20 aprile 2017

Che ne facciamo di Schettino?


Fra pochi giorni, sarà celebrato l’ultimo atto della vicenda Costa Concordia e per Francesco Schettino sarà veramente l’ultima spiaggia: se verrà confermata la sentenza d’Appello saranno 16 anni di carcere, ma il P.G. della Cassazione ha già anticipato che chiederà 27 anni. Una pena troppo pesante per un omicidio colposo, seppure plurimo? La pena per l’omicidio volontario è di 22 anni. Tutta la vicenda ha un sapore assai strano: a Schettino non è stato ritirato il passaporto, e l’interdizione al comando – guarda a caso – è stata comminata per soli 5 anni.
Recentemente, Schettino ha pubblicato su Youtube un breve filmato intitolato “L’onore del marinaio” (1) e non ci sentiamo di dargli completamente torto.

Sarà perché tante volte ho visto la Concordia entrare in porto, a Savona, proprio mentre mi recavo a scuola, magari proprio al Nautico e ricordo l’imponente massa che, talvolta, suonava i rituali 5 colpi di sirena rivolta a barche, pescherecci e quant’altro: 5 colpi significano “non capisco cosa cazzo vuoi fare”. Ricordo che sorridevo, pensando al pilota occupato a seguire magari 3 o 4 bersagli mentre conduceva in porto un albergo galleggiante con 5.000 anime sopra.
Voglio precisare subito: per come sono andate le cose, Schettino doveva essere degradato a mozzo senza ripensamenti. Mai più doveva salire in plancia in comando: questo mi stupisce della sentenza di primo grado, sostanzialmente confermata in appello, perché girando attorno alle vicende processuali ci sono troppe cose che non tornano: gente che ha ricevuto medaglie e, poi, s’è trovata a dover patteggiare le pene, altri che hanno fatto la parte del leone e poi sono stati trasferiti, ma andiamo con ordine.

Nel 1974 mi trovavo al Giglio, accampato “sotto le stelle” proprio sulla punta delle Scole, che separa Giglio Porto dalla baia delle Cannelle. Nella baia, era ancorata una pilotina del New England di proprietà della contessa Agusta (quella che sposò un calciatore nero, ricordate?). Non fatevi fuorviare da quel “pilotina”: la “barca” in questione era un tre alberi di 100 piedi di lunghezza, equipaggio in divisa, ottoni lucidi e tutto il resto…se ne stavano lì, a fare i bagni.
Un giorno, probabilmente per rifornirsi di carburante, si recarono a Giglio Porto (a motore, ovvio) e fui stupito perché la rotta, vista da lassù, puntava dritta sull’Argentario (pressappoco per 90°): fecero un lungo bordo – circa un miglio – prima di virare di 180° circa ed entrare a Giglio Porto. Perché?
Poiché dal mio punto di osservazione, in alto, si notava chiaramente il “campo minato” di scogli che, dalla battigia, continuavano per centinaia di metri: manco con un gommone – pensai – sarei andato a cacciarmi lì dentro! Saggio, il comandate della pilotina – perché cercarsi grane? – mentre Schettino fu proprio tutto meno che avveduto.

E’ vero che lo spettacolo del Giglio con poche luci, nel buio invernale era atteso dai passeggeri, ma c’è modo e modo di farlo!



Osservate, nella cartina, l’angolo fra la rotta della Concordia e la costa Est dell’isola: troppo ampio. Pare quasi una rotta per entrare in porto al Giglio (se mai fosse possibile, con un simile “bestione”!) Chi tracciò quella rotta? Non lo sappiamo. Chi doveva approvarla? Il comandante. Per questa ragione affermo che Schettino non dovrebbe più comandare nulla, manco un pattino. Toglietegli anche la patente nautica.
Con una rotta più verso Nord, una correzione di rotta sarebbe stata più agevole: ma dove ha imparato, Schettino, a condurre una nave? E la velocità? Oltre 16 nodi! Non facciamoci proprio mancare niente per combinare un bel disastro!
Come è avvenuto? Colpa della globalizzazione, anche in quel caso.

La legge, oggi, impone la lingua inglese nei comandi in plancia. Così, invece di “timone a dritta” bisogna dire “on the starboard” e per timone a sinistra “on the port”. Immaginate…onthestarboard…ontheport…ditelo in fretta: com’è? Confusione? Pensate un po’…con un timoniere indonesiano che mastica poco l’inglese…
Così, con una bella accostata a dritta (invece che a mancina) per allontanare la poppa dagli scogli, si è giocato con la vita di 32 persone: bisognava pensarci prima, con una diversa rotta ed una velocità più bassa.

Un naufragio è una tragedia: anche quando finisci in mare da una piccola deriva a vela…ti viene una paura irrazionale…anche se sai nuotare, se è giorno, piena Estate…ti viene un terrore inconsulto e cerchi d’aggrapparti a qualsiasi cosa, anche se basterebbero poche bracciate per giungere a terra.
Un naufragio di 5000 persone, di notte, d’Inverno, nel volgere di un’ora…è una cosa che non riesco nemmeno ad immaginare: pur comprendendo le procedure, non penso che ci sia essere umano in grado d’affrontarlo. l’Andrea Doria, tanto per essere chiari, rimase a galla ancora per quasi un giorno: per certi versi, il naufragio della Concordia ricorda quello del Titanic: notte, freddo, stesso “taglio” delle lamiere per più compartimenti, inabissamento repentino.

Se non bastassero i prodromi – e qui Schettino ce l’ha messa proprio tutta – quando la nave, già da un’ora, è adagiata sugli scogli del Giglio, si fa vivo un certo De Falco – Capitano di Fregata della Capitaneria di Grosseto – che completa l’opera: dalla tragedia al teatro dei pupi.
Da cento chilometri di distanza, senza aver chiara la situazione, senza sapere niente – in pratica – fa una bella lavata di capo a Schettino, diventando un eroe nazionale. Successivamente, De Falco, sarà trasferito (non dietro sua richiesta) ad un incarico amministrativo (non operativo), proprio per aver aggiunto, per pura insolenza (tipicamente militare), un po’ di pepe sulla ferita: oh, come godono i media di mezzo mondo quando un “vero uomo” sale alla ribalta!

Prima d’andare avanti, bisogna ricordare che una nave, nel momento che viene dato il comando d’abbandonarla, diventa un relitto: da quel momento in poi, il comandante cessa d’esser tale e la competenza passa alla Marina, tramite le Capitanerie di Porto. Schettino, giuridicamente, era un naufrago come tutti gli altri.
Senza ricordarsi che il comandante Calamai (Andrea Doria) si salvò – ma anche l’amm. Nagumo sopravvisse all’affondamento dell’Akagi (Midway, 1942) come il comandante dell’Indianapolis Mac Vay e tanti altri – chiede a Schettino (non può chiedergli perché non è morto da eroe in plancia! Così fanno i veri uomini!) di risalire su un relitto senza corrente elettrica, buio come il fondo dell’inferno per dirigere le operazioni di sbarco. Che, all’ora in cui ci fu la famosa telefonata, erano pressoché concluse: alcune navi, deviate dalla rotta per soccorrere la Concordia, stavano allontanandosi perché oramai erano in troppi.
Schettino dirigeva, a quell’ora, le operazioni dalla scogliera insieme ai suoi ufficiali: s’avverte, nel colloquio, che Schettino non ha tempo né voglia di stare a sentire la ramanzina del solito capitano rompicoglioni, tant’è che ha già chiamato Roma, ossia il superiore di De Falco, per narrargli l’accaduto. Che, ad essere onesti, non ha mai negato: “Ho combinato ‘nu grosso guaio”, esordisce nel primo messaggio con la Costa Crociere, a Genova.

Poco prima aveva abbandonato la nave con l’ultima scialuppa disponibile, disincastrandola dalla gru che, per l’inclinazione della nave, minacciava di portarla a fondo. Nel momento nel quale lasciava la nave con gli ultimi naufraghi, Schettino era fermamente convinto che tutti gli occupanti avessero lasciato il relitto, perché non era lui a doversi occupare della questione. E chi, allora?
Quando si parla di naufragi e di responsabilità, sono sempre storie infinite: per questa ragione, Charles Butler McVay III (comandante dell’Indianapolis) si stufò e, nel 1968 – dopo 23 anni di avanti e indietro, sentenze di colpevolezza seguite da assoluzioni e tante scuse – si stese sul prato di casa e si sparò un colpo con la pistola d’ordinanza.

Schettino non rischia questi “avanti e indietro” – è responsabile e colpevole dell’affondamento – però ci sono altri che non hanno eseguito i loro compiti: primo fra tutti, il capo commissario di bordo Manrico Giampedroni, rimasto ferito (una gamba rotta) durante le operazioni di evacuazione e dimenticato sul relitto per un giorno e mezzo – per questa ragione ha ricevuto una medaglia al valore dal Senato – ma…quali erano i suoi compiti? Quella sera, dove si trovava?
Era sull’aletta di plancia, a sinistra, e si godeva lo “spettacolo” del “inchino” al Giglio, mai eseguito (sic!) così vicino alla costa dell’isola.
Così, ha patteggiato una pena a 2 anni, perché:

“…non avrebbe fatto evacuare i passeggeri dalle cabine della Costa Concordia e non li avrebbe fatti radunare nei punti di raccolta per avviarli alle lance di salvataggio, e non avrebbe coordinato l'emergenza in base ai prescritti protocolli.”

Insomma, l’uomo che aveva la responsabilità “alberghiera” della nave, in quel momento, stava in plancia (dove non doveva essere) e si trastullava. Disse anche: “Oh, ma quegli scogli li prendiamo in pieno!”. E scomparve, rimanendo poi ferito in un ponte inferiore, da qui la medaglia del Senato. Concessa con troppa fretta? Beh…similis similia solvitur…sappiamo bene che i senatori non perdono tempo per unirsi al coro dei media ed apparire in Tv…
Anche a Schettino è stato dato un riconoscimento – insieme a tutto l’equipaggio – nientedimeno che dai Lloyd's di Londra, per il comportamento tenuto durante il naufragio e per il salvataggio dei passeggeri.
Perché?

Poiché tutto il naufragio, dall’impatto a “nave ferma” semiaffondata, è durato circa 63 minuti e, in quei 63 minuti, il mondo si è capovolto per le persone sulla Concordia: dai brindisi al sapore, amaro, dell’acqua salsa.
La manovra tentata e riuscita, eseguita dagli ufficiali della nave – senza poter contare sulle macchine! – è stata da manuale (il plauso dei Lloyd's non giunge a casaccio): filando le ancore in sequenza, a tempo debito, sono riusciti ad accostare la nave alla costa. Cosa sarebbe successo se la Concordia fosse affondata – in 63 minuti! – nel canale? Quante centinaia di morti?

Insomma, tutta la faccenda è stata vissuta su due piani, quello reale (terribile) e quello mediatico, che deve essere spettacolare e che ha i suoi ruoli – il mattatore, il vile, l’eroe, l’amante, ecc – come recitano i canoni della commedia dell’arte. E servono, ancora una volta, ad acchiappare ed a condizionare il pubblico, a portarlo dove si vuole. Quante persone, nei giorni successivi alla tragedia – anche fra le gente di mare! – avrebbero voluto impiccare Schettino all’albero di maestra!

Il giudizio sul governo della nave, da parte del comandante Francesco Schettino, deve essere completo e la pena pesante, non c’è dubbio. Una manovra pericolosissima, senza tener conto che la cartografia GPS contiene un errore di 25-50 metri (per ragioni di terrorismo), ma 50 metri non sono niente in mare, difatti, la gomena, che è la misura corrente per le piccole distanze, è di 80 metri, e non vengono usate altre unità minori. Una gerarchia di comando e controllo molto approssimativa – quando mai un comandante non approva la rotta anzitempo? – l’assenza in plancia (sappiamo perché…) in un momento cruciale, la diffidenza con i suoi più diretti sottoposti, denotano un temperamento sbruffone ed orgoglioso, un comportamento superficiale e guascone. La compagnia è responsabile, per aver conferito il comando ad un uomo simile.

Per le vicende successive all’impatto, però, non ci sono elementi che aggravino la sua posizione nella vicenda: ha fatto quel che doveva fare, da bordo o da terra, la cosa non cambiava.
I giudici giudicheranno: vedremo se la sentenza sarà mediatica o basata sui fatti. Schettino è libero d’andare dove vuole: lo farà? Andrà in carcere?

15 aprile 2017

Guerra mondiale? Non facciamo ridere…


Le notizie dalla Corea del Nord galvanizzano tutti gli analisti della Terra con un solo obiettivo: alzare il livello d’attenzione, fomentare la paura, e mi stupisce alquanto che tanti giornalisti nostrani ci caschino. Servono notizie, quest’anno non ci sono né Mondiali e né Europei di Calcio, ed il Governo ha stilato un DEF che è un libro dei sogni. Le cose vanno male? Diamo loro qualcosa sul quale meditare, nelle notti buie dei soldi che non si trovano, dei balzelli che bisogna assolutamente pagare: La Corea va benissimo.
Ancora ricordiamo gli accorati appelli di Michael Chossudoskj sulle portaerei americane nel Golfo Persico, in funzione anti-Iran. E’ successo qualcosa?
Ma qual è lo scenario reale?

La Corea del Nord non possiede missili balistici che possano raggiungere almeno l’Alaska: oltretutto, i Taepodong1 (2.000 km di gittata) portano un carico bellico scarsissimo (proprio per raggiungere i 2.000 Km) e, al momento, in Corea non sono ancora riusciti a ridurre il peso delle testate. Il Taepodong2 (10.000 Km) è un Taepodong1 al quale hanno aggiunto uno stadio: non ha mai funzionato, è ancora al livello di sogno.
Le armi atomiche coreane potrebbero, al più, colpire il Giappone o la Corea del Sud, ma scatenerebbero la reazione americana, ed il confine delle acque territoriali nord-coreane finirebbe in Mongolia. Pyong-Yang al Polo Nord. Neanche a parlarne.

La Corea, però, possiede armi antinave e missili balistici a media gittata – come i Rodong – che hanno un CEP (Cerchio di Errore Probabile) di 200 metri: lanciandone una salva – il tempo di volo è brevissimo, non sono soggetti a contromisure – con un po’ di fortuna potrebbero colpire la Vinson. Inoltre, possiedono una lunga lista di vecchi missili derivati dagli Scud: non sappiamo quali migliorie siano state eseguite su quei missili, e la questione è la medesima, ossia tiro un razzo non guidato. La precisione? Ignota.
L’unico missile antinave è il K1, ma ha una portata massima di 80 miglia nautiche, e la Vinson non ha bisogno d’avvicinarsi tanto per lanciare un attacco aereo: 100 miglia le bastano ed avanzano. E, probabilmente, non ha nemmeno un motivo per lanciarlo.

La mini-task force americana è composta solo da due caccia ed un incrociatore, che portano un centinaio di missili da crociera: siccome i missili coreani sono tutti in shelter sotterranei, e persino gli aeroporti hanno piste di decollo sotterranee (come avvenne in Serbia, che a fronte di 10.000 missioni aeree non riuscirono a distruggere nemmeno la metà degli aerei serbi), cento missili – sottoposti ad una reazione contraerea, e addirittura degli aerei se la Vinson non lancia i suoi velivoli nella mischia – sarebbero poco di più di una puntura di spillo.

Messe come sono messe le cose, oggi, sembra di più un “pegno” pagato da Trump alle lobby militari e guerrafondaie: come mai solo 4 navi? La Vinson (in servizio dal 1982), è una fra le più vecchie portaerei: ha ancora, come difesa aerea, i vecchi Sparrow-7! Gli stessi del Vietnam! Correttamente, affida ai propri velivoli la difesa aerea, però…

Giustamente, quando s’inizia una guerra non si sa mai dove si va a finire: un minuscolo rischio c’è sempre, ma le risposte di Russia e Cina sono state tiepide. Vai e mostra i muscoli, ma non andare più in là: la situazione, rispetto allo scorso decennio, è cambiata: Russia e Cina fanno parte del capitalismo internazionale a pieno titolo, e gli investitori vedono male rischi sui profitti quando il tasso di profitto è ancora abbastanza alto. Che gli frega della Nord Corea?
Anche Kim-Jo-Un lo sa: il suo minuscolo arsenale strategico vale qualcosa a livello regionale, ma se solo si sbaglia a tirarne uno oggi – quando non ha ancora una capacità nucleare credibile – perde anche il suo status di potenza regionale, e non gli conviene.

Tutto fa pensare ad un attacco mediante missili cruise, che farà qualche danno (poi ingigantito dagli USA) allo scopo d’incrementare, in patria, la sua figura di macho con i cosiddetti sempre pronti: insomma, una zuffa da bar.
Se, invece, avessero voluto veramente piegare la Corea del Nord, avrebbero inviato due o più grandi task force, fatto intervenire i B2 dagli USA (non è detto che non lo facciano) ma il “copione” non sembra quello, perché le misure di supporto all’operazione sarebbero enormemente più vaste: con sole bombe e missili, non pieghi una nazione, né scalfisci una classe dirigente come quella coreana.

State tranquilli: gli unici che le abbiano prese dalla Corea del Nord fummo noi, a Londra, nel 1966. Goal di Pak Doo-Ik, Albertosi osserva sconsolato la palla in fondo alla rete. Si torna a casa, sconfitti e scornati.

12 aprile 2017

Igor Vaclav, chi è?


Ai più, sembra una barzelletta, una cattiva sorte che s’accanisce contro le popolazioni del Delta e prende per il naso tutti i vari cercatori super attrezzati, super concentrati, super addestrati delle forze di sicurezza italiane: non è così.
I militari italiani non sono degli sciocchi, sanno il loro mestiere: il problema è quando “qualcosa o qualcuno” che esula dalla tua esperienza e dalla tua cultura appare, e devi percorrere la sua vita per capire qualcosa: quasi impossibile.

Igor Vaclav nasce a Subotica (Суботица) nella parte Nord della Voivodina, terra di confine fra Serbia, Ungheria e Romania: zona di colline basse, laghi e paludi, proprio la “base” che, seguita da un certo percorso, conduce a quello che è oggi Igor Vaclav (o comunque si chiama). Interessante leggere qualcosa sul luogo d’origine, racconta molto: (1)
Ci sono due o tre punti salienti in questa storia: la capacità di muoversi su terreni impervi ed acquitrinosi lasciando pochissime tracce, quella di procurarsi facilmente armi, e quella di uccidere senza provare sentimenti, paure, senza essere minimamente scosso dall’avvenimento.
Da dove è arrivato, in Italia, Vaclav?
Dalla pista dei cinesi, quella che parte dalla Bosnia, attraversa Croazia e Slovenia (ma può benissimo essere stato un volo fino a Pola), poi il Carso: vuoto, deserto, dopo la caduta del nostro piccolo “Muro”.

Una breve parentesi. Ebbi una “soffiata”, che mi servì per un libro – circa 10 anni fa – da Trieste (ovviamente non dirò nulla, un giornalista protegge sempre le sue fonti) sullo stato del confine giuliano. Un tempo, c’era una enorme caserma della Guardia di Finanza presso Muggia (TS), e altrettanti vopos col Kalashnikov oltre le frontiere: tutto sparito.
S’interessò alla questione una ricercatrice del Censis, aprimmo un canale, ma appena ci fu il sentore che c’era una istituzione dello Stato, immediatamente tutto cessò. Anche una nota congregazione di frati cessò la collaborazione, perché tutto ciò che concerne il traffico d’esseri umani è gestito dai Servizi, i quali pagano quel “conto” – per precise disposizioni “dall’alto” – che salva l’Italia dall’essere una landa aperta al terrorismo di vari tipi.
Dal confine giuliano, le cifre indicavano un passaggio, annuo e costante, di circa 25.000 persone, in qualche modo censite, o almeno conosciute per sommi capi, dalle istituzioni italiane. Sono proprio 25.000? Non si sa: di certo, un Igor Vaclav non ha bisogno d’organizzazioni per il viaggio, per attraversare boschi deserti (infestati dagli orsi) dove, da un lato c’è una bandiera slovena, dall’altro una italiana. E nient’altro. Un Kalashnikov con due caricatori? Cento euro: di qua, lo rivendi per 2.000 al primo delinquente od organizzazione malavitosa.
Vi siete mai chiesti da dove giungono i cinesi? Ed a noi mandano le immagini dei barconi? Chiusa parentesi.

Igor Vaclav poteva rimanere in Serbia, diventare muratore o maestro, bere birra e rakja la sera con gli amici, ma la vita, il tempo, decise per lui: gli anni terribili coincidono con i suoi, è un modello perfetto del combattente di quelle guerre.
Non sappiamo con chi e perché combatté – se davvero fu un combattente – ma una cosa è certa: ha ricevuto un addestramento militare un po’ speciale: sembra, da come si comporta, un agente di unità speciali, di quinte colonne, d’infiltrazione dietro le linee del nemico, ecc.

Prendiamo la famosa balestra: molti si sono messi a ridere…questo va in giro con un arco…ne acquistai una qualche anno fa – 150 libbre – più per curiosità che per altro: mi resi subito conto che era un’arma potente e dai “risultati” terrificanti. Anche difficile da usare, per questo l’ho appesa al muro e morta lì: io, incompetente, non volevo rischiare d’infilzare qualcuno per mia incapacità.
Qualcuno, però, deve avergli insegnato che, in caso d’indisponibilità d’armi da fuoco, s’inizia con il coltello, poi con un arco od una balestra, proprio per procurarsi la pistola od il fucile. E, come si nota, Vaclav ha percorso tutto il “sentiero”: oggi, gira con un fucile e due pistole, ma state certi: la balestra l’ha lasciata in un luogo sicuro.
E come si fa a far perdere le proprie tracce?

Mai seguire un percorso regolare – anche queste cose qualcuno deve avergliele insegnate – perché bastano un centinaio di metri in un torrentello – senza uscire dall’acqua – ed i cani perdono la tramontana. Meglio, poi, se hai delle acciughe salate: ti mangi i filetti e frantumi la lisca, perché manda in “overloading” il fiuto animale. Mia bisnonna salvò così suo figlio dai rastrellamenti: il mio prozio viveva – di giorno – in una tana scavata sotto un letamaio e spesso cosparso con avanzi di pesce, ed i famosi cani da pastore tedeschi non avvertirono mai nulla. E poi: la cacca si fa nell’acqua, mai per terra.

Ora, Vaclav, si trova imprigionato in un’area piuttosto vasta, ma sa che – se non trova una soluzione – prima o dopo lo prenderanno: a mio avviso, si farà prendere vivo, non è un eroe né uno spostato, è semplicemente un tizio che continua una vita che forse gli andò a genio, su e giù fra monti e fiumi della Jugoslavia. Una sorta d’imprinting al quale non è riuscito a sottrarsi.
Anche la scelta di rubare una piccola barca denota furbizia e conoscenza delle tecniche di fuga: quando, di notte, si sposta semplicemente di qualche centinaio di metri con la barca, i rastrellamenti devono ripartire da un nuovo punto, e risistemare tutto lo schema del rastrellamento. Sempre che Vaclav non abbia deciso d’uscire dal quadrilatero dov’è imprigionato: in questo caso, si avvicinerà ad un corso d’acqua che fa da confine e, una volta raggiunta l’opposta sponda – è poi così difficile attraversare cento metri di fiume o canale, se prima hai osservato bene la disposizione di chi ti cerca? Quanti, di notte, resteranno in agguato in tutti i canneti della zona? Sono centinaia di chilometri quadrati! – affonderà la zattera e sparirà in una zona altrettanto impervia.
Di certo non gli manca una cartina, ma non è così fesso da utilizzare un rilevatore satellitare: s’orienta con il sole e con le stelle.

Di certo deve andarsene dall’Italia, oramai è troppo braccato e conosciuto: se riuscirà ad uscire dalla trappola, può darsi che fra poco sparirà una barca od un gommone a motore con il quale, a luci spente nella notte, in poche ore sarà in Istria, e da lì…Ungheria, Romania, chissà…
Possiamo fare tante ipotesi – può anche darsi un colpo di fortuna, un errore… – ma se un Magistrato ha detto, sconsolato “Se non lo trovano loro…” riferendosi al meglio che abbiamo in Italia, probabilmente sanno chi è e la sua storia.
L’ultima riflessione è ciò che generano i militari e le loro sconsiderate guerre.

Osama Bin Laden “resuscitò” a Sarajevo le due divisioni delle Waffen-SS “Handsar” e “Kama” (la prima fu operativa) – le tristemente famose divisioni islamiche del III Reich – e, da lì, si generò la guerriglia afgana, poi quella irachena, oggi quella siriana…
Perché, dall’altra parte, subito nascono i “Navy Seals” e tutto il resto…preda e cavallo, carro armato e caccia-carri, bombardiere e caccia, corazzata e sommergibile…il problema è quando s’addestra della gente per fare queste cose, perché – dopo – i militari li abbandonano. Se non servi più, oggi, non vali un centesimo: ricevono un addestramento così pressante e distruttivo tale per cui un loro utilizzo, lontano dall’uccidere, diventa problematico.
Queste persone, prima hanno distrutto una loro vita affettiva di qualche tipo, poi s’è dissolta l’ultima comunità che li accoglieva: il plotone, entità pluri-anima di un singolo animale, in continua mutazione.
E quando non esiste più il plotone?

Il mondo diventa una plaga priva di relazioni, nella quale niente ha valore: il povero barista di Budrio, con i suoi affetti e la sua vita di relazione (lavoro, amici, affetti, ecc) era uno sconosciuto per Vaclav, intendo sconosciuto come “genere esistente” sulla faccia del pianeta.
Stessa cosa per gli “sparatori” statunitensi, che uccidono senza senso – scuole, piazze, ecc – perché è l’unica cosa che hanno loro insegnato, privandoli – anzitutto – della coscienza di relazione, in primis la propria capacità di poter avere relazioni appaganti, sincere, produttive. E sparano, come al tiro a segno: distruggono cose che non comprendono più.
Per questa ragione ho sempre sostenuto che “il problema” della guerra, è la guerra stessa.

“L’animale soldato” – per essere adatto allo scopo – deve essere privato d’ogni capacità affettiva e relazionale: altrimenti, come potrebbe sganciare una bomba sul quartiere di una città? In tempi passati, i dopoguerra – sempre difficili – erano acquietati dalla ricchezza per i vincitori e dalla volontà di sopravvivenza per i vinti, potenti anestetici. Ma, tutti, inclusi nelle rispettive comunità.
Oggi, con le guerre a “geometria variabile” – nel senso che amico e nemico mutano continuamente con lo scorrere degli eventi – nemmeno più la retorica nazionalista regge: come puoi giurare su un’alleanza che domani sparirà? Italiani e tedeschi ne sanno qualcosa.
L’unica soluzione è perpetuare “Scartiland”, dove impiegare queste “maestranze” alla bisogna: dal Vietnam alla Siria. Con apparenti risultati immediati, ed una inevitabile sciagura finale.

E se qualcuno sfugge, o rimane indietro…beh…una pallottola, prima o dopo, terminerà la sua corsa…ma non prima d’averci mostrato tutta la sua solitudine: tragicamente, nemmeno percepita come tale.

03 aprile 2017

Signoraggio, che passione!









Tutti sappiamo che, dalla firma del Trattato di Maastricht in poi, siamo stati fregati, ma fregati di brutto: il reddito di signoraggio è passato nelle mani di una banca privata ed extraterritoriale, ossia sta a Francoforte ma è come se si trovasse a Bankenland. Nessuno le può dire niente: e poi, qualcuno, si prende ancora del fesso perché si chiede che fine abbiano fatto le prerogative degli Stati nazionali!
Non serve triturarsi il cervello su nuove monete, uscita dall’euro e via bofonchiando, poiché il reddito di signoraggio è parte integrante del sistema capitalista.
Siccome una moneta, nel momento stesso nel quale viene coniata, crea dal nulla la differenza fra il suo valore metallico ed il valore assegnato (un tempo dal signore, e dunque signoraggio) non è su questo valore che si deve dissetare, bensì dalla destinazione dello stesso.

Nelle economie liberiste è prerogativa del sistema bancario (e, dunque, dei banchieri), in un sistema veramente socialista viene messo a bilancio nella parte attivi, in un sistema misto (come era l’Italia, ma qui ci sarebbero molti “però” da aggiungere) era a disposizione della classe politica.
Per questa ragione, le soluzioni al problema vanno prima viste a livello storico, e poi declinate a livello politico: senza credere, però, che una classe politica come quella attuale si degni di concedere redditi di signoraggio, nuove monete e quant’altro.

La genesi del problema è degli anni ’70, quando le lotte operaie marcarono così stretto il sistema capitalista da ottenere non sono onori, ma ben precisi diritti.
In una intervista all’avv. Agnelli del sempiterno Bruno Vespa, salta fuori un discorso interessante, visto il personaggio che si confida al Vespone nazionale.
L’intervista – del 1976 – è riportata dal Giornale (1), e mostra un Gianni Agnelli affranto, assediato dai collettivi sindacali in fabbrica e dalle Brigate Rosse fuori, che vuole cedere: racconta a Vespa d’essere d’accordo per avviare la mitbestimmung, ossia la cogestione delle aziende fra proprietari e maestranze, come avviene in Germania per dettato costituzionale. Che frutta, a fine anno, a seconda delle aziende, dal 4.000 ai 7.000 euro per lavoratore, oltre al già “succoso” salario (2): per questa ragione i tedeschi sono sempre i più presenti a crociere, viaggi aerei, villaggi vacanze, ecc.
Gianni Agnelli è d’accordo, chi si mette di mezzo?
Luciano Lama – classe 1921 – non è d’accordo: sogna, per il sindacato (in particolare per la sua CGIL) un ruolo diverso, più alto. Lama vuole portare il sindacato a diventare il potere, super partes, più in alto della classe politica e di quella imprenditoriale: è ancora intriso di sindacalismo rivoluzionario, quella branca di pensiero politico che cerca di superare la dicotomia fra Lenin e la Luxemburg (rivoluzione e basta) e Karl Kautskji (il potere grazie alla compartecipazione al capitalismo), ossia il sindacalismo rivoluzionario, che avrebbe condotto la classe operaia al potere che nasceva dal disporre dei mezzi di produzione (cosa falsa, ma tant’è) .
E’ di quegli anni la grande conquista sindacale: la cosiddetta “scala mobile” che mette al riparo il lavoratore dal rischio di vedersi “scippato” il salario da ogni aumento reale dall’inflazione.
In quegli anni – e ne ho un ricordo personale – lo stipendio era “magico”: inflazione al 4% su base trimestrale? 25.000 lire d’aumento ogni trimestre. Pareva il Bengodi. Ogni anno che passava – con inflazioni che raggiunsero il 20% - uno stipendio di 500.000 lire diventava, a fine anno, di 600.000, e si viveva bene.
Immaginate, se guadagnate mille euro, che ad ogni fine anno diventano 1.200. Com’è?

I nodi – con una simile inflazione – non tardarono a venire al pettine: ciò dipendeva dal fatto che non c’era nessun accordo preventivo sulla ripartizione del plusvalore generato dai lavoratori, bensì si lasciava tutto nelle mani di un sistema automatico. E alla classe politica.
I quindici anni dal 1975 al 1990 furono senz’altro i più ricchi di soddisfazioni per i lavoratori italiani: poi, visti i pessimi risultati di una classe politica ladrona, si giunse a Maastricht.
Ovvio che una classe politica che ha sempre la “riserva” del signoraggio sotto mano, è portata a sottovalutare le conseguenze delle sue azioni: tanto, a fine anno, s’aggiusta tutto…
Ricordiamo solo un caso: i fondi per il sisma dell’Irpinia del 1980, che ammontarono all’astronomica cifra di 50.000 miliardi di lire – una follia per l’epoca, quando non molti guadagnavano un milione il mese – che furono saccheggiati dalla camorra e furono la prima “base” per un riconoscimento politico del legame fra politica e malaffare.

Oggi, si prospettano soluzioni “salvifiche” – il signoraggio, la democrazia diretta, il reddito di cittadinanza, ecc,ecc – ma nessuno ne indaga le basi: la ripartizione dei proventi dell’impresa, che è alla base del capitalismo.
Benissimo riappropriarci del signoraggio sulla moneta – Weimar insegna – ma dopo? A chi consegniamo le chiavi del forziere se non ci sono regole costituzionali alle quali attenersi?
Le diamo a Renzi, a Berlusconi, a Prodi oppure a Grillo…non cambia niente! Tutti sono bravi a promettere ma poi, quando hanno a disposizione un fondo consistente a fine anno, le clientele politiche – che generano voti – prendono il sopravvento su qualsiasi buon proponimento.
E, una riforma costituzionale che assegni – con il rango della legge più elevata dello Stato – la ripartizione dei dividendi, ha un solo nome: socialismo.  
Fate voi.