27 febbraio 2014

Perché, Beppe?


Sono rimasto veramente basito dall’espulsione dei quattro senatori del M5S, al punto da chiedermi se dare di nuovo il mio voto al movimento, perché questa è stupidità pura e semplice.


Beppe Grillo deve capire che, oltre ai suoi bravi parlamentari, nel Paese c’è gente che mastica un po’ di politica – e vorrebbe masticare quella buona, non scorrere ogni giorno il bollettino giudiziario per leggere chi hanno arrestato oggi – e questa espulsione faticano a mandarla giù.

Non capisco quale sia stato l’errato comportamento di questi 4 senatori, ho ascoltato i “capi d’accusa” e le loro difese: se c’è dell’altro sotto bisognava dirlo prima, non adesso, ma mi sembra che il tutto sia un ballon d’essai.



Ma veniamo alla “crisi” del movimento, che sbaglia perché gli italiani avevano iniziato a fidarsi di lui: soprattutto avevano colpito la strenua difesa della Costituzione ed avevano compreso che i “ragazzi” portavano avanti leggi ben fatte...gliele bocciavano tutte!

Superato questo scoglio – forse i giovani non si rendono conto di quanto sia difficile conquistare la fiducia dell’elettorato grazie ad un comportamento cristallino, a fronte di parole d’ordine che (spesso) non sono a portata dell’elettore medio (penso all’Europa, all’euro, ecc) – l’unica cosa da non fare era dare l’impressione di una banda di farfuglioni. Ossia: oggi diciamo una cosa ma, se non va bene al capo, domani se ne dice un’altra.



I 4 senatori – ripeto: se c’era dell’altro bisognava dirlo prima – non hanno infranto nessuna regola: non hanno mica votato pro-TAV, come i loro colleghi del PD poi espulsi!

Hanno criticato il modo di porsi di Grillo di fronte a Renzi: giusto? Sbagliato? Non lo so, ma non è questo il problema.



Grillo è apparso come uno che aveva fretta di finire al più presto ed ha subissato Renzi con le parole: è la solita tecnica di non lasciare parlare l’avversario, tipica di Brunetta o di La Russa. E’ una pratica che è contenuta nei manuali di Comunicazione: la si insegna, la si impara. Ma non è mai un bello spettacolo osservare due che litigano e non capire una mazza di quel che si dicono: è la pratica d’annullare l’avversario con la forza – puramente fonica – delle parole.

Grillo poteva lasciar parlare Renzi e, ad ogni sua proposta, dirgli (anche con veemenza): vuoi tagliare il cuneo fiscale? Dimmi dove prendi i soldi. Voi investire nella scuola? Dimmi dove prendi i soldi, ecc.



Il quesito, in realtà, ne contiene un altro di ben altra portata, ossia la gestione della democrazia interna di un partito o movimento che sia, e domani di un governo: non a caso Peter Gomez cita Alexis de Tocqueville (1) quando si solleva il problema, perché il problema è vecchio come la democrazia.



Vorrei fare una premessa: qui si discute solo del M5S, perché gli altri hanno altri “mezzi” per contarsi, ossia chi prenderà più soldi, più appalti, fino alle donnine dai facili costumi.



Un partito che sottovaluta il dibattito interno gioca una partita pericolosa, perché rischia di non essere capito (questo è il caso odierno) ma rischia anche, domani, di perdere i voti di queste “minoranze” interne e, un giorno, gli appoggi al proprio governo.

Ora, Beppe, pensare ad un gruppo dove tutti pensano allo stesso modo e non c’è una smagliatura diversa – sinceramente – mi fa venire alla mente un gruppo d’automi lobotomizzati.



Più volte, all’inizio di questa avventura, hai ripetuto che tu saresti stato solo “l’input” per lanciare queste persone: una scommessa vinta, perché è stato dimostrato che un gruppo di persone intelligenti sa fare meglio dei politici di professione.

Però promettesti anche di lasciare loro libertà – a fronte di non tradire ben precisi impegni presi (il non statuto) – cosa che è accaduta in alcuni casi, molto meno in altri.



L’impressione che si ricava è di uno stalinista che lancia proclami mentre le truppe (ovviamente, oggi, sconfitte: si sapeva) lottano ogni giorno proprio per affermare un nuovo concetto di democrazia in una palude dove, a fronte di pochissime persone oneste, gli Scillipoti ed i Razzi sono la normalità.



Ora, io non so – a parte quella critica sul colloquio con Renzi – se le altre prove portate siano convincenti: non mi sembra che valgano il trambusto che oggi c’è nel movimento. I 4 sbattuti fuori avevano sempre votato compatti con il gruppo.

Magari facendo delle critiche, portando altre argomentazioni – ma questa è la democrazia, baby – altrimenti si finisce con un piccolo Stalin che urla da una tribuna elettronica e dei parlamentari che iniziano a chiedersi perché stanno lì, per fare che cosa.



Pensaci, Beppe: forse sono cresciuti, e come tutti i figli che crescono prendono la loro strada. Eri tu che avevi promesso – ricordati di Gibran Khalil Gibran – d’essere solo l’arco.



(1) http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/26/espulsioni-m5s-stupidita-e-dittatura-della-maggioranza/895821/

17 febbraio 2014

Ho fatto un sogno


“La funzione dell'industria non è solo e neanche principalmente quella del profitto. Lo scopo è migliorare la qualità della vita mettendo a disposizione prodotti e servizi.”


Giovanni Alberto Agnelli nel 1996, un anno prima della morte.

(Consiglio la lettura della bellissima intervista che lo stesso Agnelli concesse a Tiziano Terzani: è nel libro “In Asia”)



Chissà perché, quando una persona scrive, deve sognarselo anche la notte: così lavora il doppio, ma questo non è labor bensì opus, perciò ben vengano i sogni, anche quando intervisti qualcuno mentre dormi.

Ad essere sinceri non ricordo nemmeno il nome né il titolo dell’intervistato: mi pare “M qualcosa”, ma non saprei dire se dott. oppure ing. L’unica cosa chiara era che mi trovavo negli uffici della FIAT di Mirafiori (chissà perché, non in Corso Marconi o al Lingotto) e quel giovane che mi stava di fronte era l’amministratore delegato della FIAT.

Era proprio giovane, nemmeno 40 anni, abbastanza anonimo e quasi si confondeva con l’arredamento: aveva rispolverato in qualche magazzino quegli splendidi mobili anni ’30 e li aveva fatti restaurare. L’enorme scrivania “da soci” – dove quasi si perdevano i due PC – lo scrittoio con l’abattant a saracinesca, le librerie in tuia chiara, le sedie con i braccioli curvi, un tavolino gentilmente, ma semplicemente, intarsiato: il tutto dava un’impressione di semplicità, luminosità e grande eleganza.

Di fronte a me lui, quel tipo che aveva preso – anzi, ripreso – in mano la FIAT ed ora sedeva all’ultimo piano della Palazzina di Corso Agnelli: sorrideva e mostrava i denti bianchi come la camicia. Chissà perché aveva concesso un’intervista proprio a me? Va beh, cominciamo.



Ci vuole spiegare chi è lei e cosa rappresenta la posizione che occupa?

M. Mi chiamo...(e chi se lo ricorda)...ed ho 38 anni. Terminati gli studi...(idem)...sono stato scelto – dopo un concorso pubblico per titoli ed esami – per dirigere quest’azienda che, come lei ben saprà, nasce dalla nazionalizzazione della FIAT e da una susseguente joint venture con alcuni ex proprietari dell’azienda, in primis la famiglia Agnelli.



Scusi...ho sentito parlare di nazionalizzazione...si vuole spiegare meglio?

M. Certo, anche se la questione è un po’ complessa...un comitato di cittadini rispolverò i vecchi accordi nei quali il Governo aveva consegnato miliardi di finanziamento (rivalutati ad oggi, in euro) come sostegno all’azienda ma con la clausola di mantenere attivi e d’incrementare gli impianti FIAT in Italia. Invece, la gestione Marchionne non rispettò quegli accordi – che non avevano scadenza – e deindustrializzò il Paese, giungendo a portare l’industria (col fantomatico logo F.C.A.) in Olanda e poi in Gran Bretagna (per le questioni finanziarie) lasciando negli stabilimenti italiani solo la produzione di dubbi modelli, poco appetibili sul mercato interno.



Non mi è chiaro il passaggio, dalla proprietà F.C.A. alla nazionalizzazione...

M. Immagino: prima le ricordavo che la questione è molto complessa ed ha aspetti giuridici ancora aperti. Sia la Corte Costituzionale ma, soprattutto, la Corte dei Conti rilevarono delle irregolarità nel rispetto di quei contratti fra il governo e l’azienda, ed aprirono un contenzioso con F.C.A. Sulle prime, l’azienda rispose con un’alzata di spalle “Quei soldi non li ho presi io”, dichiarò Marchionne: ed era vero, ma il principio che sostenne la Magistratura italiana fu quello della sostanziale continuità di un’azienda, a meno che non intervenga una procedura fallimentare, cosa che non era avvenuta. Da qui, partì l’ordine di sequestro per gli stabilimenti e le proprietà FIAT in Italia.



Come reagirono gli americani?

M si mette a ridere. Sì, in effetti si parlava solo inglese in quel periodo...in ogni modo la cosa fu breve perché passò nelle mani degli studi legali, com’era ovvio. Altrettanto naturale fu la risposta della Magistratura Statunitense che non riconobbe nulla: anzi, lanciò l’accusa d’appropriazione indebita agli italiani. In Europa, però, c’era il precedente dell’accordo Governo-Opel (il cosiddetto accordo Opel-Magna) che pesava: gli stabilimenti erano rimasti in Germania, così come il management, ci furono i finanziamenti pubblici con tanto di accordi, rispettati da entrambe le parti.

Forte di questa vicenda, l’Italia tirò dritto e non riconobbe la sentenza americana, giacché il WTO s’era dichiarato non competente a dare un parere in materia. Di più non le posso dire: ci furono accordi internazionali senz’altro, ma questo avvenne prima che io prendessi in mano l’azienda. Insomma: F.C.A non tirò fuori un soldo, e lo Stato italiano si tenne gli stabilimenti.



E la famiglia Agnelli?

Per la prima volta, M pare in difficoltà, quasi intristito. Le ultime vicende avevano relegato in secondo piano la famiglia Agnelli: il vero deus ex machina era John Elkann, che – fortunosamente – era stato sollevato dall’ombra del fratello Lapo dal noto scandalo. Se andiamo ancora indietro, ci sono fiorenti dietrologie sulla morte di Giovanni Alberto Agnelli e, soprattutto, di Edoardo, sulle quali è meglio non entrare: l’unico dato assodato è che la FIAT fu totalmente nelle mani degli Elkann, che chiamarono Marchionne.



La struttura interna è cambiata?

M. Abbiamo ritenuto che la situazione – veramente difficile nei primi tempi – richiedesse una maggior collaborazione fra azienda e lavoratori. Abbiamo perciò adottato, sul modello tedesco, la “codecisione” (Mitbestimmung) che consente ai lavoratori di partecipare alle grandi decisioni di politica industriale e, soprattutto, a fine anno di ricevere un premio di produzione sugli obiettivi economici raggiunti dall’azienda.



E per quanto riguarda i modelli?

M. Questo è il settore che più ci conforta. Per le auto FIAT abbiamo rivoluzionato le motorizzazioni: lentamente, stanno affermandosi le nuove versioni elettriche, delle quali Marchionne non voleva sentir parlare. Abbiamo concordato con l’ENI che, nell’arco di 5 anni, 10.000 stazioni di rifornimento italiane saranno dotate di impianti per la distribuzione dell’Idrogeno, il quale verrà generato in loco, mediante elettrolisi, con l’apporto del comune rifornimento elettrico. Questo consentirà di valutare con precisione le accise, ma lascerà al gestore un margine di manovra sui prezzi, poiché l’Idrogeno prodotto la notte costa di meno, dato il calo notturno del prezzo dell’energia elettrica.

La FIAT, tramite i suoi centri studi, ha elaborato un sistema misto elettrico/Idrogeno con possibilità di rifornimento dalla comune rete elettrica oppure alla stazione di servizio. Nel primo caso vengono ricaricate direttamente le batterie, nel secondo si aziona la cella a combustibile per rifornirle. Il pregio di questo sistema è che il banco-batterie è meno capace (minor costo) mentre, sull’altro piatto della bilancia, c’è il costo della fuel-cell. Il vantaggio risultante da questi due aspetti contrastanti è, però, un’autonomia simile ai modelli a benzina/diesel, poiché il rifornimento può avvenire ovunque: va sfatata la falsa credenza che l’Idrogeno sia pericoloso, giacché le auto a gas ed a metano circolano da decenni. Ovviamente, tutte le auto hanno il recupero dell’energia in frenata, lo spegnimento automatico ai semafori e, come optional, il pannello fotovoltaico sul tetto.



Sì...ma volevo chiederle proprio dei modelli, delle auto...

M. Certo, i modelli sono importanti, anche l’occhio vuole la sua parte...(sorride). La Panda è il nostro cavallo di battaglia, poiché è un’auto ben costruita e piacevole: col motore elettrico diventa addirittura economica, soprattutto per la scarsa manutenzione del motore elettrico e del banco batterie, che si sostituisce in un paio d’ore. L’energia termica prodotta in perdita d’energia dalla fuel-cell viene usata per il raffreddamento/riscaldamento.

Dopo la Panda stiamo valutando una media cilindrata di nuova generazione: oggi è alle prove su strada, e presto sarà sul mercato. C’è poi, allo studio, una piccola city car urbana a due posti.



In pratica, un solo modello...

M. No, no...è sul marchio Lancia che abbiamo investito di più. La nota Lancia Y è stata motorizzata sul modello della Panda, e sta andando molto bene. I bravi designer italiani hanno poi fatto un miracolo: partendo dalla vecchia Lancia Ardea hanno creato una media cilindrata che piace molto, alimentata a gas oppure a benzina: è, ovviamente, un’auto del giorno d’oggi ma ha quel tanto di “antico” nel design che conquista l’acquirente, ed anche il prezzo è abbordabile. Dedicate prevalentemente ai mercati esteri sono, invece, una medio/alta cilindrata creata sul modello della Lancia Appia II serie (per ora solo a benzina) e la riedizione della mitica Fulvia HF: entrambe stanno andando molto bene nel mercato inglese e statunitense.

La Ferrari sta invece valutando un modello che parta dalla mitica serie dell’Aurelia B-20 per i mercati esteri: ovviamente, con un nuovo design e motori Ferrari!

Il marchio Alfa Romeo era quello che destava meno preoccupazioni: per ora continuiamo la produzione tradizionale, poi si vedrà un’eventuale transizione ad Idrogeno.



Ma, tutto questo non ha generato lotte con la F.C.A.?

M. Evidentemente sì. Il contrasto sul piano giuridico e dei marchi è tuttora in corso ma, come le dicevo, le sentenze della magistratura italiana – che ha trovato sponda nel Governo, per la prima volta attento ai bisogni dell’industria italiana – stanno bloccando la F.C.A la quale, oggi, produce negli stabilimenti americani, ma i vecchi modelli italiani, non i nuovi che abbiamo messo in produzione! Soprattutto, da quelle parti non si parla d’elettrico e d’Idrogeno! Il contrasto sui marchi richiederà molto tempo per essere risolto – giacché entrambe le parti hanno ottime argomentazioni giuridiche – insomma, chi vivrà vedrà...intanto, cerchiamo di lavorare bene...e di creare nuovi modelli grazie ai designer italiani i quali – me lo lasci dire – sono i migliori del mondo!



Un’ultima domanda: la famiglia Agnelli?

M. Preferirei che lei non m’avesse fatto questa domanda. In ogni modo – sospira – gli investitori del gruppo IFIL sono tornati ad investire in FIAT staccandosi dalla EXOR e, ad oggi, rappresentano circa il 40% del capitale. Il resto, è finanziato da una quota ENI, una dello Stato ed altri prestiti di minore entità presso le Banche; come lei saprà, anche qui vige la Golden Share: per ora il capitale privato non può superare il 49%. La famiglia ha avuto notevoli scontri interni – addirittura il contrasto giudiziario fra Margherita Agnelli ed i figli – e, per rispetto, non desidero parlarne.



Ci salutiamo, è cordiale, aperto, sincero: qualità perdute nei manager italiani.

* * *

Nel bel mezzo della buffonesca “crisi” politica italiana, mentre il Parlamento non vota più le sfiducie – vengono decise anch’esse dall’alto – ed il candidato premier in pectore non va nemmeno a farsi investire personalmente – preferisce “calare” da Firenze con i suoi accoliti, in una Marcetta su Roma guidata da un penoso burattinaio/paninaro – ci siamo accorti che c’è stata scippata la più grande azienda italiana?

Dopo gli innumerevoli piani aziendali nei quali s’è scervellato Marchionne (nessuno realizzato), che – però – sempre ricevevano il plauso del sindaco Fassino, adesso – nel silenzio generale (sembra quasi che sia di nuovo calata la storia del povero Alfredino per coprire Gladio) – la maggior azienda italiana ha trasferito la sede legale in Olanda, quella finanziaria a Londra e sarà quotata alla Borsa di New York.

In pratica, dopo decenni d’accordi – “Se la FIAT sta bene l’Italia sta bene” raccontava Gianni Agnelli – che in qualche modo furono rispettati (gli impianti di Melfi, ecc) oggi il predatore Marchionne – sostenuto dalla classe politica italiana – s’è preso tutto il tacchino e, mentre lo mangia, getta sotto il tavolo le ossa per i politici italiani.

Un’altra sconfitta, un altro schiaffo in faccia alle imprese italiane: a quando la trojka europea verrà direttamente a dettar legge da Palazzo Chigi? Quando si stuferanno dei nostri burattini e manderanno direttamente i Gauleiter?



Alcuni giorni or sono, è stato pubblicato su CDC un interessante articolo di Eduardo Zarelli su Alain de Benoist. Insieme al compianto Preve è una persona “senza padroni”: un intellettuale veramente “non organico”, da ascoltare con attenzione. Le idee non nascono certo dalla cloaca politica attuale: primattori ed attacché sono della stessa pasta.

Facciamo una domanda retorica: sulla base di quale diritto si sconvolgono le popolazioni, i loro ritmi di vita, le abitudini (anche industriali), le tradizioni...creando voragini sociali fra generazioni, scompensi abissali di ricchezza e perché il problema non viene messo in evidenza?

Prendiamo, ad esempio, Torino – città che conosco bene, dove ho vissuto e studiato – città di media grandezza fino alla colossale emigrazione dalle campagne prima e dal Meridione poi.



Nel censimento del 1901 non raggiungeva i 400.000 abitanti, in quello del 1931 i 600.000 (nel 1939 fu inaugurata Mirafiori), nel 1951 superava di poco i 700.000: nel 1971 un balzo epocale, 1.200.000 abitanti! Oggi, è scesa a circa 900.000. In soli 20 anni (’51-’71), un incremento di 500.000 abitanti! Per chi conosce Torino è facile rendersene conto: le parti otto-novecentesche sono ben visibili, mentre la distesa di nuove costruzioni, a perdita d’occhio, creò nuovi quartieri, sconvolse la geometria della città. E fu metropoli.



Oggi, con la deindustrializzazione in atto, Torino ha perso 300.000 abitanti: negli anni ’70 si diceva che la sola FIAT (senza l’indotto) occupasse circa 100.000 persone e, dunque, 400.000 torinesi “vivevano” di FIAT. Se aggiungete l’indotto, si nota lucidamente perché fosse chiamata la “città della FIAT” oppure “il regno di Agnelli”, ecc.

La stessa cosa è avvenuta ad Ivrea: fa stringere il cuore osservare le costruzioni in vetro di Adriano Olivetti invase dai rovi, vetri spaccati, abbandono totale. Ringraziamo De Benedetti.



Senza ricordare eventi storici che ben conosciamo, c’è da chiedersi come può una popolazione subire simili contraccolpi senza precipitare nel degrado: è una cosa facile da capire.

Riassumendo: Torino, prima della FIAT, era una capitale prealpina decaduta, ma che conservava molti “addentellati” rimasti in Piemonte: una per tutte, le strutture della RAI. Poi venne la FIAT e, per un secolo, divenne la città dell’automobile. Oggi?

Al giorno d’oggi, girando per Torino, si coglie nell’aria “l’odore” del degrado e dell’abbandono: cosa fanno 900.000 persone in una città che non ha quasi più tessuto industriale?

Quelle fabbriche chiuse, per crescere – prima dell’immigrazione meridionale – rastrellarono le campagne del Canavese: dall’autostrada Torino-Aosta si può notare un fenomeno curioso, ossia la crescita – in aree di fertile pianura – della roverella originaria, quella che incontrarono i Romani quando salirono verso le Gallie.



La domanda è: è possibile, nel tessuto urbano, creare quelle condizioni di socialità che preludono a nuove comunità coese, il “comunitarismo” di de Benoist? A mio avviso, no.

Ritornare alle campagne?

Paradossalmente, manca il know-how: chi sa ancora potare una vigna, allevare un maiale, osservare con occhio attento se le patate ed il grano crescono bene? Nella completa assenza di uno Stato? Uno Stato che non ha mai creduto nell’agricoltura – la nomina dei ministri dell’Agricoltura è tutta una barzelletta – che ha demolito la rete dei consorzi agrari e che, contemporaneamente, permette lo sciacallaggio del tessuto industriale?

Non mi sembra che “nell’intervista” siano state proposte soluzioni tecnologiche avveniristiche: la altre case automobilistiche stanno sperimentando e già vendono i primi modelli con le nuove tecnologie.



Intanto, gli italiani sembrano correre dietro alle bufale politiche come Renzi: in realtà – a parte gli apparatcik, che sono tanti – se ne fregano, ridono o scuotono la testa, smarriti.

Trovo molto equilibrata la posizione di Grillo: non fuori dall’Europa per principio ma, se l’Europa non cambia drasticamente marcia fuori, costi quel che costi. Abbiamo bisogno di uno Stato che torni a fare lo Stato: senza autoritarismi, ma con autorevolezza: mandiamo a casa questi buffoni.