per fare in modo che chi deve compiere delle scelte (il politico) possa attuarle con il massimo grado di conoscenza della società e dei problemi che si troverà di fronte: la Cina, resse per migliaia d’anni in quel modo e tutti gli imperatori – dai Qin ai Manchù – non vennero meno a questo principio, e non è proprio detto che la consuetudine sia, oggi, ignorata.

Stiamo, però, sempre parlando d’intellettuali – per tornare a Gramsci – organici al loro tempo, alla loro cultura e, soprattutto, al potere.
Possiamo, oggi, affermare che il potere – e non solo in Italia – sia in grado d’interpretare il mutamento sociale? Grillo – visto che RicBo lo cita, ricordiamolo – ha più volte posto all’indice la clamorosa ed abissale ignoranza informatica del ceto politico italiano, che non significa non saper inviare una mail: vuol dire non capire che una rivoluzione tecnologica è in atto, e che non si possono osservare le rivoluzioni seduti al tavolino del bar, aspettando “che passino”. Perché, dopo essere transitate, non esiste più nulla dell’antecedente: nemmeno il bar.

Un secondo compito dell’intellettualismo, quindi – oltre la proposizione – è la critica: avvisare per tempo dei rischi che corre una società basata sui fossili per l’approvvigionamento energetico, è un calzante esempio in tal senso. Oppure, la gestione del territorio, la qualità del lavoro e la ragione stessa del lavorare, come, quando e quanto, ecc. Ci sarebbe un mare magnum da esplorare e da porre all’attenzione, poiché nel lessico comune, oramai, il termine “politica” è diventato quasi sinonimo di “quelle robette, quegli scambi che si fanno a Roma”.

Spesso, dal Web giunge quasi un grido di dolore: perché non nasce finalmente un partito nuovo, di gente onesta e capace, che prenda in mano le redini della Nazione?
Il fatto è che di partiti-fotocopia – magari con le migliori intenzioni – ne esistono tanti, forse troppi.
Più volte ho attaccato l’IDV di Antonio di Pietro, e non a caso: le molte defezioni dal suo partito e le “svendite” non sono casuali, poiché è un partito che – richiamo alla legalità a parte – ha ben poco da raccontare. Oh, certo: ci sarà – da qualche parte – un programma con mille cose scritte, ma quando mai se ne sente parlare? L’unico, costante richiamo è un antiberlusconismo di facciata, che finisce poi – in modo rocambolesco e farsesco – per fornire proprio i due deputati che fanno sopravvivere Berlusconi!
Sentiamo parlare spesso di Vendola come del “nuovo che avanza” – ed è pregevole l’esperimento delle cosiddette “fabbriche” – ma stentiamo ad intravedere proposte organiche: va detto, per onestà, che Vendola stesso ha richiamato l’urgente necessità di una fase creativa, dell’effettiva realizzazione di quel “cantiere” che doveva essere quello bolognese di Prodi, iniziativa che – all’epoca – non produsse nulla. E si finì con un Mastella che affossò il Governo, perché non emanava in fretta e furia una legge ad personam per la moglie.

Nutriamo dei sospetti sull’avventura vendoliana, perché questo claudicante PD ci ricorda il vecchio PCI il quale, alla sua sinistra, voleva sempre una stampella: lo PSIUP, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista…domani Sinistra e Libertà? Non a caso, Veltroni fu l’unico ad attaccare alla sua sinistra, e s’è visto com’è finito: Bersani, difatti, lavora nel vecchio “solco” del PCI.
Noi, vorremmo semplicemente non essere presi, ancora una volta, per i fondelli: ancora ricordiamo la famosa “notte delle pensioni” del 2007, quando i partiti della sinistra estrema non furono manco invitati, e Damiano peggiorò ancora la controriforma Maroni.
Ecco dove le fasi di preparazione, di riflessione, di sedimentazione del pensiero non sono sufficientemente valutate: si va sempre ad elezioni, si va in televisione, bisogna fare in fretta, raccontare qualcosa, si fa un programma…anzi, no…bisogna subito “mediarlo” con gli alleati. Togliamo le Province? Ma sì, tu dillo, tanto lo dicono tutti…
Crediamo bene che Berlusconi, con le sue proposte chiare – riducibili ad un “prendere ai poveri per dare ai ricchi” – finisca per vincere, poiché i “poveri” sono storditi da mille, diversi input, dai quali non riescono a districarsi. Quando non c’è di peggio, ossia la solita “pappetta” con i berluscones, vedi la mancata legge sul conflitto d’interessi.

Proprio da queste vicende, si nota che l’aspetto della critica, da parte degli intellettuali, riveste un’importanza del tutto singolare nella società italiana – vista la lunga esposizione all’anestetico cui è stata sottoposta dagli anni ’80 in poi – che non ha certo aiutato il Paese a crescere: siamo ancora qui a domandarci se sia meglio costruire il fantomatico “muro di Ancona” e non riusciamo a toglierci da queste paludi.
Rimaniamo ostinatamente legati alle energie fossili – con l’ultimo decreto “Milleproroghe” (già un Governo, un qualsiasi governo che vara un provvedimento con quel nome, dovrebbe riflettere su cosa sta facendo: si può “prorogare” qualcosa all’infinito?!?) – è stato dato un altro “colpo” al solare ed alle rinnovabili in genere, poiché l’ENI è la principale “cassaforte” del Tesoro, e dunque non si disturbino i manovratori dell’ENI.
La Francia ci supera per presenze turistiche, ma la cosa sembra non riguardarci: che ci frega se possediamo la metà del patrimonio artistico mondiale, noi lo lasciamo crollare! Vengono meno turisti? E noi li tassiamo di più, col “federalismo municipale”!
Ogni anno che passa arriva l’infinito tormentone delle “quote latte”, ma pochi ricordano che in Italia esistono almeno 400 (stima per difetto) tipi di formaggio, mentre nel Nord Europa la sbobba è sempre la solita: cambia l’involucro, rosso o giallo. Qualcuno riflette sulla potenziale ricchezza che ne potrebbe derivare? E i vini? L’olio? La varietà di gusti della nostra cucina?
Certo, parlare d’energia diffusa e di 400 diversi tipi di formaggio fa impazzire i contabili “razionalizzatori” della burocrazia europea – meglio la grande centrale, e due soli tipi di formaggio, molle e duro, così, poi, si dà il via alla grande competizione sui prezzi! – difatti, oggi, parecchi intellettuali (quasi sempre esteri) sono dei feroci critici della globalizzazione, pensiamo a Latouche od a de Benoist.

Insomma, alla navigazione di cabotaggio sarebbe preferibile qualche “incursione” nelle “blue water”, lontano dalle paludose coste del consueto, del bilancio a sei mesi, della tradizione “perché così è sempre stato”, ecc. In questo senso, una profonda “immersione” nella Costituzione – del 1947! – sarebbe salutare.
No, nulla: l’Italia è da celebrare per i valori Risorgimentali, e addirittura un bravissimo Benigni si presta a ricordarli dal pulpito dell’Ariston: Vecchioni, Benigni, Stella, Rizzo e compagnia cantante sono da considerare le punte di diamante dell’intellettualismo di sinistra? Come i due “furbetti” Ferrara e Sgarbi lo fanno per la destra?
Ecco dove il cosiddetto “intellettualismo italiano ufficiale” si mostra per quel che è: la solita zuppetta “organica” al potere, pronta a seguire questo o quello, basta che se magna.
La differenza, rispetto alle passate generazioni, è tutta nel maggior livello d’istruzione (per questo attaccano la scuola pubblica): gente che non è più disposta a farsi menare il can per l’aia da direttori di testata che cambiano seggiola come si fa sul tram, cercano altrove sponda.
Dove la trovano? Chi lo fa?

“Quando non ci sono cavalli, trottano anche gli asini”, verrebbe da dire, e ci scusiamo quindi con RicBo se abbiamo incrinato l’idilliaca pace della Turris Eburnea, ma se questa masnada di “tuttologi” s’è accaparrata i favori di un largo pubblico (lui stesso lo sostiene, “Date un'occhiata alle statistiche dell'Unione Europea”) non sarà perché nella Torre d’Avorio regnava un silenzio di tomba?
E non siamo solo noi a porre all’attenzione il problema: in una recente trasmissione radiofonica sull’Unificazione, Stella stesso riconosceva che la storiografia ufficiale è stata pensata e plasmata soltanto per le aule universitarie, per i seminari degli “addetti ai lavori”.
Si crea così una situazione paradossale: “si sa” che l’avventura dei Mille fu protetta dalle fregate britanniche, che i generali borbonici furono corrotti col denaro, e che quei debiti – di guerra e corruzione – furono successivamente pagati con l’oro del Regno delle Due Sicilie, ma “chi”, effettivamente, lo sa?
Un sapere protetto, nelle collane dedicate agli studiosi, trova scarso appoggio in qualche – rapida – trasmissione Tv a tarda ora, ma…qual è il contraltare?
Decine, centinaia, migliaia di trasmissioni Tv nelle quali si cita il Meridione come un problema atavico, senza soluzione, senza mai analizzare le ragioni di quel dissesto.

In egual modo, si trattano le altre questioni storiche: giorni della Memoria e del Ricordo per non memorizzare né ricordare nulla, se non la solita campana di una sola parte.
Poi, giunge un sistema elettronico – qui è la rivoluzione! – che consente a tutti di pubblicare: qualcuno lo fa bene, altri meno, ma lo fanno. Gli italiani che volevano informarsi lasciando le tette di mamma Rai, cosa trovavano? Potevano chiedere al solito docente universitario una conferenza, certo…ma quando, e dove?
L’impressione che si ricava dalle critiche di RicBo è che sia il lamento della cultura elitaria, che si vede sopravanzata e che – non sarò certo io a gioirne, perché di raffinata cultura si tratta – sta sbiadendo.
E veniamo all’impossibilità d’essere “tuttologi”.

In realtà, l’affermazione è esagerata e priva di senso: se qualcuno mi chiede di scrivere sulla teologia zoroastriana, cortesemente rifiuto per non incorrere in brutte figure. Anche nei giornali non si chiede al redattore di necrologi di preparare l’articolo di fondo o, come si diceva un tempo, “di terza”.
Non voglio, però, nascondermi dietro ad un dito, poiché è vero che quasi sempre gli articoli d’approfondimento del Web toccano più comparti, spaziano da un universale all’altro.
Se si parla di petrolio, difficilmente si riescono ad eludere questioni finanziarie, economiche, di politica estera, militari e tecnologiche: che, poi, chi lo fa sappia realmente compiere la sintesi è un altro paio di maniche, ma ritorniamo al gran silenzio che aleggia nella Torre d’Avorio.
Qui, c’è un altro aspetto che sfugge alla breve analisi di RicBo.
Senza voler ammantare con il termine “filosofia” la simbiosi delle conoscenze, il loro progredire grazie alla critica, ossia con la dinamica interna ad ogni processo creativo, non è che – sotto l’aspetto “istituzionale” (termine preso a prestito, per meglio definire quel comparto di “cultura” che finisce per diventarne l’antitesi stessa) – l’attuale cultura è priva della seppur minima incisività sull’agire quotidiano? Manca il collante, la liaison, il canale di collegamento.
E’ un problema di tutti: nessun politico può rivolgersi ad altri per migliorare le proprie scelte (anche fosse possibile farlo, e non fosse controllato dalla disciplina di partito!) ma nemmeno l’imprenditore sa con ragionevole certezza dove volgere il guardo, poiché la piccola navigazione di cabotaggio della politica lo costringe ad un mefitico rapporto simbiotico con il sottobosco della politica, che è totalmente privo di scelte strategiche.
E il giovane? Può, ragionevolmente, capire quale potrà essere il suo posto all’interno della futura società? Dove trova corrispondenza e risposte? Piccolo cabotaggio: evitare gli scogli e cercare un approdo per la sera, niente di più.
Il giovane è disorientato, privo di punti di riferimento per la navigazione d’altura della vita.

RicBo mette all’indice i bloggher come se fossero degli imbonitori o dei predicatori televisivi – hanno oramai “tanto di piccoli eserciti di fedeli al seguito” – come se avere persone che ti stimano sia un peccato originale da purgare, ovviamente se non fai parte della giusta Casta.
Date le premesse sopra esposte, si è domandato, RicBo, da dove nasce questo “seguito”?
Nel mio caso, da anni ed anni di lavoro gratuito e volontario: certo, sono un fesso che lo fa solo perché gli piace. Oppure – come affermava Pasolini – perché quando provi il bisogno di scrivere non puoi sedarlo, devi assecondarlo. Si deve scrivere solo a comando?
Altra obiezione.

Le persone che seguono i blog – sempre secondo RicBo – sono ovviamente una pletora di deficienti ed ignoranti, giacché non sono ancora approdati alla Retta Via e, dunque, sono rimasti abbindolati da questi imbonitori di bassa lega.
Si rende conto che, in questo modo, ha dato del deficiente a milioni d’italiani? E, visto che il mondo dei blog presuppone la lettura, l’analisi, la critica…non ha proprio insultato persone che passano le giornate a seguire le pruderie del Grande Fratello.
Allora – torno a sottolineare il gran silenzio della Turris Eburnea – quelle persone cercano qualcosa, desiderano qualcosa, vorrebbero partecipare a qualcosa: in definitiva, cercano l’agorà, la forma primordiale della democrazia, che in Italia è oramai un ricordo.
Forse lo fanno scaricando semplicemente sul Web “la cacofonia del mondo”: possiamo accettarlo? O, forse, dovremmo prima chiedere loro di purificare quelle afonie, rettificandole con puro spirito kantiano? Ma, se le persone che dovrebbero essere preposte allo scopo – gli intellettuali – se ne sbattono allegramente, preferendo l’abbuffata nella greppia, a chi dovrebbero rivolgersi?

RicBo ha dunque per il commentatore poca stima, perché lo nota animato da istinti quasi “animali”: è “un estremista ideologico” che si nutre con “il qualunquismo, l'intransigenza, la fede cieca dei propri argomenti, la violenza comunicativa”. Per certi versi può essere vero, ma generalizzare è sbagliato: soprattutto, bisognerebbe chiedersi in quale ambiente sociale e culturale è toccato loro vivere. Non sono mica stati i bloggher, ad aver inventato il Grande Fratello e l’Isola dei Famosi!
Se non si desidera avere a che fare con persone del genere – e chi scrive lo ha provato – si chiude semplicemente la collaborazione con il sito in questione: c’est facile, ou non?
Anche sul mio blog c’è stato chi ha tentato di trasformare la discussione in rissa, ma io – memore di quel che succede quando una classe sfugge al controllo – non ci ho pensato due volte: via, cancellati. Gridi alla censura? Il mugugno è libero, ma vai a farlo da un’altra parte.

Se fosse una semplice questione d’ordine, la cosa finirebbe qui, ma RicBo – al termine del suo intervento – pone degli interrogativi seri, che bisogna meditare:

“Sarebbe meglio pubblicare molto meno, impedire i commenti, stabilire una linea comunicativa ed editoriale che vada al di là dello slogan voltairiano.”

E’ comprensibile che un sito come CDC – una semplice vetrina espositiva – non abbia una linea editoriale, poiché questa è la scelta di chi lo cura: una valutazione che ha il pregio della vasta diffusione, ma il difetto della scarsa elaborazione, da parte dei lettori, dei contenuti.
Se, invece, una rivista Web parte da un gruppo coeso, significa che già esiste una linea editoriale e, dunque, che i commentatori non potranno pretendere di contrastarla: il Web è vasto, vivaddio, e c’è posto per tutti!
Il rischio – in questo frangente RicBo ha ragione – è quello della totale paralisi, poiché l’inveterata abitudine di scontrarsi come tifoserie calcistiche finisce per subissare, con gli strepiti e gli slogan, chi cerca un colloquio pacato e fruttifero.

Potremmo, allora, focalizzare meglio il problema mediante un esempio: noi tutti viviamo in un sistema di pensiero “libero”, nel quale, però, non è in discussione il capitalismo. In altre parole, possiamo scegliere all’interno di una panoplia “chiusa” d’opzioni: quella dell’economia pianificata e gestita dallo Stato – giusta o sbagliata essa sia – non è concessa. E’ fuori dal novero delle possibilità concesse.
Altro esempio: la soluzione del problema palestinese potrebbe passare attraverso la semplice soluzione di un solo Stato con normalissime elezioni, parlamento, ecc. Come avviene – con tutti i difetti che già Churchill esponeva – in Europa. Già, ma l’opzione che Israele possa trasformarsi in uno Stato non-confessionale è fuori del novero, non è nemmeno proponibile.
E potremmo continuare.

Rompendo questo schema, nasce una linea editoriale che non è una proposta politica, bensì la necessaria base di discussione per trovarla: i siti che si pongono come semplici “espositori” dell’esistente, di ciò che viene prodotto dal “mercato” dei blog, questo problema non l’hanno, ma – tempo su tempo – non si schioderanno mai dall’impostazione delle tifoserie contrapposte.
In alternativa – una rivista che desiderasse diventare punto di riferimento culturale per un’area che non è “anticapitalista” od “anti-israeliana”, bensì di chi si pone il problema del superamento del capitalismo, giacché l’attuale forma “mercatista” è fallimentare, idrovora di risorse e incapace di dare serenità e certezze alle popolazioni, così come una soluzione al problema palestinese che ponga fine all’inutile stillicidio di vittime – insomma, una rivista che ponesse come incipit la discussione su un nuovo modo d’interpretare i fenomeni – prima le esigenze delle popolazioni, poi quelle del capitale – sarebbe un luogo dove chi sostiene, invece, quei modelli non avrebbe senso. Sarebbe inutile la loro partecipazione, giacché sarebbero in contraddizione con gli obiettivi liberamente scelti da un gruppo di persone.
Sarebbe come se, dopo essersi messi d’accordo per costruire insieme una casa, altri pretendessero di partecipare per costruire un aeroplano: nulla in contrario alla costruzione d’aeroplani, ma andate a farlo da un’altra parte!

In questo modo, il problema posto da RicBo trova soluzione – in parte seguendo proprio le sue indicazioni – poiché non si può parlare di censura se un intervento è contrario ai principi generali di una rivista, agli obiettivi che si prefigge. Anche perché – seguendo il dettato dell’art. 21 della Costituzione – il Web è il vero “moltiplicatore” delle possibilità d’espressione, e dunque non si priva nessuno di quella, giusta e necessaria, attività.

Da qui, discende la prassi di cancellare – senza doverlo giustificare – qualsiasi intervento che non sia in argomento, poco rilevante o di disturbo, poiché finirebbe per depotenziare il lavoro altrui. Quale lavoro?

Quello di cercare risposte ad una serie d’interrogativi:
- La forma di Stato italiana è, attualmente, coerente con un armonico sviluppo delle personalità, con il necessario benessere e la protezione sociale?
- L’attuale ripartizione della ricchezza è compatibile con il dettato costituzionale?
- La politica estera italiana è coerente con le necessità ed i principi ai quali s’ispira la Nazione?
- Le attuali scelte in campo energetico sono, nel medio-lungo periodo, convenienti?
- La diffusione della popolazione sul territorio è la migliore per la salvaguardia dell’ambiente e per il reperimento delle risorse?
- L’imprenditoria deve essere solo privata oppure lo Stato deve mantenere dei precisi ambiti?
- I frutti dell’impresa appartengono totalmente all’imprenditore oppure ci deve essere una forma di compartecipazione nella gestione?
- Quali percorsi si possono individuare per la previdenza sociale? E’ pensabile e realizzabile un reddito di cittadinanza che superi la questione?
- Come uscire dal dilemma impunità/eccessiva lunghezza dei processi nell’ordinamento giudiziario?
- Come armonizzare e far diventare contributo culturale l’immigrazione?
- Il “pianeta lavoro” è oggi coerente, per forme e diffusione, con l’attuale fase di deindustrializzazione?

Questa è una breve lista d’argomenti, ai quali se ne potranno senz’altro aggiungere altri.

Una rivista che riuscisse ad incidere ed a proporre una “palestra” d’argomenti sui quali dibattere, diventerebbe rapidamente un vero e proprio faro per la cultura italiana: ben presto, sarebbero in tanti ad arrivare, proponendosi come scrittori o come commentatori.
E, questo – con buona pace di RicBo – è probabilmente l’unico antidoto al pericolo del “monismo” che già Tocqueville intravedeva nella Rivoluzione Francese: quel “monismo” fatto di un pensiero unico tranquillizzante come l’arsenico, che sta avvelenando l’Italia ed il Pianeta poiché costituito da assiomi incontrovertibili: economia “libera”, Stato “leggero”, diritti “compatibili” e via discorrendo.

Carlo Bertani potrà anche essere “famoso e tragico” – sul primo aggettivo mi viene da ridere, sul secondo ammetto che una riflessione (personale) sia utile – ma saranno proprio mille giovani indiani, con le loro timide frecce di carta – quando si leverà l’alba di un buon giorno per vincere – a scompaginare le schiere dei corazzati del pensiero unico. Nessun altro potrà mai farlo.
Saranno vittoriosi proprio dove le colonne degli eserciti regolari dell’informazione – ancora una volta, con buona pace di RicBo – hanno fallito.


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