29 giugno 2017

E bravo ministro Nasone!


Come mi piace il ministro Gianluca Galletti: mi piace soprattutto per la sua competenza e per la sua statura istituzionale. Per cercarlo su Google ho fatto fatica: continuavano a propormi solo galletti amburghesi: vuoi comprare galletti amburghesi? Fissa il prezzo su…compra, qui, galletti amburghesi congelati…tutta la fragranza…garantito…
Non sapevo che esistesse anche un ministro Galletti, un ministro del governo Gentiloni, ex Renzi, ex UDC, ex Casa delle Libertà, ex nuclearista convinto (anche nel proprio giardino! tuonava…) ex assessore del sindaco Guazzaloca (cdx) di Bologna, convinto assertore della difesa della famiglia, attivo partecipante al “Family Day”, ecc, ecc, ecc…
E’ il tipico politico della nostra era, come ritmava Fossati in La mia banda suona il rock: “oggi, fare tutto è un’esigenza”. Insomma, ha fatto carriera semplicemente perché è il commercialista di Casini.

Così, si fa anche il ministro dell’Ambiente, con sublimi competenze che gli derivano dall’aver spulciato, per anni, bilanci e bilanci. Buoni, truccati, da truccare, santissimi, maleodoranti e pizzineschi.
Quando l’Ambiente non dorme e da segno di sé – ancora Fossati…”Panama, che non dà segno di sé” – fra una piñacolada e un piatto di tortellini, si deve inventare qualcosa perché c’è la siccità. Ovviamente, tipi come il nostro bel Galletto non credono un acca del mutamento climatico: non perché se ne siano fatti un’opinione, ondeggiando fra i sostenitori della teoria antropica e, all’opposto, quelli della teoria dei cicli climatici naturali…no…semplicemente, non ne sa proprio niente!

Proprio mentre è al telefono con Pierferdinando – Ehi, Pier, devi mandarmi il bilancio della tua fondazione, altrimenti come faccio a farti avere lo sgravio fiscale? Quand, mercul d’sira? An pos brisa…go da andar a Mirandola, por la festa dal m’lon…eh, cusa vol c’at diga…ben, alora fem Giobia…as fem du turtein d’la Cesira? Va be, a Giobia d’sira… – mentre squilla l’altra linea, quella pubblica.
E un giornalista dei “nostri” – an pos brisa dirg ad no, ciao Pier, a Giobia – che gli chiede cosa farà il governo per ovviare alla siccità. Lì per lì, gli viene da dire: cosa vuole che ne sappia io?!? Poi, si ricorda d’essere il Ministro dell’Ambiente, quello con la “A” maiuscola.

Prende tempo: un attimo…mi chiamano sull’altra linea…soldi da dare agli agricoltori non ce ne sono, Sioux che facciano la danza della pioggia non ne conosco…e poi è meglio di no, che quando l’acqua arriva ne arriva sempre troppa (eh, non conoscere a fondo cosa vuol dire mutamento climatico N.d. A.)…insomma…chiama la moglie: “come si chiamano le fontane di Roma?”
“Nasoni, Gianluca, ma dai, come fai a non saperlo…”
Ma s’a vot ch’al sapia mi…pronto, eccomi, mi scusi…
“Chiuderemo i Nasoni…le fontane di Roma…sa, per via del Lago di Bracciano, delle sorgenti…metta giù due righe, tanto non possiamo far niente con la Merkel, figuriamoci con Giove Pluvio! Arrivederci, la saluto.” A l’è pront da magner?
Nell’Italietta post berlusconiana e post renziana, ci scusiamo coi lettori: non riusciamo ad inventare nulla, nessun complotto…c’è solo da ridere…

A parte, Ministro Nas…pardon, Galletti, che basterebbero dei semplici rubinetti col pulsante a tempo (magari dietro la colonnina, per non rovinare l’estetica)…ma lei si rende conto che è andato a scomodare una pulce quando in casa è entrato un elefante?
Se, invece, vuole saperne qualcosa di più mi limito a copiarle una soluzione (per carità: una delle molte: ci sono i dissalatori ad energia solare, il recupero delle acque reflue dei depuratori, l’irrigazione a goccia, ecc )…solo che è un po’ datata…la pubblicai il 4 Aprile del 2008…ma non si preoccupi, è attualissima! Tanto, non avete fatto niente!

Le ragioni dell’acqua (estratto)

Tre semplici chiuse

Il dimenticato “pianeta acqua” è dunque composito ed insostituibile: dalla tazza di tè alla centrale idroelettrica, dal pomodoro alla tintura dei tessuti. Cosa possiamo fare? Precisiamo che – a parte tanta aria fritta – non si sta facendo nulla. Allora, cosa si potrebbe fare? I grandi laghi prealpini hanno dei livelli minimi e massimi: secondo il Limno – la Banca dati dei laghi italiani – il Lago Maggiore ha addirittura un’escursione di circa 3,2 metri dal livello di massimo invaso al minimo, quello di Como di circa un metro e pressappoco 2 metri il Garda. Ci sono, poi, altri laghi minori.
In Primavera, i laghi raggiungono alti livelli con le piene primaverili e lo scioglimento delle nevi, ma tutta quell’acqua se ne va con il finire della Primavera, e in Estate – quando servirebbe – sono già ai livelli minimi. Basterebbero tre chiuse, tre sole chiuse che permettessero di mantenere i laghi agli alti livelli primaverili, per rilasciare poi lentamente l’acqua durante l’estate e utilizzarla per gli usi irrigui. Inoltre, mantenere su livelli costanti i laghi creerebbe meno problemi alla navigazione interna. Costo? Pochi milioni di euro (recuperati ampiamente, se ci fossero anche tre turbine idroelettriche a valle delle chiuse). Non miliardi come il Ponte sullo Stretto di Messina o per le banche venete.
Quanta acqua si riuscirebbe a trattenere in quel modo? Circa 1 miliardo e mezzo di metri cubi d’acqua. A quanto ammonta la portata del Po nella stagione di magra? Secondo il Consorzio Navigare sul Po, a circa 420 m3/s: con quell’acqua sarebbe possibile raddoppiare la portata del Po per un periodo pari a circa 41 giorni, ossia proprio nei momenti più acuti della siccità. Dalla gestione delle risorse idriche, quindi, dobbiamo passare a quella del sistema acqua: sembra un cavillo, ma è una distinzione profonda e di merito. La gestione del sistema acqua non consente solo d’avere più acqua quando serve, ma anche ad evitare le rovinose alluvioni dell’Autunno.

La gestione delle acque dolci

In Italia, non esiste il concetto di gestione delle acque dolci: nei paesi dell’Europa Centrale, le merci viaggiano per il 30% su fiumi e canali, da noi meno dell’1%. Il “pianeta acqua” incrocia anche il mondo del trasporto, e dove lo fa i risparmi sono evidenti: in Germania il passaggio delle merci dalla produzione alla distribuzione costa circa il 2% in meno che in Italia, proprio l’aggravio che comprende il trasporto.
L’UE, nel suo libro bianco La politica europea dei trasporti fino al 2010: il momento delle scelte ricordava che il bacino del Po è sotto-utilizzato per le sue potenzialità di trasporto, ed era disposta a finanziare fino al 50% della fase di progetto e fino al 10% delle opere per rendere navigabile il Po, dal Delta a Piacenza con diramazione verso Milano. I costi? Il Consorzio Navigare sul Po li stimò nel 2000 in circa 400 miliardi di vecchie lire: circa 200 milioni di euro che, con il contributo europeo, si sarebbero ridotti probabilmente a 100.
Inoltre, risistemando i fiumi, s’otterrebbero fondi attivi dalle cadute d’acqua (un tempo, le utilizzavano i mulini ad acqua): la Russia è il primo Paese al mondo per lo sfruttamento delle cadute d’acqua delle chiuse.
Qualcuno ne ha sentito parlare? Si è fatto qualcosa? Purtroppo, manca in Italia una visione politica che sia vicina alle necessità del Paese, che guardi alla soluzione dei problemi senza verificare, prima, se “tangenziale” fa rima con “tangente”. Sorella acqua è d’animo gentile e ci sta mandando innumerevoli segnali: la stiamo sottovalutando, ingiuriando, violentando. Non sia mai che passi ai fatti. 

Non m’era mai capitato di ri-pubblicare un articolo e di trovarlo così attuale. Per chi volesse legger l’articolo integralmente, l’indirizzo è: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=18621

At salùt, Nason! Dighal a la festa dal m’lon: anche par far i m’lon ag vol d’laqua…

24 giugno 2017

Storia di mafie, di rivoluzioni mancate e di patti fruttuosi

Vincenzo Ottorino Gentiloni
Che l’Italia fosse una terra dominata dalle mafie è un fatto risaputo, ma che un importante “pezzo” dello Stato – il Procuratore antimafia Roberti – lo ammettesse (1) freddamente durante un’audizione di fronte alla commissione antimafia della Camera, dovrebbe far meditare. Non tanto per il fatto in sé, quanto per le varie strategie politiche di cui, spesso, si sente dissertare, condite – a volte – persino da litigi di parte…tutto ciò viene completamente azzerato dalle dichiarazioni di Roberti: nulla, al di fuori del potere “nello” Stato – a questo punto nello Stato Mafioso – può essere fatto, né immaginato, e forse nemmeno sognato, per non incorrere nel reato di “lesa mafiosità”.

Penso soprattutto a Grillo ed al M5S – gli altri, contano come il due di coppe: o sono mafiosi, massoni, ecc oppure anelano a diventarlo.
Forse è meglio fare un breve sunto delle dichiarazioni di Roberti, perché c’è da tremare: incredibile questo scorcio di millennio italiano, un “1984” dove un Paese non viene asservito e dominato da una sorta di potere hitleriano o fac simile dello stesso, ma da cupole e famiglie mafiose. Le quali, decidono se un ospedale va chiuso o costruito, se una strada deve andare in malora oppure diventare una superstrada (con ponti e cavalcavia temporizzati, ossia che crollano a tempo debito per riproporre un nuovo appalto) e tanti, tanti mezzi che spostano terra. L’Italia non è la terra del sole, è la terra della terra. Da scavo.

E’ sufficiente ricordare che la terra scavata per il terzo valico ferroviario (alle spalle di Genova, già in territorio piemontese) è stata portata a Stella, il paese di Pertini, a 10 chilometri da Savona. Quando gli amministratori locali hanno chiesto se, con quella terra – una vera e propria montagna – potevano pianeggiare alcune aree per costruire un campo di calcio, la referente fam…scusate l’azienda…ha risposto picche.
Quella terra non si tocca! Finirà a Pra (rione di Genova) non si sa bene quando, il perché e il percome. Sei autocarri per il trasporto della terra sono andati e venuti per mesi – sei corse ciascuno il giorno – per circa 90 km di tratta…fate voi…quanto vale ‘sta terra!
Mi sa che grazie ad appalti, subappalti storni e deroghe – e corrispondenti variazioni nel bilancio statalregionalcomunale –  l’abbiamo pagata come oro. Chi? Ma noi! E chi credevate!

Ma Roberti spiega anche che, mentre la camorra è quasi insignificante (sotto l’aspetto della penetrazione nello Stato) e la mafia in altre faccende affaccendata (governare la Sicilia, come base per i suoi traffici internazionali) la n’drangheta è la vera Primula Rossa colei che, nata da un contesto contadino su base quasi tribale, è divenuta il mezzo più duttile per fare affari con questa classe politica.
Mentre le altre mafie hanno strutture verticistiche (il richiamo a Messina Denaro è d’obbligo) le varie n’drine sono “contesti economico-affaristici” che si attivano direttamente, senza ingombranti “cupole” che generano difficoltà per essere attivate, e veleni a non finire se qualcuno scopre la frittata. I tanti casi, da Della Chiesa in poi, lo indicano chiaramente: mafiosi che si pentono e pentiti che si “spentiscono” sono all’ordine del giorno, cascate di fatti, eventi, dichiarazioni che generano affanni anche ad una mente allenata alla logica più raffinata. Con processi millenari che terminano fra le sabbie di un deserto giuridico.

Con la n’drangheta – e le sue moltissime famiglie – si può fare affari immobiliari (od altro) senza rischi, poiché i patti sono chiari e le eventuali controversie sono decise dai capi delle varie n’drine, che cercano sempre l’equilibrio interno/esterno, fra gli affari che coinvolgono lo Stato ed il traffico di Cocaina il quale – almeno ufficialmente – lo Stato dovrebbe contrastare. Su tutto, deve regnare il silenzio della pax mafiosa.
In questo panorama economico “on demand” la vetustà e la frammentazione della struttura calabrese diventa duttile, più moderna della blasonata mafia o della vulcanica camorra.
Roberti mette l’accento sulla “quarta mafia”, ovvero la Sacra Corona Unita pugliese, che viene spesso dimenticata.

Se vi recate in Albania, sarete sorpresi dal fermento economico, un roboante “sviluppo” che nasce da un accordo – ovviamente non scritto e nemmeno riconosciuto – fra lo Stato ed i produttori di cannabis, la quale viene rivenduta in Italia e, da lì, prende la via dell’intera Europa. Qui, Roberti deve avere notato la similitudine fra la mafia pugliese e la n’drangheta: la prima s’è impadronita del settore di produzione albanese, mentre la seconda – da molto tempo – s’è insediata a Medellin e, da lì, dirige i traffici di coca verso l’Europa.
C’è veramente poco da star allegri e Roberti aggiunge un personale rimedio: liberalizzare la cannabis. Nulla in contrario…ma…per riprendere il controllo dello Stato dovremmo liberalizzare anche la Cocaina, poi l’Eroina, i vari allucinogeni in pasticche…è questa la strada?

Roberti non si dilunga (almeno, così riportano le agenzie) sul com’è nato il rapporto – diciamo “confidenziale” – fra la n’drangheta ed i servizi. Credo di saperlo: basta risalire la scia di sangue che hanno lasciato.
Nel 1970, durante il tristemente famoso “Boia chi molla” di Reggio Calabria, un gruppo di cinque anarchici – il cosiddetto gruppo della Baracca – svolgeva un lavoro di controinformazione, con ciò che avevano a disposizione all’epoca, macchine per scrivere e fotocamere.
Dissero d’aver scoperto “cose che avrebbero fatto tremare l’Italia” e partirono per Roma, dove avevano un appuntamento con l’avv. Di Giovanni, uno dei redattori de “La strage di Stato”. Non arrivarono mai: giunti a Frosinone finirono contro un camion e persero tutti la vita nell’incidente.
Ritengo che (non) vi stupirà sapere che gli agenti della squadra politica di Roma giunsero (od erano già lì) prima ancora delle ambulanze: nulla del loro materiale, scritto e fotografico, fu ritrovato.
Ma la storia continua, perché Francesco Mastrogiovanni – il maestro di Pollica ucciso con un TSO – stava tornando ad indagare su quei lontani eventi: 87 ore d’ospedale lo ridussero cadavere. Ma anche il sindaco che aveva ordinato il TSO – Angelo Vassallo – fu ucciso e non si risalì mai all’autore. Quando, in quelle terre, un omicidio non trova nessun pentito, nessun pizzino, nessun confessionale né amante che si lasci sfuggire qualcosa, state certi che non è solo mafia, c’è dell’altro. “Meglio prevenire, cancellando, che reprimere” deve aver pensato il killer mentre riponeva la pistola.
Quando scoppiò la nota vicenda delle navi dei veleni, il pentito Francesco Fonti rivelò d’essere in contatto, per quei traffici, con il SISMI, nella persona di Guido Giannettini: della serie, “a volte tornano”.

Credo che potremmo continuare, ma non voglio abusare della vostra pazienza: sono cose risapute, che però, ogni tanto, è meglio ricordare.
Il problema è: preso atto della situazione, una forza politica che desideri mantenersi estranea al gioco Stato/Mafie per giungere al potere, quale strategia deve attuare?

L’unica forza politica che non è mai stata al governo è il M5S: tutti gli altri si sono abbondantemente nutriti del latte mafioso.
Oggi questa domanda è d’obbligo, poiché si nota – a grandi linee – che l’elettorato italiano è ripartito in tre parti equipollenti: destra, sinistra e M5S, non sottilizziamo su queste definizioni e prendiamole per buone, 33,33 e 33, come il Leonardo di Benigni e Troisi. Ecco perché la legge elettorale è il terreno di scontro, perché solo essa può far prevalere una parte sull’altra, non il voto.

Il M5S nasce come movimento d’opinione, ed ottiene un successo insperato nel 2013: lo spreca malamente, rifugiandosi in un Aventino senza dar segno di sé, cosa che sarebbe stato in grado di fare, ma meglio, chiedendo tre ministeri “di peso” (Interni, Economia e Giustizia) sui 12 con portafoglio ed obbligare il PD ad un ovvio rifiuto.
L’immagine che avrebbero dato agli italiani sarebbe stata di un movimento che sa quel che è importante e lo chiede, senza complessi: per il PD sarebbe stato (mediaticamente) difficile (e costoso) quel rifiuto, invece ci toccò sorbirci la penosa menata di Crimi e della Lombardi, che i due ascoltatori del PD ascoltarono annoiati. Tanto, questi non graffiano – compresero – e non hanno nemmeno capito come possono “spendere” al meglio il credito elettorale che gli italiani hanno loro conferito.

Quando, poi, il M5S si avviò per partecipare – e in alcune realtà vincere – le elezioni amministrative, Renzusconi giubilò: si vanno a fiondare direttamente, da soli, nel tranello!
Le realtà amministrative sono la feccia del malaffare, dove tutti s’abbeverano al bilancio statale ed alle tasse locali per finanziare le loro tasche, quelle dei loro amici e sostenere il sistema delle tangenti, il solo modo per sopravvivere politicamente: il voto è trapassato dall’antica appartenenza alla partecipazione interessata, che è l’anticamera del voto di scambio.

Nel mare magnum delle amministrazioni si consuma ogni crimine, Formigoni docet, ed è difficile starne fuori poiché le sfaccettature del sistema sono infinite, basti pensare ad un movimento di rinnovamento cattolico – nato negli anni ’70 – trasformato nel centro di potere delle male amministrazioni d’ogni colore.
Poi, ci pensa la stampa “amica” – la Raggi ora se ne accorge – poiché anche un rifiuto viene trasformato in una vicenda giudiziaria, laddove mille veleni – veri o falsi – vengono adombrati od esaltati, atti alla bisogna. E la gente non comprende più: torna a pensare “sono tutti uguali”.

L’unico modo d’imporsi, per un movimento d’opinione, è quello di tenersi distante da ogni realtà maleodorante, poiché o cambi il sistema di “lavoro” – e questo puoi farlo solo se hai le leve del vero potere in mano: magistratura, forze armate, servizi, ecc – oppure ne stai fuori.
C’è un aneddoto che raccontano in Marina: “Se sei su un sommergibile a 300 metri di profondità e vieni centrato in pieno dalle cariche esplosive, come fai a salvarti?” La risposta è “Non esserci sopra”.
C’è un interessante precedente: parliamo di Gentiloni.

No, non si tratta del penoso e traballante homunculus che siede a Palazzo Chigi, bensì del suo avo Vincenzo Ottorino, noto per il famoso “Patto Gentiloni”.
Dopo il 1870 e la conquista di Roma da parte italiana, il papato si chiuse ermeticamente nei confronti degli invasori, ma aveva le sue “truppe” dislocate su tutto il territorio, dalle Chiese alle Associazioni cattoliche. Con un semplice “non expedit” – “non conviene”, contenuto nell’enciclica – le curie s’opposero a qualsiasi tipo di partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana.
Nel 1912 la situazione dovette far meditare che era il momento d’agire (si dovevano contrastare i socialisti ed i radicali), così Vincenzo Ottorino Gentiloni – che era presidente dell'Unione cattolica romana stilò il noto patto, che riammetteva i cattolici al voto. Il patto fu fra Giolitti e Gentiloni, a nome del Papato: la proibizione fu però abolita solo nel 1919, dieci anni prima dei Patti Lateranensi.

Poi venne il Fascismo, e la politica divenne sotterranea, ma anche i cattolici ebbero i loro martiri, Don Minzoni, ad esempio.
Nel 1946, la “macchina” politica democristiana era pronta, pulita e oliata per reggere il Paese per quasi mezzo secolo.
Ancora nel terzo millennio, però, i cattolici – Casini e Buttiglione da un lato, Franceschini e Gentiloni dall’altro – ogni settimana s’incontravano in un discreto convento di monache, a Roma. Se Roma divenne italiana, l’Italia diventò Vaticana.

Per questa ragione – se c’è ancora il tempo per farlo, questa valutazione dovrà essere del M5S stesso – la decisione dovrà essere presa, poiché nell’attuale situazione non c’è speranza di giungere a niente, senza gravi e pericolose convergenze – che l’astuzia dei parlamentari grillini, unita all’assenza di un centro politico chiaro nel Movimento – non sembrano consigliare.
In effetti, l’unico che raggiunse il “potere del 51%” – in qualche modo – fu De Gasperi, l’erede designato dall’astensione in politica del 1870 e, quindi, del Patto Gentiloni.

Certamente, le menti che presagirono quella “lunga marcia” verso il potere erano menti raffinate e pazienti, per contrappasso, però, oggi le situazioni – visto il grave stato nel quale sopravvive il Paese – s’evolvono con maggiore velocità.

L’unica cosa certa è che il M5S – se continuerà su questa strada – finirà per farsi inglobare (anche senza partecipare!) al mondo corrotto che li circonda, senza nessuna speranza di giungere al potere. Al potere che conta, ovviamente: se s’accontentano solo delle poltrone il problema non esiste.

Siediti e aspetta, ma non partecipare: il decalogo del movimento d’opinione rimane sempre quello, mentre la prassi indica che, quando il bacino si riempie troppo, l’onda tutto travolge. Ci vogliono nervi saldi e menti raffinate: qualità che, purtroppo, non mi rendono ottimista.

10 giugno 2017

Due conti della serva


Una sera qualunque, a casa d’amici: senza saperlo, sto per accedere ai veri conti dell’economia spicciola, quelli che gli italiani fanno tutti i giorni. In questo caso, i conti dei padroni. Sono conti della serva fatti a spanne, però ci danno il “polso” di come s’è trasformata l’economia della produzione dei comuni beni di consumo, quelli che troverete nelle grandi catene commerciali, nei franchising, negli ipermercati.
Sono le 22,30: arriva, visibilmente stanco, il figlio che ha terminato il turno in fabbrica. Si siede, assaggia una torta, beve un bicchiere di vino. Ha gli occhi fissi su qualcosa di lontano, come quelli di una persona che non riesce a staccarsi da un sogno. O da un incubo.
Domanda banale: come va il lavoro?

Risposta scontata: bene, ho finito il secondo turno, quello dalle 14 alle 22, la prossima settimana farò la notte.
Sgranocchia la torta, sorseggia il vino: non riesce a staccarsi da qualcosa che gli ronza in testa, come un’ipnosi che ancora lo pervade.
Lavora in una fabbrica dove si fanno oggetti abbastanza costosi, di largo consumo: due macchine automatiche le quali necessitano solo d’essere alimentate manualmente.
Ossia, si prende un pezzo, lo si sistema sulla macchina, si preme un pulsante ed una resina calda scende nello stampo: 15 secondi, la resina è solida, si stacca e si ricomincia. Il pezzo finito esce già pronto per la vendita.

Come avrete compreso, mi tengo sul vago per non rendere riconoscibile il bene prodotto o la fabbrica di produzione, ma si tratta di qualcosa che milioni di persone usano quotidianamente.
Quanti pezzi riesci a produrre in un turno? 1.400 circa.
Tre turni, due macchine: 8.400 pezzi il giorno. Ogni tanto, capita un piccolo intoppo (il pezzo non si stacca subito, oppure il pezzo superiore ha un difetto, ecc): scendiamo ad 8.000 per fare cifra tonda.
Quanto costano questi beni?
Sono di ottima qualità – racconta – e, alla vendita, il costo d’acquisto s’aggira sui 140 euro. Mi fa vedere un esemplare: veramente bello e robusto.

I conti sono presto fatti: ipotizzando che i pezzi siano venduti al grossista (od alla grande distribuzione) alla metà del prezzo di vendita (una stima abbastanza realistica), fanno 70 euro x 8000: 560.000 euro il giorno. Sì, avete letto bene: incassano più di mezzo milione di euro il giorno. 15 milioni di euro il mese, perché – ovviamente – la produzione è continua e non ci sono Domeniche, Pasque o Natali che tengano.
Approfondiamo l’analisi, tenendo conto che sono conti della serva: utili, però, per comprendere – a grandi linee – qual è la ripartizione fra capitale e salario.
I pezzi che assemblate, li fate voi?

No, li comprano in un piccolo Paese dell’estremo Oriente: li pagano pochi spiccioli.
Li osservo e non ho difficoltà a crederlo: ben fatti, precisi, Immagino mani di donne o di bambini che cuciono, legano, rivettano…e poi una grande portacontainer che giunge a Porto Vado (praticamente, Savona) dove vomita i suoi container dai quali schizzano fuori migliaia, milioni di pezzi.
Cosa vuoi dire con “pochi spiccioli”? Scuote la testa: “proprio pochi, un’inezia”.
Non riesco a sapere di più: pochi spiccioli vorrà dire 5 o 10 euro? Mettiamo 10, tanto per strafare.
E la resina?
Qui, ne so più io di lui.

La resina che utilizzano è comunissima: deriva – ovviamente – dagli intermedi di reazione i quali, altrettanto chiaramente, si ricavano dal petrolio, mediante processi di cracking e di reforming. Come giocare con il Lego: ho una molecola grande? La rompo in due, od in quattro…poi la unisco ad un pezzo da sei, ci attacco un pezzo da tre e…voilà, la resina è pronta.
Si può venderla solida per comodità di trasporto, oppure mantenuta fluida mediante autobotti riscaldate…dipende dal tipo di produzione e dal tipo di resina.

Il 5% del petrolio che importiamo va all’industria petrolchimica, che si distingue per il bassissimo apporto di manodopera rispetto al capitale investito in tubi, cisterne, refrigeratori, riscaldatori…perché quel gioco del “rompi e incolla” avviene semplicemente tramite temperature, pressioni e catalizzatori. E si producono – veramente a fiumi – gli intermedi, che poi prenderanno la via delle vernici, dei medicinali, delle materie plastiche, ecc.
Tanto per capirci, i medicinali dal costo contenuto – diciamo la fascia da 0 a 20 euro – sono tutti prodotti da intermedi del petrolio. Idem le vernici, e tutto il resto.
Un chilogrammo di resina per pezzo è un costo che è addirittura difficile stimare: più centesimi che euro, tanto per intenderci.
Quindi, per le materie prime, possiamo ipotizzare 12 euro: 10 per il pezzo che è importato, qualche centesimo di resina ed un euro per la confezione.
Veniamo al personale.

Le macchine sono due e lavorano su tre turni: 6 persone. Ovviamente, dobbiamo calcolare anche eventuali rimpiazzi. Facciamo 8? Poi, tre addetti per l’impianto delle resine (uno per turno), qualche meccanico, elettricista, magazziniere, confezionatore, e poi due impiegati, un paio di dirigenti…quanto fa? 25 persone? Ma facciamo 30, dai…ad abundantiam…
30 persone che non ricevono identico salario: per gli operai stimiamo un costo di 3.000 euro il mese ciascuno, e fanno circa 70.000 euro, poi ci sono i dirigenti…100.000 euro in tutto? Ma sì, dai, non lesiniamo. Sono paghe mensili, non dimentichiamo.
Energia: certo, di corrente elettrica, acqua, spazzatura e tutto il resto ne fanno andare…stimiamo 10.000 euro il mese? Proviamo.
Infine, ci sono i costi d’ammortamento del capitale investito, provenienti – di norma – dalle banche.

Qui le ipotesi sono più difficili: ricordo che una macchina che assemblava – da sola, bastava alimentarla con le componenti – le porte blindate, in anni lontani, costava due miliardi di lire. Un impianto per produrre pellet si aggira (secondo le dimensioni) fra il milione ed i 10 milioni di euro.
Con due macchine per l’estrusione della resina, più l’impianto di alimentazione della resina stessa, quadri elettrici, tubature, e poi il magazzino con l’immancabile furgone e l’elevatore per le merci…beh…ritengo che l’investimento sia stato di 5 milioni di euro, forse meno che più.
Le banche cosa chiedono?
Per un investimento di 5.000.000 di euro, restituibile in 5 anni, la rata mensile s’aggira intorno ai 70.000 euro.

Infine, c’è il socio occulto: lo Stato. Quanto saranno le tasse? Qui ci sono le mille alchimie dei bilanci…proviamo con la massima, ovvero il 43%?
Possiamo, a questo punto, scrivere un conto economico che ci darà, a grandi linee, la “fotografia” di una piccola azienda.

INCASSO ANNUO: 204.400.000 euro

SPESE ANNUE:

Materiali (pezzi, resine, energia, ecc): 35.160.000

Spese per il personale (13 mensilità): 1.300.000 euro

Spese finanziarie (banche, mutui, ecc): 840.000 euro

TOTALE SPESE: 37.300.000 euro

AVANZO (al lordo delle tasse): 167.100.000 euro

Tassazione (43%, massima): 71.853.000 euro

GUADAGNO (al netto di spese e tasse): 95.247.000 euro.

Non pretendiamo d’aver definito con precisione la “vita” di quell’azienda, ma d’aver tracciato almeno gli ordini di grandezza all’interno dei quali opera.
Come noterete, non è stata considerata l’IVA, perché l’IVA è una partita di giro, ma non a risultato zero: sarebbe troppo difficile calcolare, per ogni singolo passaggio, il dare/avere dell’IVA. Così come non sono state considerate le tasse d’importazione ed i trasporti. Oppure le agevolazioni che l’azienda incassa dallo Stato per l’assunzione di personale. Ci sono una miriade d’altre variabili, ma sono soltanto un corollario che non muta il quadro generale.

Un dato, però, è chiaro: le retribuzioni – soprattutto quelle degli operai – sono una frazione infinitesima del guadagno netto: circa il 2%. In altre parole, se l’orario di lavoro fosse di 20 ore settimanali (la metà, a parità di salario) per l’azienda i costi per il personale salirebbero soltanto al 4%. Un po’ la vecchia idea di “lavorare meno e lavorare tutti”.
Ma i costi per il personale sono comprimibili, mentre non lo sono la tassazione (che fa la parte del leone), le banche, che sono praticamente un “cartello”  ed i costi di produzione, l’energia, le tasse comunali, ecc.

Come si è arrivati a questa situazione?
Il grande colpevole è stato il sindacato: venduto è ancora dire poco. Connivente, partecipativo con il capitale.
Questo ha condotto alla crescita dell’indice di Gini, e dunque alla sperequazione nella ripartizione della ricchezza.

Lo vediamo tutti: per un imprenditore, acquistare un’automobile da 80.000 euro è come, per noi, comprare una bicicletta usata. Se non ci credete, recatevi al porto di Varazze ed osservate. I cantieri navali sfornano a ripetizione yacht – i cosiddetti “ferri da stiro” – di 20-30 metri, con motori di migliaia di Cv. Costo: 2-3 milioni di euro.
Una parte di questi mastodonti viene usata per le tangenti: giri e rigiri di denaro per far impazzire i magistrati che indagano, quando non sono anch’essi conniventi. Oppure sono destinati alla vendita, ma qui avviene un paradosso: si vende più facilmente un colosso del genere (iscritto alla Cayman, ovviamente) che una piccola barca per uso familiare. La classe media è sparita, fagocitata dai grandi capitalisti, mentre la classe operaia vive condizioni al limite della schiavitù.

Del resto, la classe politica – e questo è un leitmotiv che dura dall’Unificazione – preferisce prendere poco a tanti, piuttosto che tanto a pochi.
Se osserviamo come vanno le cose in Germania, notiamo che – grazie alla cogestione – il sistema, seppur parzialmente, si riequilibra, poiché 4-6000 euro l’anno di premio di produzione, oltre al salario, fanno la differenza fra una vita di stenti ed una da cittadini.
Inoltre, la facilità del “far soldi” non stimola a produrre beni innovativi, non incentiva la ricerca: se guadagno tanto fabbricando scarpe, pneumatici o pentole a pressione, perché devo impegnarmi a studiare soluzioni innovative sul fronte energetico o nei trasporti?

La nostra classe politica potrebbe mettere in Costituzione (come fece la Germania) la partecipazione agli utili dell’azienda, ma se ne guarda bene: riceve troppe pressioni (leggi: soldi) per applicarsi in questo campo e nessuno ne parla mai.
Loro, discutono di legge elettorale, perché è il mezzo mediante il quale definiranno gli equilibri interni alle forze politiche per i prossimi decenni: che gliene frega di noi?

Beh, se le cose stanno così…non vado più a metter crocette su delle schede elettorali fasulle, almeno mi risparmio la rottura di scatole. Almeno, all’orizzonte, ci fosse qualche prospettiva, ma così no, non ne vale la pena.